CSMinforma

Notiziario tra il serio, il faceto e pure l'ameno sulla salute mentale, la solidarietà e relativi dintorni e contorni nel territorio del Sulcis-Iglesiente (Sardegna, Italy) e, talvolta, pure Oltre.

 

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periodico di approfondimento sulle tematiche della salute mentale che prende spunto dagli argomenti del dibattito quotidiano al Centro di Salute Mentale di Carbonia.

In questo numero:

Il prendersi cura
(di Antonio Cesare Gerini)

"Corpo in azione" nella psicoterapia con il bambino
(di Magda Di Renzo)

Un modello per le dipendenze
(di Alessandro Floris et al.)
Le polarità
(di Simona Corrò)
Il gruppo Solidarietà ...
(di Ylenia Corrias)
La famiglia e la sua storia 
(di Carla Corona)
Un modello concettuale per la gestione del rischio nel nursing
(di Antonello Cuccuru)
Digitale: il futuro della radiologia
(di Carlo Saba)

 

METODOLOGIA


“IL PRENDERSI CURA”
nel lavoro del Centro Salute Mentale di Carbonia

Spesso quando si discute degli interventi svolti in favore delle persone con disturbo mentale si enumerano tali interventi, mettendoli in fila e indicandone la quantità. Si fanno tante visite psichiatrico–psicologiche, tanti interventi socio-sanitari, tanti riabilitativi o sulla famiglia e così via. Sembra che procedere in questo modo sia necessario per dimostrare l’efficacia del servizio stesso.
Qui però, in questa riflessione, non si procederà a enumerare gli interventi svolti dal CSM di Carbonia, ma si cercherà di mettere in evidenza il metodo che sta alla base degli interventi stessi.
Il “prendersi cura” è il primo momento di tale azione. “Il prendersi cura” è lo specifico del nostro lavoro. L’altro polo, cioè le modalità “teatro”, "fattoria", "laboratori", "gruppi di auto aiuto" etc, sono l’oggetto tecnico dell’intervento. La parola “cura” del “prendersi cura” non va confusa con la parola che in medicina e scienze affini usano indicare concetti simili. Ad esempio non va confusa con la parola “terapia”. La terapia è solo una delle modalità del “prendersi cura”, una modalità al fianco delle altre. Una modalità che richiama ad un intervento medico (farmaco-terapia) o psicologico (psicoterapia) o sociale (socioterapia), ma che non esaurisce mai il “prendersi cura”. Il “prendersi cura” di cui qui vogliamo parlare si coniuga con le parole “ascolto”, “condivisione”, “attenzione”, in una parola “relazione”.
All’interno del nostro lavoro nella salute mentale il “prendersi cura” è alla base di ogni altra modalità di intervento: accoglienza, volontariato, lavoro nella fattoria, inserimento lavorativo nel sociale, assistenza all’abitare, ecc.
E’ opportuno fare un passo avanti per comprendere: “chi” si prende cura di “chi”?Forse possiamo sostituire la parola “Chi” con la parola “Qualcuno”. Allora potremmo dire che “qualcuno si prende cura di qualcuno”. Entrambi i “qualcuno” del “prendersi in cura” sono delle “soggettività personali”, sono delle persone. La “soggettività personale” è composta dai due termini “soggettività” e “personale”. C’è evidentemente un accento posto sul mondo soggettivo interiore e sulla contemporanea capacità di relazione del soggetto, attraverso il suo interno sentire, col mondo esterno, col mondo degli altri e il mondo delle cose. Possiamo, senza ulteriormente approfondire, chiamare persona questa “soggettività personale”. 
Dunque:“una persona si prende cura di una persona”.La persona che pratica la psicoterapia è sempre molto di più della sua tecnica psicoterapica, come c’è sempre di più nella persona rispetto alla sua depressione, soprattutto se la depressione si declina col verbo avere (qualcuno ha la depressione). Se la depressione si declina col verbo essere, cioè è depressa, allora è depressa la persona e la depressione è personale quindi ogni depressione è diversa da un’altra in quanto ogni essere personale è irripetibile.

