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Fonte foto: NASA, ESA, CSA, L. Hustak (STScI) SCIENZA
È ufficiale, esiste un pianeta molto simile al nostro: la conferma
James Webb porta a casa il suo primo successo: ha identificato un esopianeta molto simile alla Terra, e ora ne analizzerà l'atmosfera. Ecco che cosa sappiamo.
12 Gennaio 2023 45
Là fuori, nello spazio più profondo, ci sono sicuramente
alcuni pianeti che riproducono le caratteristiche
principali della Terra.
E che, forse, potrebbero essere abitabili.
La ricerca continua senza sosta, e ora gli scienziati hanno
uno strumento in più su cui fare affidamento: si tratta del
telescopio spaziale James Webb, che ha da poco compiuto
il suo primo anno di operatività.
Nei giorni scorsi, per la prima volta, ha scoperto un
esopianeta molto simile al nostro.
Il telescopio James Webb scopre il suo primo esopianeta
Lanciato nello spazio il 25 dicembre 2021, il telescopio
spaziale James Webb è uno degli strumenti più
all'avanguardia della NASA. Lavora nello spettro degli
infrarossi, e la sua risoluzione è così elevata che gli
permette di osservare corpi celesti lontanissimi da noi,
che il suo predecessore Hubble non riusciva ad individuare.
Dopo aver portato a casa immagini strabilianti, come
quelle che ritraggono i Pilastri della Creazione, ora il
telescopio ha raggiunto un altro grande successo:
ha scoperto il suo primo esopianeta, e somiglia
incredibilmente alla Terra.
Un team di ricercatori guidato da Kevin Stevenson e
Jacob Lustig-Yaeger, della Johns Hopkins University
del Maryland, ha analizzato a fondo i dati ricevuti dal
TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite), i quali
indicavano l'esistenza di un pianeta fuori dal nostro
Sistema Solare che poteva avere caratteristiche simili
alla Terra.
Gli scienziati hanno così deciso di usare James Webb
per approfondire le loro ricerche, e con due sole
osservazioni di transito il suo spettrografo nel vicino
infrarosso è riuscito a catturare l'esopianeta.
Cosa sappiamo sul nuovo esopianeta simile alla Terra
Il nuovo pianeta è stato classificato come LHS 475 b,
è di dimensioni quasi uguali al nostro e ha un clock pari
al 99% del diametro terrestre.
Inoltre completa un'orbita in appena due giorni ed è molto
vicino alla sua stella, una nana rossa che ha meno
della metà della temperatura del Sole.
"Non c'è dubbio che il pianeta sia lì" - ha affermato Lustig-Yaeger -
"I dati incontaminati di Webb lo convalidano".
E, a quanto pare, è davvero più simile alla Terra di quanto
non si possa immaginare: "Il fatto che sia anche un piccolo
pianeta roccioso è impressionante per l'osservatorio" - ha
aggiunto Stevenson.
Questo permetterà loro, infatti, di studiare l'atmosfera
di un corpo celeste che, seppur fuori dal Sistema Solare,
ha molte caratteristiche in comune con il nostro pianeta.
Sull'atmosfera presente su LHS 475 b, tuttavia,
c'è ancora un alone di mistero.
Il telescopio James Webb è l'unico, tra quelli attualmente
operativi, a poter essere in grado di definire cosa c'è -
e soprattutto cosa non c'è - nell'atmosfera di un pianeta
roccioso.
Analizzando il suo spettro di trasmissione, gli astronomi
stanno cercando di capire che cosa caratterizza questo
esopianeta.
"Il telescopio è così sensibile che può facilmente rilevare
una serie di molecole, ma non possiamo ancora trarre
conclusioni definitive" - ha dichiarato Erin May, della Johns
Hopkins University.
