Creato da toughenough il 22/08/2007

Cinema e Amenità

Cinema e Amenità

 

 

IL CONCERTO di Radu Mihailenau

Post n°168 pubblicato il 10 Marzo 2010 da toughenough
 

Dopo Train de Vie, che in Italia visse un singolare contenzioso con “la Vita è Bella” di Benigni circa la paternità sull'ispirazione della sceneggiatura, di Radu Mihaileanu in Italia ne si sono perse le tracce, vista la scarsissima distribuzione del suo film del 2005 “Vai e Vivrai”. Porta ora sullo schermo “il Concerto”, commedia dolce/amara in pieno stile Mihaileanu sulla musica, la russia e le persecuzioni antisemite.Il direttore che si oppose, per difendere la sua orchestra e la sua musica, alle proscrizioni verso gli ebrei di Breznev, dopo trent'anni è l'uomo delle pulizie del Bolchoi, grande teatro russo (con lo splendore un po' appannato) dopo essere passato attraverso anni di alcolismo e disperazione in seguito all'interruzione del suo concerto di Čajkovskij, l'apice musicale della sua carriera e della sua ricerca musicale, da parte del kgb, con la conseguente distruzione della vita di tutti i musicisti coinvolti. Tramite una serie roccambolesca di accadimenti, l'intento di Andrej Filipov, l'ex-direttore, è quello di sostituirsi, insieme ai suoi amici di sempre, all'orchestra Bolchoi concordando una data a Parigi, per chiudere idealmente il cerchio e portare a compimento il “Concerto per Violino e Orchestra”, grazie anche all'ausilio di un giovane talento, Anne-Marie Jaquet, legata misteriosamente a Čajkovskij ed a Filipov.Il film, come mi si è fatto notare, è impietoso verso la russia moderna, fatta di pavidi, trafficoni, bifolchi, capitani d'industria e mafiosi. Ciononostante spiccano alcune figure positive, come la moglie di Andrej Filipov, Irina, interpretata magistralmente da Anna Kamenkova, e il grande cuore del popolo russo, che nonostante sia mestamente occupato a sopravvivere è capace di trasporto e lealtà. Nella prima parte il film sembra non decollare appieno, la parte di commedia è troppo sparpagliata, e la presa emotiva è scarsa. Piano piano però, quando i tasselli della sceneggiatura prendono il loro posto, il film cresce, probabilmente anche grazie al crescendo della musica stessa (non ricordo un altro film con un così ampio stralcio di concerto senza interruzioni, forse “Shine”) e tocca corde che ci sono care.Nonostante questo, che lo rende un film più che appetibile (e quindi consigliabile) la pellicola non raggiunge le vette che uno si aspetta, forse non tanto per demerito del girato, ma anche per le grandi aspettative che si ripongono in registi come Mihaileanu, che sfiora questi temi sempre con una “leggerezza profondissima”. Degno di nota, come sempre nei suoi film, il casting. Tra gli altri Mélanie Laurent, già vista in “Bastardi senza gloria” di Tarantino, che conferma la sua bellezza magnetica, e l'estromissione in fase di montaggio delle parti riguardanti Jacquelin Bisset.

 

                                                                                     T.

 

 

 
 
 

INVICTUS di Clint Eastwood

Post n°167 pubblicato il 03 Marzo 2010 da toughenough
 

E' interessante vedere un cittadino degli Stati Uniti alle prese con un film sul Rugby, soprattutto se questo statunitense è Clint Eastwood, uomo simbolo della cinematografia a stelle e striscie e interprete, come attore e come regista, di pellicole che spaziano lungo tutta la storia del paese delle opportunità, dal vecchio West alla Grande Guerra, senza dimenticare la modernità delle Gang e dell'integrazione razziale.

Il film è tratto dal libro di John Carlin, “Ama il tuo nemico”, e tratta la storia di Nelson Mandela, uscito dal carcere dopo più di un ventennio di prigionia, e della sua elezione a presidente e dei suoi sforzi per costituire la “Nazione Arcobaleno”. Le gesta di Mandela si intrecciano con quelle della nazionale sudafricana di rugby, un sport generalmente “bianco” e quindi avverso alla popolazione di colore del paese. Il presidente (chiamato Madiba, dai suoi collaboratori) cogliendo l'occasione dei mondiali di Rugby, innalza lo sport della palla ovale a simbolo dell'integrazione razziale, e di un nuovo Sudafrica, rispettoso dei diritti dei neri e di quelli della minoranza bianca.Il pregio maggiore del film è la misura. La pellicola non cade mai nel banale, o nella troppa enfasi, ma invita lo spettatore a seguire le gesta di questo grande personaggio della storia, fin troppo umano nelle sue debolezze, ma di grande acume e umanità, senza sbrodolare mai nell'elogio dissennato, ma ponendolo a simbolo della grande ispirazione che un uomo, una poesia, un'idea può dare all'intero popolo. Lungo questa narrazione ben si intrecciano le gesta sportive della nazionale di Rugby, che oltre al peso di essere la nazione ospitante di un mondiale, si ritrova anche quello di punto d'unione tra due popoli fino a poco prima divisi.La narrazione è scorrevole ma impegnativa, senza fronzoli o espedienti narrativi a vivacizzare il ritmo, e nel complesso è più che convincente, come dialoghi, sviluppo ecc ecc. Anche le scene di gioco, poche (o comunque meno di quelle che uno si aspetterebbe) sono ben girate, soprattutto da un regista che probabilmente ha come metro di riferimento il football, tranne forse quelle della finale, che ho trovato un po' carenti.
Nel suo genere, di certo uno dei film migliori che si potessero realizzare.