(l'articolo intero a cura di A.C. Gerini lo trovi al messaggio n. 111)

 

A PROPOSITO DI FOLLIA

“Deistituzionalizzare la malattia era ed è la legge 180,
deistituzionalizzare la follia è il nostro quotidiano prospettico compito.”
(Franco Rotelli)

Perché la malattia è un dis-valore?
E’ sempre più chiaro che la malattia altro non è che l’ istituzionalizzazione della follia e quest' ultima, probabilmente, altro non è che la forma parossistica dell’istituzionalizzazione dei conflitti. Come non vedere nel dilatarsi e nel restringersi dei conflitti di norme (a seconda delle situazioni di espansione e di recessione economica di un paese) la relatività di un giudizio scientifico che di volta in volta muta l’irreversibilità delle sue definizioni? Come non sospettare che esse siano strettamente collegate e dipendenti dall’ideologia dominante? Questi sono alcuni temi fondamentali della nostra ricerca teatrale. Partiamo dalla denuncia di una vita impossibile per alludere ad un’altra vita che, per ora, non ha altro luogo dove poter essere se non la scena. Lavoriamo per poter adesso porci e un giorno opporci all’incedere di quella violenza materiale, culturale, politica che anche qui, anche oggi, nega ancora i diritti fondamentali. Il problema allora non sarà quello della guarigione, ma dell’emancipazione, non la restituzione di salute, ma l’invenzione di salute, non laboratori per l’ortopedia delle libertà negate, ma laboratori per la riproduzione sociale della gente. (Accademia della Follia)

 

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PROVOCAZIONI

Discussione

Qualcuno ha scritto che un farmaco è una sostanza che viene somministrata ad una cavia e produce un articolo scientifico. Ma il processo non è così immediato: qui sulla terra un farmaco è una sostanza che viene somministrata ad una cavia, produce un articolo scientifico che riceve una commenda da almeno un docente (sempre assai noto in America e già membro dell'OMS) ed è citato in un congresso ai Tropici. Il rimedio entra quindi in produzione e viene proposto all'Autorità comPetente che - attesa la sostanziale ignoranza del funzionariato, in assenza di alcuna opposizione scientifica (naturalmente, a parte quelle eventuali delle qualificate Commissioni prePoste!) - approva.
Ora ha inizio la sperimentazione sulla popolazione e i risultati sono sempre positivi o, al massimo, discutibili e discussi, ma mai negativi. Solo in un caso - in quanto naque una popolazione di bambini affetti da gravi (ed evidenti) malformazioni e la farmaceutica non prese in tempo la stampa per il collo e un farmaco - un sedativo antinausea e antipnotico, guarda un po' -  fu ritirato con grande scandalo. Passarono somme ingenti, certo, però nessuno andò in galera.

 

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Regressione

Post n°176 pubblicato il 13 Agosto 2008 da csmcarbonia
Foto di csmcarbonia

Razzismo a Cagliari,
zona Poetto


Stiamo assistendo ad un processo culturale per cui anche in Italia è possibile essere razzisti senza che nessuno si indigni, è possibile dire in televisione che gli immigrati anche quelli che "vivono nel nostro quartiere, per carità, si sono sempre comportati bene, ma comunque ci procurano un senso di fastidio e dunque non li vogliamo ....".
  E' un processo culturale, mediato e rafforzato dalle misure d'emergenza dell'attuale governo che propone misure di coercizione e non di accoglienza per uominie  donne immigrati che cercano una vita migliore e scampo a miseria e guerre.
  In questo processo è possibile che anche in una città come Cagliari, sotto la cappa del solleone d'agosto, nella spiaggia del Poetto affollata da vacanzieri "rimasti a casa", percorsa continuamente da uomini che tentano di vendere l'oggettistica tipica dell'ambulante, si manifesti intolleranza, si ricorra all'insulto, fino all'ennesima aggressione di un ambilante senegalese avvenuta alcuni giorni fa in uno stabilimento sulla spiaggia.
  Vogliamo manifestare lo sdegno per queste aggressioni, ma soprattutto vorremmo fermare questo processo culturale e anzi invertire la rotta.
  Ripredere dal rispetto dell'altro e della sua fatica quotidiana molto spesso non proficua, dalla considerazione della solitudine di un altro essere umano che, con digfnità e sacrificio, percorre ogni giorno lo stesso pezzo di spiaggia lontano dalla propria terra.
  Ma per il momento ... vogliamo esprimere solidarietà ai migranti, ma soprattutto ancora più che mai il dissenso da ogni forma di razzismo.