Gli esperti hanno già escluso la presenza di alcune atmosfere
di tipo terrestre, come ad esempio quella dominata
dal metano che caratterizza Titano, la luna più grande
di Saturno. È possibile che il pianeta non abbia atmosfera, o
che quest'ultima sia caratterizzata puramente da
anidride carbonica, che sarebbe molto difficile da rilevare.
Saranno necessarie ulteriori osservazioni per poter
stabilire il tipo di atmosfera di LHS 475 b, del quale però
sappiamo che è di diverse centinaia di gradi più caldo
rispetto alla Terra.
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14 Febbraio 2023 Scoperta nuova specie di rana con una strana e unica caratteristica.
Che il mondo animale sia colmo di stranezze e
peculiarità non è un segreto, ma nonostante ciò
non smette di sorprenderci.
Prendiamo il caso di una delle creature più celebri
del Pianeta: la rana.
Tutti noi, sin da bambini, ne vediamo e ne parliamo,
impariamo persino a disegnarla e a conoscerne le
caratteristiche essenziali. La rana-tipo è verde, si sposta
saltando, gracida.
Poi crescendo scopriamo che le rane non sono tutte
uguali e che si distinguono in tante specie diverse tra
loro, da quelle totalmente nere a quelle colorate e
sgargianti, da quelle "maculate" fino agli esemplari
tutt'altro che innocui, dal veleno mortale.
E poi c'è lei, l'ultima nuova specie di rana individuata
dai biologi proprio all'inizio di quest'anno, con una
caratteristica unica e inaspettata.
Scoperta una nuova specie di rana in TanzaniaNello studio pubblicato su PLoS ONE all'inizio di
febbraio lo descrivono come un "gruppo di rane molto strano".
E in effetti non potrebbe esserci definizione più calzante
per la nuova specie di rana che i ricercatori hanno scovato
in Tanzania, per l'esattezza nella Mamiwa-Kisara North
Forest Reserve situata tra le montagne Ukaguru.
Come ha spiegato la dottoressa Lucinda Lawson, biologa
della conservazione presso l'Università di Cincinnati,
questa nuova specie fa parte di un gruppo di rane dalla gola
spinosa chiamate Hyperolius, gruppo che conta soltanto
pochi esemplari in tutto il mondo, diffusi in piccole
popolazioni e perciò piuttosto rari.
A tutti gli effetti si tratta di anfibi a rischio di estinzione.
Ma cosa rende tanto speciale la nuova rana della Tanzania,
chiamata Hyperolius ukaguruensis? Il team di ricerca
ha scoperto che si tratta di un animale dalle proporzioni
uniche, con occhi più piccoli rispetto alle altre rane dalla
gola spinosa.
Gli esemplari maschi possiedono delle piccolissime "spine"
nella gola - da qui il nome - e, a differenza della gran
parte delle rane che popolano il Pianeta, non emettono
vocalizzi.
Nessun gracidio, dunque, bensì delle piccole rane silenziose
che comunicano in un modo davvero particolare: i biologi
ipotizzano che i maschi comunichino tra loro mediante una
sorta di sistema tattile simile al Braille, che sfrutta la
conformazione della colonna vertebrale.
Perché è importante proteggere le rane dall'estinzioneDice bene la dottoressa Lawson quando afferma che
"descrivere una specie è il primo passo per proteggerla".
Ciò vale sempre, ma assume ancora più importanza
quando ci riferiamo a un habitat a rischio come quello
delle montagne Ukaguru in Tanzania.
Che ci sia ancora spazio per la scoperta di nuove specie
ed esemplari unici come la rana Hyperolius ukaguruensis
lascia ben sperare, tuttavia i biologi sono certi del pericolo
che questi corrono ogni singolo giorno.
La riserva tanzaniana è, infatti, al centro di una imponente
opera di disboscamento a causa dell'aumento della popolazione,
che sfrutta le risorse naturali a disposizione per proliferare
e sopravvivere.
