Creato da toughenough il 22/08/2007

Cinema e Amenità

Cinema e Amenità

 

 

SOUL KITCHEN di Fatih Akin

Post n°163 pubblicato il 19 Gennaio 2010 da toughenough
 

Soul kitchen è il locale da sogno, ambientato in una struttura scalcinata Amburghese, con la cucina ai minimi termini, in termini sanitari e in quelli di qualità. Zinos è il proprietario e il cuoco, anche se si limita a friggere patatine e a realizzare qualche piatto molto semplice e dal dubbio gusto. Questo finchè la sua fidanzata, Nadine, non decide di trasferirsi in Cina, per fare la corrispondente. La relazione si mantiene, tra le mille difficoltà di un collegamento skype e l'astinenza sessuale, finchè Zinos decide di raggiungerla. Intorno a tutto questo, un cuoco ubriacone, irascibile e geniale lanciatore di coltelli viene licenziato da un locale di lusso e decide di rivoluzionare la clientela e il gusto della Soul Kitchen ; un fratello galeotto invaghito di una cameriera si mette a fare il dj e qualche danno, un vecchio amico di scuola sembra interessato all'acquisto dell'immobile, il fisco, la radice afrodisiaca, i furti, il mal di schiena, la polizia...!!!! Tutto questo, intervallato da ottima musica (“il cibo dell'anima”), dialoghi brillanti, regia dinamica e personaggi accattivanti è Soul Kitchen, che per 99 minuti trasporta lungo la vena greca (in realtà turco/tedesca sotto mentite spoglie) dell'umorismo e del cuore, a cui si perdona financo il finale così così. Tutti, e sottolineo tutti, all'uscita del cinema sognano per almeno un paio d'ore di aprire un proprio locale.

 
 
 

MOON di Duncan Jones

Post n°162 pubblicato il 13 Gennaio 2010 da toughenough
 

Probabilmente Moon è un film da metabolizzare, di quelli cui ricordarsi tra venti anni, corredato da "te lo ricordi quel film..?". Anche descriverlo è un compito arduo, poichè gli accadimenti sono temporalmente pochi, diluiti lungo l'intera durata senza grandi colpi di scena. Questo poichè Moon è un film di grandi atmosfere, lento, di quelli nei quali lo spettatore ci si ritrova dentro quasi senza accorgersene. Tutto il film è un po' retrò, cita chiaramente i film di fantascienza degli anni ottanta, e anche la storia, pur attualissima, è narrata con quello stile. Nathan Parker fa un ottimo lavoro nello screenplay dell'idea del regista Duncan Jones (conosciuto dai media fino ad ora come figlio di David Bowie, d'ora in poi si spera come regista talentuoso), che oltre a ispirarsi nel ritmo e nello stile ai vecchi films, ne recupera in pieno il design spaziale di quegli anni. Il computer di bordo, Gerty 2000, è al limite dell'anacronistico, ma risulta affascianante, rievocando in maniera diretta e inequivocabile i robottini di "Silent Running", Paperino e Paperina (in Italia uscito impropriamente come "2002, la Seconda Odissea", film splendido e "verde"). Tutto il film sembra un fiorire di citazioni, che forse sono solo nella mente dello spettatore che rivede a rullo tutto il suo background di fantascienza ritrovandolo nelle suggestinoni evocate dalla pellicola, che si presenta interessante fin dalla locandina, probabilmente una delle migliori del secolo. Quindi rivede Spazio 1999 nei lenti trasferimenti del veicolo lunare a sei ruote, oppure Al9000 nella  componente numerica di Gerty, ovvero il 2000, che è leggibile solo nella carcassa dell'intelligenza artificiale che controlla la base, e serve a creare aspettative e tensione nonostante la rassicurante voce di Roberto Pedicini, ottimo come al solito.
Non voglio svelare particolari della trama, ma se siate appassionati di cinema di qualità, e della fantascienza con i fiocchi, scevra da esplosioni, colpi di scena e astronavi con armi micidiali, questo è uno dei film dell'anno.

 

                                                                      T.