(Volantino a firma di Associazione Sardegna-Palestina e Associazione DEGGO - Intesa). Per un rapido servizio fotografico sulla manifestazione di protesta vai su http://blog.libero.it/fotograffiando.

 
 
 

Storia 1

Post n°175 pubblicato il 11 Agosto 2008 da csmcarbonia

Laboratori Scientifici

Negli ultimi decenni dell’Ottocento il manicomio non era più solo un istituto per la custodia e la cura dei malati di mente, ma anche un luogo di osservazione e di ricerca scientifica, il luogo del “sapere psichiatrico”.
Per tentare di spiegare il mistero della follia, la psichiatria attribuiva sempre maggiore importanza alle indagini anatomopatologiche e alle ricerche neurologiche: il disturbo psichico veniva considerato il sintomo di una alterazione o di una lesione organica.
Si spiega così l’istituzione dei Laboratori di istologia, batteriologia e chimica, la presenza di una sala anatomica per le autopsie o quella di due sale per esperimenti di vivisezione sugli animali.

Ma anche l’antropologia, con lo studio dell’evoluzione umana, doveva in qualche modo interessare la psichiatria: le dimensioni e la forma della scatola cranica, la statura e la lunghezza degli arti potevano segnalare un incompleto sviluppo fisico, un ritorno al passato che portava inevitabilmente con sé anche un regresso psichico, appunto la follia.
La psichiatria diviene dunque “scienza” delle malattie mentali entrando, per così dire, nei laboratori di ricerca, crescendo su una base eterogenea che ha continuato ad arricchirsi nel nostro secolo, garantendo una pluralità di prospettive in grado di restituire la complessità della mente umana.

Tra gli inizi dell’Ottocento e la metà del secolo in quasi tutti gli istituti psichiatrici d’Europa viene predisposto un nuovo, fondamentale, strumento: la cartella clinica.
Nascono, correlativamente, gli archivi sanitari, destinati a raccogliere, in veri e propri dossiers individuali, i materiali relativi ai singoli ricoverati.
A partire dalle primitive registrazioni dei dati anagrafici ed anamnestici più elementari, dalle module mediche che cominciano ad accompagnare l’ingresso dei malati in manicomio, le cartelle cliniche si perfezionano progressivamente lungo l’arco di un secolo, fino a diventare complesse raccolte di dati, comprensive di informazioni di carattere economico-sociale, antropologico, fisico, comportamentale.
Queste raccolte di dati varieranno col modificarsi dei paradigmi clinico-nosografici ed ezio-patologici fondamentali, e come tali essi costituiscono per lo storico, oggi, delle fonti insostituibili – ed ancora insufficientemente indagate – per l’opera di ricostruzione del concreto operare dei medici all’interno delle istituzioni psichiatriche.

