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Proviamo a comunicare, condividere, criticare per costruire, confrontarci, ascoltarci, relazionarci. Proviamo a crescere oltre i nostri confini.

 

 

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Post N° 17

Post n°17 pubblicato il 24 Dicembre 2008 da counselor63

COMUNICARE

Il modello verbale

Nel modello personale verbale, ognuno di noi include una serie di riferimenti che sono frutto delle proprie esperienze. Queste esperienze, che sono di varia natura, sappiamo che andranno a formare un modello individuale del mondo. Nello specifico le parole sono il risultato del modello del mondo che ci rappresentiamo internamente e che ci permettono di comunicare con il mondo esterno. Ma nel comunicare un nostro concetto, un nostro sentimento, o semplicemente un fatto accaduto, un aneddoto, tendiamo a fare tre passaggi:

  1. Generalizziamo;

  2. Cancelliamo;

  3. Deformiamo.

Nel comporre una qualsiasi frase quindi omettiamo elementi importanti che sono propri della struttura profonda del linguaggio, dando luogo ad una struttura superficiale. Questo è naturale perché, come abbiamo visto, nel rappresentarci internamente le nostre esperienze tratte dal mondo esterno, è come se le catalogassimo per grandi gruppi e questo è sicuramente un vantaggio se lo vediamo come elemento organizzativo di guida nella nostra vita. Potremmo definirla una forma di sintesi verbale del nostro personale modello del mondo, che facilita la comunicazione ordinaria.

Per essere più chiaro vorrei fare questo esempio. Mettiamo che io dica: “Ho aperto la porta dalla maniglia”.
Questa frase ha comunque un senso, sta ad indicare la mia azione nel fare qualcosa di specifico. Nella quotidianità utilizziamo spesso forme di linguaggio di questo tipo che vengono da noi integrate in dialoghi più o meno lunghi. Frasi che, utilizzate in un processo di comunicazione che ho definito ordinario, trovano nell'interazione con i nostri simili, una forma fluida di dialogo per farci capire e per capire gli altri. Ne consegue quindi che frasi del genere non hanno bisogno di un'analisi attenta della struttura profonda del linguaggio. Mi spiego meglio, la frase: “Ho aperto la porta dalla maniglia”, indica sicuramente un'azione nella quale il mio interlocutore riesce a farsi un'idea di quello che sto dicendo, questo perché sa a cosa attribuire le etichette “porta” e “maniglia” e sa che generalmente una porta si può aprire e chiudere, non c'è bisogno in questo tipo di comunicazione approfondire il come, cosa, dove, ecc. In questo caso la frase viene lasciata così com'è, rappresenta un'azione che è stata eseguita da qualcuno e non impone pertanto nessun tipo di ricerca nella struttura profonda. Potremmo affermare che la fonte da cui è partito il messaggio è arrivata al ricevente dando chiara indicazione dell'azione che vuole rappresentare. Sarebbe inutile infatti approfondire la ricerca per una frase di questo tipo per capire se: 
  1. la porta si apriva spingendola da destra verso sinistra o viceversa;

  2. la porta si apriva tirandola da destra verso sinistra o viceversa;

  3. la porta si apriva facendola scorrere da sinistra verso destra o viceversa;

  4. la porta si apriva sia verso l'interno che l'esterno come quelle dei saloni del far west;

  5. la maniglia aveva le seguenti caratteristiche, colore, consistenza, forma, ecc;

  6. la maniglia doveva essere girata in senso orario per aprire la porta;

  7. la maniglia doveva essere girata in senso antiorario per aprire la porta;

  8. la maniglia doveva essere impugnata e spinta verso il basso per aprire la porta;

  9. la maniglia doveva essere impugnata e spinta verso l'alto per aprire la porta.

  10. ho provato una particolare sensazione quando ho aperto la porta;

  11. la porta era di un materiale specifico fatto di ...................;

  12. la porta era di colore .......;

  13. quando ho afferrato la maniglia ho esercitato una pressione particolare nell'impugnarla.

Tutto questo non avrebbe avuto nessun senso in una comunicazione ordinaria.