 
 
 

SHERLOCK HOLMES di Guy Ritchie

Post n°161 pubblicato il 08 Gennaio 2010 da toughenough
 

Anche se non si può certo dire che Sherlock Holmes sia il miglior film mai girato da Guy Ritchie, è di certo quello la cui sceneggiatura è più attinente al personaggio letterario di Sir Arthur Conan Doyle. Il nostro beniamino è qui un trasandato gentiluomo, spesso squattrinato, preda della noia e sempre alla ricerca di nuove emozioni, siano esse strambe scoperte scientifiche, incontri di lotta clandestina violenti e sanguinari o droghe. Quale attore poteva maggiormente interpretare questa dissolutezza di costumi mantenendo una superba dignità? Robert Downey Jr ovviamente, degnamente sorretto da Jude Law nei panni del Dottor Watson, un ex soldato, reduce della guerra Afghana, un uomo semplice, affidabile e forte, che non bada tanto per il sottile quando c'è da usare la forza bruta. Queste infatti sono le caratterizzazioni impresse dall'autore ai molti romanzi che li vedono protagonisti, caratteristiche sempre omesse dalle trasposizioni sul grande schermo, virate su personalità più soft e rassicuranti. Il tocco di Guy Ritchie, dato per disperso dopo le collaborazioni ai clip e al film con Madonna ("travolti da un insolito destino," remake del più famoso e quasi omonimo film della Wertmuller), si nota anche in una pellicola composta come questa, densa di ambientazioni e numerose scene d'azione. Durante quest'ultime, sembra sempre prediligere un controcampo che disorienta lo spettatore, facendogli intuire la confusione della lotta, e forse lo distoglie dalle scarse capacità combattive dell'attore protagonista, con un risultato tutt'altro che disprezzabile. La narrazione, il ritmo, l'intreccio sono più che perfetti, con un film che parte morbido e porta al termine lo spettatore senza mai un calo, ma purtroppo senza mai un'impennata. L'immedesimazione nei personaggi risulta scarsa, ma lo svolgersi della storia mantiene una piacevole attenzione che trascina fino al finale. L'unica nota stonata sono i personaggi femminili: la geniale Irina Adler, antagonista privilegiata del nostro investigatore, non aggiunge e non toglie nulla alla storia, mentre la moglie di Watson (futura moglie) sembra ben corrispondere all'immagine che i lettori dei romanzi ne avevano; le attrici però non reggono il confronto con l'affiatamento della coppia principale, un po' anche per demeriti propri. Notevole invece il Villan della situazione interpretato da Mark Strong, dalla mascella veramente imponente e dallo sguardo magnetico. In definitiva il film è un classico da guardare in famiglia, girato bene, buon  ritmo, sceneggiatura stilisticamente perfetta, divertente quanto basta e condito di azione il necessario.

Ottimo

 

 
 
 

DOLLHOUSE di Joss Whedon

Post n°160 pubblicato il 25 Dicembre 2009 da toughenough
 

DollHouse è una serie ad ampio respiro, di quelle un po' fuori moda, che partono piano piano, sembrano quasi insignificanti, ma delineano i personaggi non per grandi archetipi subito riconoscibili dal pubblico, ma sfaccentandoli un poco, permettendo loro di evolversi, e di far immedesimare lo spettatore. Le prime puntate di Dollhouse infatti, per quanto piene di azione e di bellissime donne, hanno bisogno di un minimo di elaborazione. La trama è a prima vista semplice e non originalissima (ricordo manga giapponesi col medesimo punto di partenza): una grande corporazione prende (non si sa a che titolo, se per rapimento, o ex detenuti ecc..) dei soggetti, sia uomini che donne, e li azzera la memoria. Diventano quindi delle Bambole, delle Doll appunto, salvo poi reimpiantare in loro personalità e ricordi atti a svolgere un incarico (es: conoscenze S.W.A.T.) o soddisfare le fantasie di un cliente, che si troverà così di fronte una collegiale, una mistress sadomaso, una sua compagna di sport estremo e così via a seconda delle richieste del facoltosissimo cliente. Un uomo, agente dell'F.B.I. (con un rude ed efficace stile di combattimento corpo a corpo) è sulle tracce dell'organizzazione, millantato, screditato per “dare la caccia ai fantasmi”, visto che l'esistenza della “Dollhouse” è poco più di una leggenda metropolitana.
Ma forze all'interno e all'esterno di questa strana agenzia sembrano aiutarlo.
Contrariamente alle altre serie in circolazione, con partenze sprint e un calo susseguente, questo telefilm è in un continuo crescendo, con la trama che si infittisce sempre di più, i personaggi che mostrano lati inaspettati facendoci porre domande (non scontate, in un telefilm) su quanto in realtà siano cattivi o buoni, e lasciandoci incerti sul proseguimento della storia.
La bella Eliza Duzku, già vista interpretare “Faith “ su “Buffy The Vampire Slayer” e “Angel” e il ruolo principale in “Tru Calling”, è davvero convincente nel passare da “Bambola” inerte e senza volontà a peccaminosa Doll, dal vestito sexy e vertiginoso ad “operativa” in tuta antisommossa, così come il resto degli attori sono soddisfacenti, corroborati da un doppiaggio in italiano di alto livello. Tra gli alti, l'agente Paul Ballard, alias Tahmoh Penikett, direttamente da Battlestar Galactica (tenente “Helo”), ma scartabellando il cast sono molti i nomi e i volti che hanno lavorato a produzioni importanti.