Attraverso tali materiali è possibile ricostruire il lento processo di formazione dello “sguardo medico” così come si specifica sia in relazione ai grandi quadri clinici e concettuali – con le correlative entità semeiotiche, diagnostiche e nosografiche che lì vengono predisposte – sia in rapporto ad una serie di sollecitazioni eterogenee (famiglie, poteri pubblici, istituzioni) in funzione delle quali sempre più la psichiatria sarà chiamata ad operare. (1. continua)

 
 
 

Contenzione e Terapia

Post n°174 pubblicato il 10 Agosto 2008 da csmcarbonia
Foto di csmcarbonia

La questione della contenzione fisica accompagna da sempre la storia della psichiatria.
L’atto di Pinel (1794), che simbolicamente dà avvio alla nuova scienza psichiatrica, apparentemente libera gli individui folli reclusi al Bicêtre da "ceppi e catene" per collocarli in un nuovo spazio, il manicomio, utile allo sviluppo degli studi e della cura della follia.
In effetti il nuovo progetto terapeutico, che prende il nome di trattamento morale, si accompagna fin da subito ad atti costrittivi: "il trattamento morale è l’unico ad avere un’influenza diretta sui sintomi della follia….. presuppone l’impiego ragionato di tutti i mezzi che agiscono direttamente sull’intelligenza e sulle passioni degli alienati".
Le catene lasciano il posto a nuovi mezzi di coercizione: sedie di contenzione, cinture di cuoio, manette, collari, camicie di forza.
Nel corso dell’800 rimane inascoltata l’esperienza condotta da Conolly (1856) che abolisce ogni forma di contenzione fisica all’interno di un ospedale psichiatrico inglese.
Agli inizi del ‘900 si discute a lungo all’interno della comunità psichiatrica italiana, circa l’opportunità di abolire i mezzi di contenzione; il dibattito tuttavia non modifica la pratica coercitiva che rimane pressoché inalterata fino agli anni 60-70, allorché nell’ambito dei profondi cambiamenti che produrranno il superamento dell’Ospedale Psichiatrico, la contenzione fisica viene denunciata e combattuta come espressione di una pratica violenta e disumana, antitetica a qualunque tipo di terapia.
Tutto ciò non ha evitato che la pratica della contenzione fisica si diffondesse di nuovo ai giorni nostri.
Ad essa si è aggiunta una contenzione più subdola, non esterna ma interna. La psicofarmacologia usata in dosi inappropriate che debordano dalle dosi cosiddette terapeutiche. Dove sta il confine fra una dose di psicofarmaci  terapeutica e una dose contentiva?

Strumenti di contenzione: camicia di forza (in alto a sinistra), collare (in alto a destra),
letto di contenzione (in basso a sinistra) e psicofarmaci (in basso a destra)

 
 
 

Gruppo Teatro Albeschida

Post n°173 pubblicato il 04 Agosto 2008 da csmcarbonia
Foto di csmcarbonia

Il 25 luglio 2008 al Castello Siviller di Villasor, la Compagnia Teatro Albeschida ha presentato a un pubblico numeroso e molto interessato l'ultima produzione teatrale, il Marat Sade dietro la regia di Corrado Licheri (nella foto qui a sinistra che puoi cliccare per ingrandire). Nei messaggi precedenti trovi alcune fotografie della rappresentazione (servizio fotografico di Vincenzo Vacca).

 
 
 

Gruppo Teatro Albeschida

Post n°172 pubblicato il 04 Agosto 2008 da csmcarbonia

Marat Sade, Villasor 25.07.08

 
 
 

Gruppo Teatro Albeschida

Post n°171 pubblicato il 04 Agosto 2008 da csmcarbonia

Marat Sade, Villasor 25.07.08

 
 
 

Gruppo Teatro Albeschida

Post n°170 pubblicato il 04 Agosto 2008 da csmcarbonia

Marat Sade, Villasor 25.07.08

 
 
 

Gruppo Teatro Albeschida

Post n°169 pubblicato il 04 Agosto 2008 da csmcarbonia

Marat Sade - Villasor, 25.07.08

 
 
 

Domenica bestiale

Post n°168 pubblicato il 03 Agosto 2008 da csmcarbonia

Una storia
L’uomo è entrato in coma in seguito a un incidente d’auto nel 1984, ha riaperto gli occhi l’11 giugno 2003. «Mamma» è stata la sua prima parola 
 