 

 
 
 

JOE SPEEDBOAT di Tommy Wieiringa

Post n°166 pubblicato il 22 Febbraio 2010 da toughenough
 

Tommy Wieiringa ci prende e ci catapulta nella città di Lomark, in Olanda,  senza tanti preamboli, facendoci seguire le gesta di Fransje, e tramite i suoi occhi quelle di Joe Speedboat, forestiero eccentrico e pieno di iniziative. Joe rappresenta, per una piccola cittadina di periferia, dominata da un'industria di asfalti probabilmente ebraica, atavicamnete interessata da ventate di nazifascismo, una specie di vento del cambiamento. Attorno a lui si concentrano tutti gli accadimenti fuori dallo status quo di un paesotto provinciale. Passiamo quindi con naturalezza da una Parigi-Dakar, a samurai, un naufragio, competizioni internazionali, puttane del secolo  e spunti aviatori, senza tanto stupirci o senza farci tante domande. Persino la narrazione di un ragazzo travolto da una tranciaerba riesce a non scendere mai  nel patetico, e questo è un grande dono di scrittura che Wieringa ci offre, con uno stile limpido, senza un nodo, senza un intoppo, con un ritmo incredibile che non coglie mai una incertezza. Le uniche pecche sono rilevabili nel finale, probabilmente un po' netto, quasi sbrigativo. D'altronde sarebbe stato difficile concludere degnamente questa superba narrazione, che sembra non voler finire mai lungo le quasi quattrocento pagine dell'edizione "Iperborea", lasciando in realtà più di finale aperto, ma privo del suo motore a scoppio.

 
 
 

A SINGLE MAN di Tom Ford

Post n°165 pubblicato il 11 Febbraio 2010 da toughenough
 

Questo, a mi parere, è un tipico caso di deferenza. Siccome Tom Ford gode di ottima fama di stilista, quindi di artista, qualsiasi cosa che fa deve per forze essere artistica e cosparsa d'oro. Questo per intendere che il suo è un film ampiamente sopravvalutato, che seppur presenti delle note meritevoli e possa pure far pensare ad una certa dose di talento, male espresso, non è all'altezza dei commenti entusiasti che ne hanno preceduto l'uscita.
Il film, che affronta l'abbandono, l'amore e la solitudine mescolandoli alla tematica gay, è tratto dall'omonimo romanzo di Cristopher Isherwood, che è considerato una pietra miliare del movimento di liberazione gay, anche se il tema trattato è universale ed espandibile a tutti i tipi di amore.

La resa dell'immagine è volutamente un po' sgranata in pieno stile anni  60', e i dettagli per i capi di vestiario, il make up e gli arredi è notevole e, seppur sempre sullo sfondo, salta all'occhio; tra gli attori, abbastanza convincenti, spicca senz'altro il protagonista Colin Firt, posato e rassegnato professore di mezz'età, cui muore il compagno di una vita in un incidente d'auto, costretto ad affrontare la vita che va avanti, il presente che sfugge, il passato alle spalle e quindi perso, e il futuro che vede solo carico di morte. Lo screen play (adattamento per lo schermo), ad opera dello stesso regista, sembra efficace e lacunoso allo stesso tempo, poichè alcuni dialoghi e diverse scelte delle scene sembrano particolarmente felici ed azzeccate, mentre altre fanno storcere con decisione la bocca. La sensibilità di Tom Ford lo porta a curare moltissimo le parti di introspezione, disperazione soffocata dalla routine, ricordo, in modo efficace e coinvolgente, mentre sembra non tenere benissimo il filo della narrazione, in alcuni casi svolto quasi frettolosamente. Per quanto poi il film e le inquadrature stesse preservino una certa bellezza intrigante, e si veda che il regista ha ben studiato il linguaggio narrativo cinematografico, a mio modesto parere ci sono diversi errori dati da una non perfetta padronanza del mezzo, evidenti soprattutto per quel che riguarda il montaggio, a tratti disturbante e scattoso in contrasto con la "morbidezza" della scena. Non so se questo sia imputabile a Joan Sobel, al materiale che si è ritrovata a montare o alla pessima stesura dello storyboard.
Rimane il fatto che, nonostante Single Man possieda delle qualità, queste non solo tali da renderlo un bel film.