La cosa cambia quando invece ho necessità di capire meglio il mio interlocutore, cioè quando voglio avere chiaro e dettagliato il modello del mondo a cui fa riferimento la persona con la quale sto interagendo verbalmente. A questo punto potremmo definire la comunicazione straordinaria.
Facciamo un esempio. Se mio figlio mi comunica un suo stato emotivo e si rivolge a me dicendomi: “sono triste”.
In primo luogo queste due parole sono una generalizzazione della quale ognuno ha una sua personale rappresentazione della “tristezza”, per cui all'affermazione fatta da mio figlio potrei rappresentarmi tale sofferenza secondo il mio modello del mondo. Ma questo sarebbe sufficiente a farmi capire solo che mio figlio vive uno stato di sofferenza e nulla più. In secondo luogo se intendo capire meglio cosa vuole comunicarmi mio figlio con la frase “sono triste”, dovrei invitarlo a spiegarmi i motivi per cui è triste, “investigando” nella struttura profonda del suo linguaggio. Se infatti chiedo a mio figlio: “sei triste rispetto a cosa?” Lui potrebbe rispondermi così: “nessuno mi vuole bene”.
In questa ulteriore frase ci sono delle cancellazioni nella formulazione verbale, manca il referente che è indicato con la generalizzazione “nessuno”.
Continuando nella comprensione del messaggio reale che mio figlio mi sta inviando, avrei bisogno ora di chiedere chi sono “nessuno” per lui. Per recuperare quindi il referente mancante potrei chiedere: “riesci ad indicarmi chi esattamente non ti vuole bene?”
Ponendo ora che il ragazzo insista cancellando il referente di cui sono alla ricerca, opponendo volutamente o involontariamente resistenza rispondendomi ad esempio con la parola “tutti”, potrei cambiare strategia di domanda chiedendogli: “cosa fanno tutti per dimostrarti di non volerti bene?”
A questo punto, evitando di dilungarmi nell'esempio di ulteriori resistenze che potrebbero avere luogo nell'ipotetica conversazione tra me e mio figlio, immaginiamo che riceva la risposta seguente: “non giocano mai con me”. Di rimando la mia domanda potrebbe essere la seguente: “Chi esattamente non gioca mai con te?” E di seguito potrei ora ricevere una risposta di questo tipo: “i miei compagni a scuola non giocano con me”.
Ora ho finalmente un referente (i compagni) da sostituire all'etichetta “nessuno” e potrei a questo punto pensare di avere sufficienti informazioni per agire: 
  • potrei contattare gli insegnanti e dire cosa accade a mio figlio;

  • potrei dire a mio figlio che la maggior parte della gente è cattiva;

  • potrei dire a mio figlio di avere pazienza, più avanti impareranno a conoscerlo e vorranno tutti giocare con lui;

  • poteri dire a mio figlio che deve farsi rispettare di più dagli altri perché il mondo è dei prepotenti;

  • potrei dire a mio figlio che se i suoi compagni a scuola non lo fanno giocare con loro, a casa può farlo con i fratelli, i genitori, i nonni, gli zii, ecc.;

  • potrei dire a mio figlio che se non vogliono giocare con lui è probabile che lui abbia fatto qualcosa a loro, per cui hanno deciso di non giocarci insieme;

  • potrei dire a mio figlio che certe persone è meglio perderle che acquistarle;

potrei fare insomma diverse azioni in relazione a ciò che mio figlio mi ha comunicato e/o dargli molti suggerimenti in merito a cosa deve fare e come/cosa deve pensare, ma tutto questo sarebbe solo frutto di una ricerca referenziale nel mio modello del mondo, una mia interpretazione affrettata del messaggio ricevuto, al quale mancano ancora dei pezzi per essere completo.