"La rapida crescita della popolazione in Tanzania significa
che gli habitat delle foreste montane sono minacciati sempre
più dalle persone", ha affermato il dottor Christoph Liedtke,
ricercatore post-dottorato presso il Consiglio Nazionale
delle Ricerche spagnolo.
"Gli anfibi sono particolarmente sensibili agli impatti umani.
Poiché assorbono le sostanze chimiche attraverso la loro pelle,
sono vulnerabili alle tossine o ai cambiamenti nell'acidità
dell'acqua. (...) Se l'habitat di un uccello viene distrutto può
volare in una nuova foresta. Ma è difficile per gli anfibi",
ha affermato la dottoressa Lawson.
Avere un alto numero di specie in un habitat è importante
per mantenere un ecosistema in salute: "Perché una specie
è importante? Le rane fanno parte della catena alimentare.
Mangiano insetti e, a loro volta, vengono mangiati da
altri animali. Se questa specie si estingue, non succede molto.
Perdiamo solo un altro filo nel tessuto dell'ecosistema.
Ma se continui a tirare fuori fili, l'ecosistema si destabilizza
e il tessuto si disfa".
Ecco perché la scoperta della rana Hyperolius ukaguruensis
è di grande interesse per la conservazione della biodiversità
in Tanzania
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- Scoperta sensazionale: trovati i resti di un'antica città perduta
29 Luglio 2022 07:30
- Fonte: 123rfVista dei Monti Zagros
Proprio come nei migliori film di avventura, ecco che
arriva una notizia a dir poco sensazionale.
La fortezza di Rabana-Merquly, risalente a circa 2000 anni
i fa e situata sui monti Zagros, nell'attuale territorio del
Kurdistan iracheno, potrebbe far parte di una città a stampo
reale fino ad ora perduta, l'antica Natounia.
Una scoperta nata a seguito di uno studio condotto da un
gruppo di archeologici in un arco di tempo compreso tra
il 2009 e il 2022.
E che, grazie agli scavi compiuti e all'utilizzo delle fotografie
scattate dai droni, ha potuto riportare alla luce nuovi reperti e
catalogare il sito arrivando a questa eccezionale conclusione.
La città di Natounia infatti, fino ad ora conosciuta solo per il
ritrovamento di alcune monete risalenti al I secolo a.C., faceva
parte dell'Impero dei Parti.
Una vera e propria potenza cultura e politica insediata tra l'Iran
e la Mesopotamia e presente in questi luoghi circa 2000 anni fa.
Ma di cui, fino a oggi, non si avevano grandi testimonianze
e informazioni.
Dai dati raccolti e dagli scavi eseguiti, si è visto come la fortezza
di pietra di Rabana-Merquly comprenda anche una serie di
fortificazioni lunghe quasi 2,5 miglia (circa 4 chilometri), un
complesso religioso, due insediamenti più piccoli e rilievi rupestri
scolpiti e ritrovati all'ingresso della zona mappata.
Rilievi che, di fatto, hanno aperto le porte a nuove ipotesi e scoperte.
Proprio questi, infatti, raffigurano l'immagine di un re, lo stesso
rappresentato su una statua trovata in passato ad Hatra, un sito a
circa 230 chilometri da quello di Rabana-Merquly.
Secondo i ricercatori questi rilievi sarebbero la raffigurazione del
fondatore della dinastia reale di Adiabene.
Un regno molto antico della Mesopotamia settentrionale e che a
sua volta faceva parte dell'Impero dei Parti.
E questo lo si è capito da alcuni particolari delle incisioni, come
l'abito indossato dal re o il suo cappello. Ma non solo.
A rafforzare l'idea della reale importanza della fortezza di
Rabana-Merquly e dell'aderenza del sito con la città di Natounia,
poi, sono state anche le monete già citate.
Unica testimonianza in essere di un luogo che sembrava scomparso.