Un risveglio «incredibile» dopo vent’anni
 

Per i medici che lo avevano in cura Terry Wallis aveva una possibilità su 300 milioni di uscire dallo stato vegetativo persistente. Oggi, secondo alcuni esperti, il suo caso deve far rivedere «gli antichi dogmi» sulle persone che si trovano in condizioni simili alle sue

di LORENZO FAZZINI

Quel 13 luglio 1984 era un bal­danzoso ventenne, sposato con Sandi e padre di una bimba di appena sei setti­mane, Amber. Quella sera, mentre era in viaggio con alcuni amici nel­le Ozark Mountains, uscì di strada con l’automobile: fu l’inizio di 19, in­terminabili anni nella condizione di 'persistente stato vegetativo'. «Non si riprenderà mai», scandivano i me­dici che lo avevano in cura. Terry Wallis, meccanico dell’Arkansas, è invece diventato protagonista di un fatto medico incredibile, un risve­glio che alcuni studiosi hanno cata­logato come possibile in «un caso o­gni 300 milioni di possibilità». Ma secondo altri esperti medici tutto ciò deve far rivedere «gli antichi dogmi» sulla condizione di stato 'vegetati­vo' delle persone in coma.
  Già, perché la storia del risveglio di Terry, avvenuto l’11 giugno del 2003, dopo quasi vent’anni di perdita di coscienza, fece il giro di tutti gli Sta­ti Uniti: ne parlarono la Cnn, il New York Times e suscitò grande interes­se nella comunità scientifica ameri­cana. Anche per la prima parola u­scita dalla bocca del meccanismo dell’Arkansas: quel giorno, come o­gni mattina, l’infermiere che lo assi­steva, introducendo la madre nella stanza del figlio, chiese a Terry, da routine, chi fosse la persona che ve­niva a trovarla. «Mom», mamma scandì, in maniera inedita, Terry.
  Era stata propria la signora Angilee Wallis a rifiutare di credere che suo figlio era «andato», come gli ripete­vano i dottori. Come racconta il sito internet del Terry Wallis Fund, l’en­te nato per assicurare all’uomo cu­re di riabilitazione motoria, «ogni volta che guardava il suo bambino negli occhi vedeva qualcosa che la convinceva sul fatto che egli poteva ascoltarla e capirla. Qualcosa la con­vinceva che Terry voleva disperata­mente parlarle». Ma c’è stato di più: nonostante il suo status di vita, la madre decise di mantenere Terry dentro nelle nor­mali attività di famiglia, come se niente fosse: ogni settimana se lo portava a casa dall’ospedale. Ecco allora dal suo album delle foto, an­no dopo anno, Terry il giorno di Na­tale con un cappello di Santa Klaus, Terry al tavolo del Giorno del Rin­graziamento, addirittura lui in riva al lago a pescare. Dopo il suo 'risve­glio', il meccanico dell’Arkansas ha ripreso la capacità di formare frasi e ha riguadagnato un parziale uso de­gli arti, anche se non può ancora camminare o nutrirsi da solo.
  Dal punto di vista medico gli spe­cialisti hanno osservato, analizzan­do il caso di Wallis, qualcosa di par­ticolare: mentre offriva pochi segnali di coscienza, il suo cervello aveva ri­costruito in maniera metodica la materia cerebrale deputata a intera­gire con il mondo esterno, come at­testato dal Journal of Clinical Inve­stigation. Anche se la sezione dedi­cata alla memoria era stata com­promessa: nel 2003 per Terry il pre­sidente degli Stati Uniti era ancora Ronald Reagan.
  «Penso sia stato un vero processo, molto lento, di auto-guarigione», ha ammesso al Los Angeles Times Hen­ning Voss, autore dello studio e stu­dioso al Weill Cornell Medical Colle­ge’s Citigroup Biomedical Imaging Center. Studiando il cer­vello di Wallis dopo la sua ripresa, gli esperti hanno trovato che le cel­lule di alcune zone rela­tivamente non danneg­giate avevano formato nuovi assoni, le fibre ner­vose che trasmettono messaggi tra i neuroni.
  L’incredibile ripresa di Terry fece dire a Steven Laureys, neurologo del­l’Università belga di Lie­gi, che gli scienziati de­vono riconsiderare il modo in cui vengono trattati i pa­zienti in persistente stato vegetati­vo. «Tutto questo dimostra che ci so­no dei cambiamenti nel cervello. Ciò ci obbliga a riconsiderare vecchi dogmi». Come, appunto, il fatto che la condizione di coma sia definitiva. E durante gli anni in cui il loro figlio non rispondeva alle sollecitazioni né sembrava cosciente, i genitori di Terry pensarono diverse volte che, forse, «sarebbe stato meglio che non fosse sopravvissuto all’incidente». «Ho pensato che sarebbe stato in pa­ce … non io, ma lui», confessò il pa­dre. Ma dopo quell’11 giugno di cin­que anni fa sono stati ben contenti che tutto ciò non sia avvenuto. (tratto da AVVENIRE, Agosto 2008).


