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Gli Ebrei e i Cattolici di Pio XII

Post n°174 pubblicato il 19 Novembre 2008 da Il.Don.Camillo

ROMA, martedì, 18 novembre 2008 (ZENIT.org).- Le azioni eroiche compiute da un Vescovo cattolico per salvare una bambina ebrea e la sua famiglia perseguitate dalle leggi razziali nazifasciste rivive ora attraverso il racconto che ne fa “L'Osservatore Romano”.

 

“Ricordo la grande semplicità e la purezza del suo sguardo, quel qualcosa di immediatamente buono e ingenuo che sembrava sprigionarsi, insieme a una grande forza, da ogni suo gesto, da ogni parola. Nell'ombra e nel silenzio delle grandi stanze, la figura del Vescovo era rassicurante — come qualcosa a cui ci si poteva appoggiare”.

Il presule di cui si parla è monsignor Giuseppe Placido Nicolini e chi ricorda la sua figura a più di sessant'anni dall'incontro è Mirjam Viterbi Ben Horin. Era il 1943 e lei era una bambina che, con i suoi genitori e la sorella, poté liberarsi dalla persecuzione nazifascista ad Assisi grazie all'organizzazione di sostegno agli ebrei avviata propria dal Vescovo con l'aiuto di due sacerdoti in particolare: don Aldo Brunacci e padre Rufino Nicacci.

I tre protagonisti di quei fatti sono stati riconosciuti “Giusti tra le Nazioni” dal Museo dell'Olocausto di Gerusalemme Yad Vashem, ma questo documento rappresenta un'ulteriore tessera per la ricostruzione della verità storica di quei tragici anni.

Ogni racconto rivela qualcosa di inedito – non fosse altro per il punto di vista del narratore – accanto alla gratitudine per quell'aiuto disinteressato, e non esente da rischi. E' stata proprio la riconoscenza a spingere Mirjam Viterbi Ben Horin a rendere pubblici i suoi ricordi, filtrati dal suo sguardo di bambina.

Mirjam Viterbi Ben Horin ha scritto il libro "Con gli occhi di allora" (Morcelliana, 2008), in cui racconta la sua storia di bambina ebrea che, dopo le leggi razziali del 1938, fu costretta ad abbandonare la casa di Padova e a rifugiarsi con la famiglia ad Assisi, tra il 1943 e il 1944.

Lì scoprì l'esistenza di uomini e donne che non rinunciarono alla propria umanità e non si sottrassero al dovere del bene, pur consapevoli che ciò avrebbe potuto costare loro la vita.

“Lo scrivere queste pagine – scrive l'autrice – è anche il mio modo, oggi, per dire grazie a tutti coloro che mi hanno fatto sentire che la vita anche nei momenti più oscuri può essere bella, se qualcuno ti è vicino, ti tende una mano o semplicemente, anche con il suo stesso silenzio, è insieme a te: se qualcuno con la sua presenza rompe il guscio della tua solitudine e della paura”.

La figura centrale del racconto è quella del Vescovo. “La mamma e il papà gli spiegarono chi eravamo e gli consegnarono quei pochi oggetti ebraici che ci avevano seguito da Padova e che, se scoperti, avrebbero potuto denunciare la nostra identità”, ricorda Mirjam.

“Monsignor Nicolini li prese con attenzione e delicatezza, assicurando che li avrebbe messi personalmente in un luogo sicuro. Infatti, come poi si venne a sapere, era solito nasconderli lui stesso nei sotterranei del Palazzo vescovile, picconando e murando, mentre don Aldo Brunacci gli faceva luce con una candela”.

L'obiettivo successivo era quello di ottenere “carte false”, una cosa “essenziale per il nostro futuro, e di cui si sarebbe occupato più direttamente don Aldo”.

Il problema principale per gli ebrei era infatti rappresentato dai documenti. Bisognava procurarsene di falsi e in genere si usavano nomi di persone residenti in zone dell'Italia meridionale già liberate, dove era più difficile effettuare controlli. Per questo, su indicazione del Vescovo, venne avvicinato un tipografo dichiaratamente comunista, Luigi Brizi, che acconsentì coinvolgendo anche il figlio Trento, malgrado i rischi di una tale attività.

Don Brunacci raccontò più volte come era nata quell'organizzazione. Il terzo giovedì del settembre 1943, dopo la consueta riunione mensile del clero nel seminario diocesano, il Vescovo lo chiamò in disparte e gli mostrò una lettera della Segreteria di Stato dicendogli: “Dobbiamo organizzarci per prestare aiuto ai perseguitati e soprattutto agli ebrei, questo è il volere del Santo Padre Pio XII. Il tutto va fatto con la massima riservatezza e prudenza. Nessuno, neppure tra i sacerdoti, deve sapere la cosa”.

Seguendo le sue direttive, il Vescovo cercò di coordinare gli sforzi e soprattutto di trasmettere un esempio ai fedeli. “Non si trattava soltanto di organizzare burocraticamente la ricerca dei dispersi e l'assistenza ai prigionieri”, ha affermato di recente il Segretario di Stato, il Cardinale Tarcisio Bertone.