Sempre secondo i ricercatori, infatti, le caratteristiche
dell'antica città perduta e tornata alla luce, coincidono con quelle
scoperte analizzando le monete già citate, ricche di dettagli utili
e la cui provenienza è riconducibile proprio dall'antica Natounia
, anche chiamata Natounissarokerta. Termine che sta a indicare
appunto una fortezza.
Se questo non bastasse, tra gli altri ritrovamenti a cui hanno preso
parte studiosi e archeologi condotti dal ricercatore dell'Università
di Heidelberg, il dott. Michael Brown, sono venute alla luce anche
alcune caserme militari e templi dedicati con molta probabilità alla
dea persiana "Anahita".
Ritrovamenti che vanno a rafforzare ancora di più la fondatezza
della scoperta.
E che dimostrano come la citta di Natounia e la sua fortezza, fossero
tra i luoghi più importanti dell'Impero, utilizzati con molta probabilità
come snodo di commerci e relazioni diplomatiche.
E rimarcando, di fatto, la grande importanza avuta in passato da una
terra carica di testimonianze storiche, civiltà complesse e fiorenti e che
ancora oggi aspetta di essere scoperta.
Per riscostruire passo dopo passo la storia dell'umanità tutta
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Etichette: Civiltà Matriarcali
IL SITO VISTO DAL SATELLITE |
Qualcosa di straordinario è stato scoperto in una zona
del Sud Africa: le rovine di un'antica città fortificata
appartenente a un'antichissima civiltà, a circa 280 km
verso l'interno, ad ovest del porto di Maputo (la capitale
del Mozambico).
Questo ritrovamento potrebbe riscrivere la storia dell'umanità.
La piramide di Giza risulta essere la struttura più antica
mai ritrovata e risale solamente a 5000 anni fa.
La sfinge è stata supposta antecedente alle piramidi, qualcuno
ha parlato di 7000 anni addietro.
Ma il sito di Lepenski-vir (le Porte di Ferro) risalgono a 7000
anni fa, e il sito di Gobekli Tepe risale a 9500 anni fa.
Poi i ritrovamenti di figurine fittili di 35000 anni fa, e la Venere
di Hohle Fels, la statuina paleolitica datata tra i 31.000
ed i 40.000 anni fa, associabile alle prime presenze dell' Homo
Sapiens (Cro-Magnon) in Europa.
Ma questo sito è molto ma molto più antico.
I primi esploratori dell'area che si trovarono di fronte a queste
rovine pensarono trattarsi di recinti destinati al bestiame,
costruiti da popolazioni antiche ma non così antiche.
Solamente negli ultimi vent'anni si è compreso che non si
tratta di recinti, bensì di templi antichi e osservatori astronomici,
costruiti da civiltà per ora sconosciute.
Una città che sembra essere stata costruita dal 200000
al 160000 a.c..
Lo scrittore Michael Tellinger, insieme al vigile del fuoco e pilota
Johan Heine, che aveva osservato queste rovine negli anni
sorvolando la regione, avevano scoperto per caso il sito che
si trova a circa 300 km da Johannesburg, quasi al confine con
il Mozambico, già nel 2010, tanto che aveva parlato della scoperta
nel suo libro "Temples Of The African Gods".
Il giornale thesouthafrican.com ha confermato ora che la
città risalirebbe a ben 200.000 anni fa.
Tellinger ha commentato: "Quando Johan per primo mi ha fatto
conoscere le antiche rovine di pietra dell'Africa australe, non
avevo idea delle incredibili scoperte che ne sarebbero seguite,
in breve tempo.
Le fotografie, i manufatti e le prove che abbiamo accumulato
puntano senza dubbio ad una civiltà perduta e sconosciuta,
visto che precede tutte le altre, non di poche centinaia d'anni,
o di qualche migliaio d'anni... ma di molte migliaia d'anni.