 
 
 

Domenica bestiale

Post n°167 pubblicato il 03 Agosto 2008 da csmcarbonia

Attenti ai ... cani

 
 
 

Domenica bestiale

Post n°166 pubblicato il 03 Agosto 2008 da csmcarbonia

L'amore è cieco

 
 
 

Domenica bestiale

Post n°165 pubblicato il 03 Agosto 2008 da csmcarbonia

A r s u r a 

 
 
 

Interventi

Post n°164 pubblicato il 28 Luglio 2008 da csmcarbonia

Fin dove arriva il principio di autonomia?

di Ignazio Sanna, arcivescovo di Oristano
(tratto da L'Avvenire del 28.07.08)

Uno dei problemi sui quali fa discutere la vicenda di Eluana Englaro è il rispetto della libera scelta del paziente. In questo mio breve intervento vorrei fare qualche considerazione sul limite dell’esercizio della libertà, che ritengo molto importante per la formazione delle nostre convinzioni personali.
Relativamente al valore della libertà, va ricordato che il concetto di libertà cristiana è legato all’immagine di Dio, perché, secondo il concilio, la libertà è il segno altissimo dell’uomo creato a immagine di Dio. La libertà umana è una libertà partecipata, perché l’uomo non è Dio, ma solo immagine di Dio. L’immagine, infatti, in se stessa, è un limite. Non è l’archetipo, non è l’originale. Ma essa è sempre in rapporto con l’archetipo e con l’originale. La creatura è sempre in rapporto con il Creatore. L’uomo immagine è in se stesso un limite. Un limite verso l’alto, perché non è Dio, è un essere che sfida gli dei, secondo Eschilo, un essere che parla degli dei, secondo Platone, un essere che parla a Dio, secondo sant’ Agostino. È dalla parte di Dio. È vicino a Dio, parla con Lui, sfida il suo divieto, ma non è Dio. Però è immagine di Dio, cioè deriva da Dio, dipende da Dio. Per capire l’uomo bisogna partire da Dio. L’immagine ha in se stessa qualcosa di fragile, di debole, di corruttibile, ma allo stesso tempo ha una valenza di eternità. Essa respinge sia il dualismo ontologico, che divide l’uomo in due sostanze, che il monismo materialistico, che lo riduce alla sola materia, al cosiddetto uomo neuronale. L’uomo è immagine di Dio in tutta la sua realtà fisica e spirituale, ed è, a priori, un essere responsabile verso Dio e creato per Lui. Proprio in base a questa sua somiglianza divina, che costituisce la sua vera dignità, egli è fondamentalmente diverso da tutto il mondo infraumano.
La libertà, dunque, è limitata, partecipata, verso l’alto, cioè Dio, ma è limitata e partecipata anche verso il basso, cioè la società. Il principio di autonomia, infatti, presuppone che la persona possa giudicare il valore della propria vita indipendentemente da ogni altra relazione con gli altri uomini, facendo riferimento in modo esclusivo ai propri criteri e al proprio vissuto. Nella realtà ciò non si dà mai, perché gli uomini non sono atomi, come afferma una concezione individualistica estrema, ma dipendono in modo reale gli uni dagli altri. L’immagine che un uomo ha di sé dipende non da ultimo da chi egli è agli occhi degli altri; la valutazione del valore della propria vita rappresenta nell’una o nell’altra direzione sempre anche una reazione alla valutazione ch’egli riceve nel giudizio degli altri. È semplicemente irrealistico pensare che una persona possa prendere una decisione definitiva, libera e razionale, sulla propria esistenza e sul suo valore complessivo, senza essere influenzata dalle persone con cui vive e dall’ambiente sociale che lo circonda.