Da questa indicazione generale e dalla direttiva di monsignor Nicolini nacque ad Assisi il Comitato assistenza agli sfollati, un nome di copertura per un'attività che comportava un alto rischio. Il convento delle clarisse di San Quirico divenne il quartier generale dell'organizzazione. Qui, come nelle foresterie delle collettine, delle stimmatine, delle suore cappuccine tedesche e delle benedettine di Sant'Apollinare, i perseguitati venivano ospitati fino a quando si riusciva a trovare per loro nuove carte di identità, grazie alle quali ottenevano le tessere annonarie e potevano vivere in albergo o in appartamenti privati.

Bruno Angeli, un altro ebreo fuggito con la famiglia, “fu il primo a parlarci di un'organizzazione che aiutava in modo straordinario tutti gli ebrei arrivati ad Assisi – racconta Mirjam — fornendo anche documenti di riconoscimento con generalità false, cioè 'ariane'”.

“A tutti i conventi, compresi quelli di clausura, era stato impartito l'ordine di aprire le loro porte ai perseguitati per ospitarli. E la nostra identità religiosa, aggiunse, veniva rispettata a tal punto che pochi giorni prima, al termine del digiuno di Kippur, le clarisse del Monastero di San Quirico avevano preparato una grande tavolata adorna di fiori, volendo servire loro stesse il pasto che chiudeva la lunga giornata di preghiera e di penitenza”.

Padre Vincenzo, del convento di San Damiano, avvicinò la famiglia Viterbi e le disse: “Se avete un amico ebreo, ditegli di venire nel nostro convento e indossare la tonaca dei frati”. I Viterbi sapevano già di cosa si trattava, perché era una direttiva del padre guardiano, Nicacci.

Mirjam e i suoi familiari non si rifugiarono in convento, ma in abitazioni private, sempre pronti a partire immediatamente.

“In quel periodo controllavo sempre più attentamente la mia piccola valigia, sempre pronta in un angolo, specie quando la sera udivo un camion fermarsi sotto casa o il rumore di stivali sul selciato. Sapevo che era accaduto e che poteva accadere anche a noi. Non mi sentivo in colpa di essere viva; no; ma... fino a quando? Con quelle valigie allineate, io credo di aver cominciato a capire allora, forse senza rendermene pienamente conto, che nella vita bisogna sempre essere pronti a partire. Non si sa per dove. Non si sa perché”.

A un certo punto le cose parvero precipitare. I nazifascisti intensificarono i controlli.

Ancora una volta, nel racconto di Mirjam emerge la figura di monsignor Nicolini: “Mio padre andò a consigliarsi col Vescovo e a chiedergli se in caso di estrema necessità avesse potuto accoglierci in vescovado, già asilo di un incredibile numero di sfollati e di perseguitati. Monsignor Nicolini sorrise, con quella sua espressione buona: 'Sono rimaste libere solo la mia stanza da letto e lo studio' - disse con spontaneità - 'ma posso benissimo sistemarmi nello studio e la stanza da letto è per voi'. Papà, di fronte a quell'offerta tanto generosa, non si sentì ovviamente di accettare”.

L'attività di aiuto agli ebrei non passò del tutto inosservata. Don Brunacci venne arrestato dalla polizia fascista che lo aveva aspettato sotto casa. Fu portato a Perugia, dal prefetto Rocchi, e rilasciato una decina di giorni dopo, purché abbandonasse Assisi per la Città del Vaticano. Quella notizia gettò nello sconforto gli ebrei rifugiati in città, ma fortunatamente non accadde nulla. Fino a che giunsero i liberatori, la mattina del 17 giugno 1944.

Più di trecento si salvarono dalla deportazione grazie al Vescovo, ai due sacerdoti e alle persone che sostenevano in vario modo l'organizzazione.

Dopo la guerra, Mirjam e la sua famiglia provarono a tornare a Padova. “La nostra casa era stata incendiata – sottolinea – e a mio padre non rimase altra possibilità che alienarla, con un acuto senso di lacerazione. Venne reintegrato all'università e all'accademia patavina, ma non si sentì più di ritornare a vivere a Padova, pur rimanendone affettivamente molto legato. Riprese il suo insegnamento all'università di Perugia. Nell'incertezza di dove stabilirsi, si rimase ad Assisi per 7 anni. Nel '50 ci si trasferì a Roma”.

Fu proprio il padre di Mirjam, Emilio Viterbi, a esprimere pubblicamente, come riportano altri documenti, la gratitudine dei salvati: “Noi ebrei rifugiati in Assisi non ci dimenticheremo mai di ciò che è stato fatto per la nostra salvezza. Perché in una persecuzione che annientò sei milioni di ebrei, ad Assisi nessuno di noi è stato toccato”.

Nella città di Francesco, scrive Mirjam Viterbi Ben Horin, “il Pax et Bonum divenne presto per me il saluto più spontaneo, non sapendo minimamente, allora, che era proprio come il dire shalom in ebraico”. In quel modo “si compì un miracolo d'amore”.

Un miracolo che aveva i volti di monsignor Nicolini e dei sacerdoti suoi collaboratori. Volti che gli occhi di quella bambina non hanno dimenticato.

 
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