Queste scoperte sono così impressionanti che non saranno
facilmente digerite dall'opinione ufficiale, dagli storici e dagli
archeologi, come abbiamo già sperimentato.
E' necessario un completo mutamento di paradigmi nel nostro
modo di vedere la nostra storia umana".
Anche le popolazioni del luogo conoscevano già il posto, e lo
attribuivano a qualche civiltà antica, ma non così antica.
Sorvolando in aereo la zona, lo scrittore e il vigile del fuoco
hanno voluto ottenere una veduta più ampia che ha portato
a una scoperta sensazionale, e cioè che gli enormi cerchi
concentrici erano mura cittadine ben visibili dal satellite.
LE DIMENSIONI
Queste mura si protrarrebbero per 1500 km, con un'altezza
di quasi due metri e più di un metro di larghezza, in alcuni
punti fino a tre m e mezzo di spessore, tali da poter far
transitare due carri contemporaneamente.
Il sito farebbe infatti parte di un'antica città che occupava
un'estensione di 10000 Kmq.
Ma secondo notizie più approfondite, date dalle foto scattate
da aerei e da elicotteri, risulta che l'area coperta da questa
metropoli era di soli 5000 Kmq, ma a sua volta era compresa
all'interno di un'ampia comunità che occupava addirittura
35000 Kmq.
Al suo interno ci sono strade, alcune delle quali lunghe sino
a cento miglia, che servivano da collegamento fra la città e i
campi destinati all'agricoltura; è stata rilevata una certa
somiglianza con gli insediamenti degli Inca in Perù.
Ma si osservano complessi di forma circolare e campi agricoli,
il che dimostra che questo luogo era abitato da una civiltà
evoluta.
Alle coordinate satellitari 25 37'40.90″S / 30 17'57.41E si
possono vedere chiaramente (A) il panorama visto dal cielo,
(B) le strutture circolari e (C) altri piccoli cerchi che indicano
degli avvallamenti nel terreno.
Queste rovine circolari sono distribuite su una vasta area.
Possono solo essere veramente apprezzate dal cielo o
attraverso immagini satellitari.
Molte di loro sono quasi completamente erose o sono state
coperte dai movimenti del suolo fatti per millenni dall'attività
dell'agricoltura.
Del resto il Sudafrica è già considerato la culla del mondo.
Proprio di recente, sempre nella zona di Johannesburg, è stato
trovato il più antico antenato dell'uomo, l'Homo Naledi.
HOMO NALEDI
- 6 Mag 2018 - Il nostro nuovo antenato è stato trovato in
una grotta a 40 metri di profondità vicino a Johannesburg,
in Sudafrica.
Si tratta di un mosaico fossile composto da oltre 1.500 ossa
. Viso da scimpanzè, denti, piedi e mani umani: ecco com'era
l'Homo Naledi scoperto in Sudafrica.
La scoperta è stata effettuata anche grazie a un finanziament
o della National Geographic Society. Nel team anche un italiano:
Damiano Marchi, antropologo del dipartimento di Biologia
dell'Università di Pisa, che fa parte dell'equipe guidata dal
professor Lee Berger.
Nella stessa zona nel 1947 fu scoperta Lucy, la più famosa tra
gli ominidi che risale a qualche milione di anni fa, e nel 1997 Little
Foot, che avrebbe un'età di 3 milioni e 670mila anni e sarebbe
pertanto il più vecchio ominide trovato finora sulla Terra.
LE MINIERE D'ORO
Ma c'è di più: nella zona dei ritrovamenti di questa civiltà sono
state scoperte, durante gli ultimi 500 anni, miniere d'oro antiche,
evidente segno che chi ha vissuto in questa terra ha scavato
per molto tempo in cerca dell'oro o in ogni caso ne ha approfittato.
Il Sud Africa è il più grande paese produttore di oro al mondo
e la più grande zona di produzione d'oro del mondo è il
Witwatersrand, la stessa regione dove si trova l'antica metropoli.