Autore della serie è Joss Whedon, di cui ricordiamo appunto Buffy, Angel, Dottor Horrible's sing along blog, Firefly (uno dei migliori telefilm della storia sci-fi chiuso dopo solo 15 puntate), a mio parere è uno dei migliori sulla piazza a tessere storie complesse lungo una trama più lineare. Qualche perplessità può essere posta sulla tenuta nel tempo di questa trama, poiché tirare alla lunga le vicende di “Echo” (Eliza Duzku) per più di due o tre stagioni potrebbe risultare noioso.

 

 

                                                                        T.

 

 
 
 

LA BATTAGLIA DEI TRE REGNI di John Woo

Post n°159 pubblicato il 20 Dicembre 2009 da toughenough
 

E' difficile spiegarsi come “I Tre Regni” non abbia avuto il meritato successo in occidente. Di fatto è il film cinese più costoso nella storia del cinema, soprattutto a causa dell'impressionante numero di comparse e per la qualità delle riprese epiche, nelle quali John Woo, oltre a dimostrare un talento che nessuno gli negava, mostra una insolita misura, una grazia che non ci si aspetta.
Il Film fa pensare ai classici degli anni 50', dove Cleopatre, comparse e imponenti piramidi meravigliano lo spettatore, intervallando battaglie campali al tratteggio di grandi eroi del passato, dei loro amori e delle loro vulnerabilità. In Occidente il film è uscito in una versione di circa tre ore, fluida ed emozionante; il ritmo del racconto è appunto quello di un cinema di altri tempi, e forse questo per alcuni potrebbe rivelarsi un ostacolo. Ma la narrazione scivola via senza intoppi o incongruenze, epica, dritta e perfetta, da sorbirsi tutta di un fiato. In Cina (e forse in oriente) invece il film è uscito in due parti, per una durata totale di quattro ore, per cui sarà interessante recuperare il dvd per la visione della versione estesa, per non perdersi gli oltre sessanta minuti mancanti all'appello della versione apparsa nei nostri cinema.

La pellicola narra un periodo storico della Cina, durante la dinastia Han, intorno all'anno 208 del nostro calendario. Il film ha il suo climax durante la battaglia di Chibi, e John Woo ed i suoi autori, non essendoci che vaghe notizie sullo svolgimento delle battaglie del periodo dei Tre Regni, decidono di attingere a piene mani al testo sacro della strategia, il “Sun Tzu”. Il movimento delle truppe e lo svolgersi delle battaglie è riprodotto in modo meticoloso, mostrandoci formazioni a cuneo, ad ala d'oca e a tartaruga, corredati di vari stratagemmi militari, dove il fattore determinante non risulta solo il numero di forze in campo, ma il terreno, la tattica, le motivazioni, il valore. Il tutto correlato di storie personali, grandi eroi, caparbietà ed astuzia, senza dimenticare le colombe bianche tanto care al regista cinese.

 

 
 
 
Il primo bicchiere, come sempre, è il migliore.

Hank
 

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HAGAKURE

Si può imparare qualcosa da un temporale.
Quando un acquazzone ci sorprende, cerchiamo di non bagnarci affrettando il passo, ma anche tentando di ripararci sotto i cornicioni ci inzuppiamo ugualmente.
Se invece, fin dal principio, accettiamo di bagnarci eviteremo ogni incertezza e non per questo ci bagneremo di più. Tale consapevolezza si applica a tutte le cose.

Yamamoto Tsunetomo(1 - 79)
 
 

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LA MORTE E IL BUSHIDO

Ho scoperto che la via del samurai è la morte.
Quando sopraggiunge una crisi, davanti al dilemma fra vita e morte,è necessario scegliere subito la seconda. Non è difficile: basta armarsi di coraggio e agire. Alcuni dicono che morire senza aver portato a termine la propria missione equivale a una morire invano. Questa è la logica dei mercanti gonfi di orgoglio che tiranneggiano Osaka ed è solo un calcolo fallace, un'imitazione grottesca dell'etica del samurai.
E' quasi impossibile compiere una scelta ponderata in una situazione in cui le possibilità di vita e di morte si equivalgono. Noi tutti amiamo la vita ed è naturale che troviamo sempre delle buone ragioni per continuare a vivere. Colui che sceglie di farlo pur avendo fallito nel suo scopo, incorre nel disprezzo ed al tempo stesso è un vigliacco e un perdente.
Chi muore senza aver portato a termine la propria missione muore da fanatico, in modo vano, ma non disonorevole. Questa è infatti la Via del samurai.
L'essenza del Bushido è prepararsi alla morte, mattina e sera, in ogni momento della giornata.
Quando un samurai è sempre pronto a morire, padroneggia la Via.
 
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