Allora se intendo ridurre ai minimi termini la possibilità di trarre conclusioni affrettate dando consigli veloci e/o agendo in modo altrettanto affrettato, potrei approfondire ancora le mie conoscenze del modello del mondo di mio figlio, cercando di capire cosa fanno i suoi compagni. Attenzione, qui la risposta potrebbe essere scontata e potrebbe farci cadere nella trappola di pensare che abbiamo in realtà già raggiunto il nostro obiettivo, individuando la causa della tristezza del ragazzo: “i compagni non lo fanno giocare con loro”.
Ma proviamo per un attimo a pensare che io voglia comprendere meglio la struttura del linguaggio profondo di mio figlio e cosa intende dire con la frase da cui sono partito (“sono triste”) per cui gli chiederò: “in che modo i tuoi compagni ti fanno capire che non vogliono giocare con te”.
Il ragazzo potrebbe rispondermi così: “non mi chiedono mai di giocare con loro”. La successiva mia domanda potrebbe essere la seguente: “tu hai mai provato a chiedergli di giocare con loro”? Mio figlio: “no”. Io: “cosa accadrebbe se glielo chiedessi”? Sempre per rimanere in una forma sintetica di esempio e senza aggiungere quelle che potrebbero essere le ulteriori resistenze verbali messe in atto da mio figlio nella conversazione, immaginiamo questa risposta: “non ho il coraggio di chiederglielo”. Ora potrei domandargli: “cosa pensi che ti risponderebbero se glielo chiedessi”? Mio figlio: “mi risponderebbero di no”. Io: “e come ti senti quando ti dicono di no”? Mio figlio: “sento che non mi vogliono”. Io: “e come ti fa sentire quando qualcuno non ti vuole”? Mio figlio: “sono triste”.
Quello che ho voluto evidenziare in questo nuovo articolo, è che esistono due strutture nel linguaggio verbale che utilizziamo: superficiale e profonda. Laddove non abbiamo interesse di approfondire una tematica, possiamo tranquillamente poggiarci sulle strutture superficiali del linguaggio, ma dove intendiamo capire veramente cosa ci sta comunicando il nostro interlocutore di turno, figlio, partner, amico, allievo, abbiamo l'esigenza di approfondire le nostre conoscenze nel loro modello del mondo, attraverso l'investigazione verbale dei significati che ognuno di loro mette in atto nella comunicazione stessa. Nel caso sopra portato ad esempio di una conversazione ipotetica tra me e mio figlio, sono partito dalla seguente espressione: “sono triste”; per arrivare a capire che la tristezza espressa verbalmente da mio figlio, nasconde in realtà una sofferenza più profonda chiamata “rifiuto”. Il fatto di evitare di chiedere ai propri compagni di poter giocare con loro per paura di ricevere un “no”, lo mette nella condizione di limitarsi a non fare proprio quello che gli piacerebbe fare, giocare appunto con i suoi compagni. Rimanendo nell'esempio proposto, ecco che la struttura del linguaggio profondo, ha portato alla luce un riferimento sul quale dovrò principalmente lavorare se intendo aiutare mio figlio: la sua paura di ricevere un “rifiuto”. Naturalmente ne consegue che dovrò valutare anche se nel rapporto con mio figlio io possa aver in qualche modo suscitato in lui questo sentimento di “rifiuto”, attraverso alcuni atteggiamenti volontari o involontari da me espressi nella comunicazione. Eventualmente affronteremo questa tematica, la responsabilità del risultato di un'azione, in un prossimo mio articolo.
Torniamo ora al tema di questo documento.
Dovendo fare riferimento al linguaggio inteso come “modello” di scrittura e lettura, sappiamo che tutti noi abbiamo dovuto impararlo rispettando delle regole ben precise. Mi spiego meglio. Se prendiamo la seguente frase: “è ciò questo fare che piace a me lavoro”; questa di primo impatto risulta senza senso, poi magari con un po' di attenzione riusciamo a trovare il senso esatto, poggiandoci proprio sulle regole che ci sono state indotte nell'apprendimento della nostra lingua. Sta di fatto che la frase proposta può essere definita malformata. Cosa invece che non potremmo dire se la stessa frase fosse stata scritta così: “questo lavoro è ciò che a me piace fare”.
Questo avviene quindi anche nella formulazione di frasi verbali nel corso del trasferimento di un messaggio da una fonte ad un ricevente e cioè, nella comunicazione tra due o più persone. Così come si impara a leggere e a scrivere in modo corretto nel rispetto delle regole che determinano l'uso corretto della lingua, è possibile apprendere gli strumenti verbali che ci permettono di comprendere la struttura del linguaggio profondo degli esseri umani e passare da una frase malformata, dove sono presenti delle “cancellazioni”, ad una frase ben formata, dove sono presenti tutti i “referenti” di cui abbiamo bisogno.
Invito come sempre gli utenti del blog a prendere in considerazione i miei articoli come esclusiva provocazione a partecipare ad un sano confronto sulle tematiche da me proposte, anche per mezzo di critiche che possano ulteriormente fare espandere le nostre conoscenze.
Auguro a tutti i lettori un Sereno Natale ed un Emozionante Nuovo Anno da condividere con chi meglio desiderano.
Massimo Catalucci

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