Infatti nelle vicinanze di Johannesburg, c'è anche un luogo
chiamato "Egoli", che significa la città d'oro.
Non si tratta dunque dell'oro nativo trovato per caso nei fiumi
o nelle sabbie, ma di miniere vere e proprie, con tunnel e pozzi.
"Le migliaia di antiche miniere d'oro scoperte nel corso degli
ultimi 500 anni, indicano una civiltà scomparsa che ha vissuto
e scavato per l'oro in questa parte del mondo per migliaia d'anni",
dice Tellinger.
"E se questa è in realtà la culla del genere umano, possiamo
star guardando le attività della più antica civiltà sulla Terra".
Viene da chiedere cosa se ne facessero popoli così antichi dell'oro,
evidentemente era apprezzato per la sua bellezza e inalterabilità,
ma sicuramente anche come merce di scambio
(oro lavorato o grezzo che fosse), il che fa comprendere l'evoluzione
del sito.
Infatti a 30 km dell'area, si trova un porto abbastanza grande per
il commercio marittimo necessario a sostenere una popolazione
stimata nientedimeno che di 200 mila persone, grossomodo quanto
Padova o Trieste.
FOTO AEREE |
Le rovine sono per la maggior parte cerchi di pietre sepolti e solo
alcuni sono visibili grazie ai venti che hanno spazzato via la sabbia,
facendo emergere fondamenta e mura appartenute ad antiche
costruzioni, presumibilmente le più antiche mai costruite dall'essere
umano.
Nei testi sacri dei Sumeri, specialmente l'Enuma Elish, si parla
di una città di nome Abzu, conosciuta anche come città mineraria
per via delle miniere d'oro poco distanti.
Questa città, dunque, sembra essere davvero esistita proprio in
concomitanza con l'improvvisa, e tuttora misteriosa, evoluzione
degli ominidi in homo sapiens.
Il ritrovamento di utensili costruiti da esseri umani e datati a 500
mila anni fa inoltre retrodaterebbe ulteriormente la comparsa di
esseri viventi senzienti sul nostro pianeta.
VISIONE SATELLITARE |
Johan Heine scoprì il cosiddetto "Calendario Adam" nel 2003,
mentre cercava uno dei suoi piloti schiantato con l'aereo sul bordo
dell'altopiano.
Mentre portava in salvo il pilota ferito Johan scorse dei i monoliti
che erano allineati ai punti cardinali della Terra.
Almeno tre erano allineati verso il sorgere del sole, ma sul lato ovest
dei monoliti allineati c'era un misterioso buco nella terra.
Infine Johan capì che le rocce erano allineate con il sorgere
e il tramonto del sole, determinando i solstizi e gli equinozi.
Ma un giorno scoprì che c'era una pietra dalla forma umanoide
che era stata rimossa tempo prima. e che Johan ritrovò dopo
una lunga ricerca.
I primi calcoli dell'età del calendario vennero effettuati in base
al sorgere di Orione, una costellazione che completa la sua rotazione,
detta precessione, ogni 26000 anni.
Quando i pezzi sono stati rimessi insieme, mancavano circa
3 cm di pietra. Si è potuto valutare così l'età del sito dal tasso
d'erosione della pietra.
Gli scienziati non sanno perché improvvisamente apparve
l'Homo sapiens, ma siamo in grado di rintracciare i nostri geni
sino ad una sola donna, che è nota come "Eva mitocondriale".
CALENDARIO ADAM |
L'EVA MITOCONDRIALE
Una comparazione del DNA mitocondriale di appartenenti
a diverse etnie e regioni suggerisce che tutte queste sequenze
di DNA si siano evolute molecolarmente dalla sequenza
di un antenato comune.
Poichè un individuo eredita i mitocondri solo dalla propria
madre, tutti gli esseri umani hanno una linea di discendenza
femminile derivante da una donna che i ricercatori hanno
soprannominato Eva mitocondriale.