 

 

 

 

 

 
 
 

AVATAR di James Cameron

Post n°164 pubblicato il 23 Gennaio 2010 da toughenough
 

Pensavo che Avatar fosse un film troppo da BlockBuster per essere recensito in questa sede, poi però l'ho visto., ed ho cambiato idea. Non credo che sia tutta questa rivoluzione del tridimensionale, quanto un'opera normale fatta con eccezionale buon gusto. Intanto sappiamo che James Cameron, regista, non ha mai sbagliato un film a memoria d'uomo. Persino “Titanic”, che a me non è piaciuto affatto, si deve considerare, per quel genere, un buon film. Poi si può discutere sulla scelta delle canzoni per i titoli di coda, Celine Dion ci ha scassato i timpani per anni, entrando nell'immaginario collettivo, ed ora Cameron tristemente si ripete con Leona Lewis, per la quale non si nota una differenza apprezzabile rispetto alla Dion, anche perchè i produttori della canzone (James Horner e Simon Franglen) sono i medesimi, col medesimo stile.Molti hanno ravvisato in Avatar una non originalissima storia, accostata prima a Pocahontas e ad altre simili. In effetti la storia parla di colonizzazione, i rimandi ai nativi americani si sprecano, compresi quelli all'attualità della politica americana antiterrorismo. Insomma, Avatar è come uno standard del Blues, suonato divinamente, con tocco personale. La sceneggiatura è priva di buchi, coerente, fluida, supportata da dialoghi impeccabili, ritmo ottimale, momenti commoventi, divertenti, avventurosi e romantici al punto giusto. La computer grafica è eccellente, mai fastidiosa, senza dare mai l'effetto “artificiale” tipico delle rotazioni 3D o del motion capture, il Mecha Design è molto curato, anche se non particolarmente innovativo, mentre ai limiti dell'eccezionale rimane tutta la parte creativa. Il linguaggio degli indigeni, la creazione di animali fantastici, e soprattutto il grande immaginario che supporta il paesaggio e le specie floristiche lascia a bocca aperta. Tutto questo accostato a grandi classici dell'ecologia come “Gaia”, l'unione tra tutti le creature e cose del genere, senza mai scendere nel banale, neanche di striscio.
Due parole sull'effetto 3D. La scelta è parca e interessante, non puntare sull'uscita degli oggetti dallo schermo verso lo spettatore, ma applicare l'alta definizione digitale alla profondità di campo. Il risultato è eccellente, e forse da questo punto di vista potrà fare scuola. Probabilmente il film rimane splendido anche nella sua versione 2D, ma questa scelta, di fino, è forse il vero futuro di questa tecnologia, poiché non snatura l'arte cinematografica ma la eleva ad esperienza più completa.
Non è possibile trovare un difetto a questo film, Cameron colpisce ancora.

 

 

                                                                             T.

 

Nota di assoluto merito all'immortale Sigourney Weaver, e a Michelle Rodriguez che rievoca con il suo personaggio la mia soldatessa preferita di Aliens...

 

 
 
 
Il primo bicchiere, come sempre, è il migliore.

Hank
 

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Si può imparare qualcosa da un temporale.
Quando un acquazzone ci sorprende, cerchiamo di non bagnarci affrettando il passo, ma anche tentando di ripararci sotto i cornicioni ci inzuppiamo ugualmente.
Se invece, fin dal principio, accettiamo di bagnarci eviteremo ogni incertezza e non per questo ci bagneremo di più. Tale consapevolezza si applica a tutte le cose.

Yamamoto Tsunetomo(1 - 79)
 
 

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LA MORTE E IL BUSHIDO

Ho scoperto che la via del samurai è la morte.
Quando sopraggiunge una crisi, davanti al dilemma fra vita e morte,è necessario scegliere subito la seconda. Non è difficile: basta armarsi di coraggio e agire. Alcuni dicono che morire senza aver portato a termine la propria missione equivale a una morire invano. Questa è la logica dei mercanti gonfi di orgoglio che tiranneggiano Osaka ed è solo un calcolo fallace, un'imitazione grottesca dell'etica del samurai.
E' quasi impossibile compiere una scelta ponderata in una situazione in cui le possibilità di vita e di morte si equivalgono. Noi tutti amiamo la vita ed è naturale che troviamo sempre delle buone ragioni per continuare a vivere. Colui che sceglie di farlo pur avendo fallito nel suo scopo, incorre nel disprezzo ed al tempo stesso è un vigliacco e un perdente.
Chi muore senza aver portato a termine la propria missione muore da fanatico, in modo vano, ma non disonorevole. Questa è infatti la Via del samurai.
L'essenza del Bushido è prepararsi alla morte, mattina e sera, in ogni momento della giornata.
Quando un samurai è sempre pronto a morire, padroneggia la Via.
 
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