Basandosi sulla tecnica dell'orologio molecolare, che mette
in correlazione il passare del tempo con la deriva genetica
osservata, si ritiene che Eva sia vissuta fra i 150000 e i 200.000
anni fa.
La filogenia suggerisce che sia vissuta in Africa.
Gli scienziati ipotizzano che vivesse in una popolazione di 4000-
5000 femmine fertili.
Se altre femmine avevano prole con cambiamenti evolutivi del loro
DNA, non abbiamo alcuna registrazione della loro sopravvivenza.
Sembra che siamo tutti discendenti di questa femmina umana.
Insomma tutti figli della stessa madre che, in barba ai razzisti,
è proprio nera.
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Fonte: articolo riportato dall'Internet
Così i buchi neri forgiano le galassie
Fonte: INAF/Università di Tor Vergata
Rappresentazione artistica di un outflow prodotto da un
buco nero supermassiccio. (ESA/ATG medialab)
Analizzando i dati raccolti dal telescopio spaziale per raggi X
XMM-Newton dell'ESA, un team di scienziati guidato da Roberto
Serafinelli dell'Istituto Nazionale di Astrofisica ha mostrato come
i buchi neri supermassicci modellino le loro galassie ospiti con
venti potenti che spazzano via la materia interstellare rallentando
il ritmo di formazione di nuove stelle
Otto anni di osservazioni condotte con XMM-Newton sul buco nero
che si trova nel cuore della galassia attiva PG 1114+445 hanno
consentito di mostrare come i venti ultraveloci - outflows (deflussi) di
gas emessi dal disco di accrescimento, nella regione prossima al buco
nero stesso - interagiscano con la materia interstellare vicino al centro
della galassia.
Questi outflows erano già stati individuati in precedenza, ma il nuovo studio
identifica chiaramente, per la prima volta, tre fasi della loro interazione
con la galassia ospite.
«Questi venti potrebbero spiegare alcune sorprendenti correlazioni note da
anni ma che gli scienziati ancora non sono riusciti a giustificare», dice il
primo autore dello studio pubblicato su Astronomy & Astrophysics, Roberto
Serafinelli dell'Istituto Nazionale di Astrofisica di Milano, che ha condotto
la maggior parte della ricerca durante il suo dottorato all'Università degli
Studi di Roma Tor Vergata.
«Osserviamo, per esempio, una correlazione tra le masse di buchi neri super-
massicci e la dispersione di velocità delle stelle presenti nelle regioni interne
delle galassie ospiti.
Questo però non può essere dovuto all'attrazione gravitazionale del buco nero,
a causa dell'elevata distanza del gas dallo stesso.
Il nostro studio, per la prima volta, mostra come i venti del buco nero abbiano
sulla galassia un impatto su una scala più grande, fornendo probabilmente il
collegamento mancante».
Già gli astronomi avevano identificato due tipi di outflows negli spettri a raggi
X emessi dai nuclei galattici attivi, le dense regioni centrali delle galassie con
buchi neri supermassicci al centro. I cosiddetti outflows ultraveloci (UFO,
ultra-fast outflow), fatti di gas altamente ionizzato, viaggiano a velocità che
possono raggiungere il 40 per cento di quella della luce, e si osservano in
prossimità del buco nero centrale.
Gli outflows più lenti, chiamati anche "assorbitori tiepidi" (warm absorbers),
viaggiano invece a velocità assai più basse, nell'ordine delle centinaia di km/s,
e mostrano caratteristiche fisiche - come la densità delle particelle, o la loro
ionizzazione - simili a quelle della materia interstellare circostante.
Questi outflows più lenti hanno una probabilità più elevata di essere rilevati a
distanze maggiori dal centro della galassia.
Nel nuovo studio, gli scienziati descrivono un terzo tipo di outflow che combina
le caratteristiche dei due precedenti: la velocità di un UFO e le proprietà fisiche
di un assorbitore tiepido. «Riteniamo che si tratti della zona in cui l'UFO entra
in contatto la materia interstellare e la trascina via come fosse uno spazzaneve»,
spiega Serafinelli.
«È ciò che chiamiamo un outflows ultraveloce "trascinato", perché l'UFO, in
questa fase, sta penetrando nella materia interstellare.
Un po' come il vento quando sospinge la vela di una barca».
Il trascinamento avviene a una distanza dal buco nero che va da decine a centinaia
di anni luce.
L'UFO sospinge gradualmente la materia interstellare allontanandola dalle regioni
centrali della galassia, liberando queste zone dal gas e rallentando così
l'accrescimento della materia attorno al buco nero supermassiccio.
Un processo, questo, già previsto dai modelli, ma mai prima d'ora osservato nelle sue
tre fasi.
«Nei dati di XMM-Newton possiamo vedere - a grandi distanze dal centro della
galassia - materia ancora indisturbata dall'UFO proveniente dell'interno», osserva
Francesco Tombesi, dell'Università di Roma Tor Vergata e del Goddard Space Flight
Center della NASA, secondo autore dello studio. «Possiamo vedere anche nubi di gas
a minor distanza dal buco nero, vicino al nucleo della galassia, dove l'UFO ha iniziato
a interagire con la materia interstellare».
Una prima interazione, questa alla quale accenna Tombesi, che avviene a parecchi
anni di distanza da quando l'UFO ha lasciato il buco nero. Ma l'energia dell'UFO
consente al buco nero - un oggetto relativamente piccolo rispetto alla galassia - di
estendere la sua influenza su materia che si trova ben oltre la portata della sua
forza gravitazionale.
Secondo gli scienziati, attraverso gli outflows i buchi neri supermassicci
trasferiscono la loro energia nell'ambiente circostante, spazzando via gradualmente il
gas dalle regioni centrali della galassia, che potrebbe quindi arrestare la formazione
stellare.
E, in effetti, oggi le galassie producono stelle a un ritmo assai inferiore rispetto a quanto
non facessero nelle prime fasi della loro evoluzione.
«Questa è la sesta volta in cui questo tipo di outflows vengono rivelati», ricorda Serafinelli.
«Dunque è tutta scienza nuovissima.
Le fasi dell'outflows erano state osservate inprecedenza, ma separatamente: questa è la
prima volta in cui si riesce a chiarire come siano collegate l'un l'altra».
Il fattore chiave che ha consentito di distinguere i tre tipi di outflows è la risoluzione
energetica senza precedenti di XMM-Newton.
In futuro, con nuovi e più potenti osservatori come Athena, l'Advanced Telescope for
High ENergy Astrophysics dell'ESA, gli astronomi saranno in grado di osservare
centinaia di migliaia di buchi neri supermassicci, rilevando gli outflows con grande facilità.
Cento volte più sensibile di XMM-Newton, Athena dovrebbe essere lanciato nel 2030.
«Trovare una sorgente è fantastico, ma la vera svolta sarebbe scoprire che questo
fenomeno è comune nell'universo», dice Norbert Schartel, project scientist di XMM
-Newton all'ESA. «Anche con XMM-Newton, nel prossimo decennio, potremmo
essere in grado di trovare altre sorgenti come questa».
Ottenere ulteriori dati aiuterà in futuro gli scienziati a comprendere in dettaglio le
complesse interazioni tra i buchi neri supermassicci e le loro galassie ospiti, e a
capire le ragioni della riduzione - nel corso di miliardi di anni - del tasso di formazione
stellare osservata dagli astronomi.
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Inviato da: cassetta2
il 30/04/2020 alle 12:34
Inviato da: cassetta2
il 20/08/2019 alle 21:06
Inviato da: amico_per_sempre1964
il 10/06/2018 alle 20:06