Inoltre, la libertà è limitata anche dal fattore tempo. In un avanzato stadio della malattia, il desiderio di morire spesso intende dire qualcosa di diverso dal significato diretto delle parole adoperate. Non solo. Nelle singole fasi che precedono la morte, l’umore del malato cambia spesso; il desiderio di morire presto, espresso in una fase di depressione, può cedere successivamente il posto a un nuovo desiderio di vivere, che permette al moribondo di accettare consapevolmente la propria morte. In un secondo momento simili desideri di morire sembrano un appello disperato a non essere lasciati soli nel difficile momento della morte. Dietro di essi si cela il desiderio di essere in quel frangente efficacemente aiutati, desiderio che un’interpretazione letterale della richiesta di eutanasia o addirittura il suo immediato appagamento potrebbero solo deludere. In secondo luogo la realtà delle cure palliative ha mostrato che la vera richiesta della popolazione è quella di non soffrire inutilmente e di essere accompagnati in modo attento e umano alla morte, mentre non è affatto quella di anticipare la morte.
Riguardo, poi, alla richiesta di porre fine alla vita, si può tener presente che in Olanda i medici rifiutano richieste di eutanasie e praticano eutanasie non richieste dai pazienti, proprio sulla base della nozione di qualità della vita. Quando, a loro parere, il paziente non ha più la qualità in quantità sufficiente, si sentono autorizzati a praticarla senza richiesta, mentre rifiutano se pensano che non si sia giunti a quel livello. La nozione di qualità della vita, quindi, può diventare una ragione di esproprio dell’autonomia del paziente da parte dei medici, a tal punto che sia giustificato chiedersi dove vada a finire il principio di autonomia. Non si dovrebbe far dipendere la nozione di dignità dell’uomo dai parametri clinici. Al contrario bisognerebbe mantenerla come è stata accolta nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: dignità intrinseca che non si perde mai. Questa nozione oggettiva di dignità è una garanzia contro l’arbitrio e l’abuso.

 
 
 

Villarios

Post n°163 pubblicato il 28 Luglio 2008 da csmcarbonia

La vasca di Marat de Sade

 
 
 

CSM2 - Villarios

Post n°162 pubblicato il 28 Luglio 2008 da csmcarbonia

Prove teatro

 
 
 
 
 

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Un blog di: csmcarbonia
Data di creazione: 22/05/2006
 

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RECENSIONE DA MEDICINA E MORALE

Gerini Antonio Cesare, Il significato del ciclo mestruale. Appunti Sparsi sul femminile, Carbonia 1999, pp. 149. sguot@hotmail.com

In questo libro l’Autore, psicoterapeuta, medico psichiatra, analizza il significato del ciclo mestruale da un punto di vista medico-psicologico, con particolare attenzione alla sessualità della donna e al suo rapporto con la maternità. Intento dell’Autore è mettere in risalto come la cosiddetta tensione premestruale, accompagnata da irritabilità e tristezza, sintomi di depressione, sia dovuta al mancato concepimento: “è come se l’organismo femminile si accorgesse già prima  dell’incompiutezza del processo, di non aver raggiunto la finalità implicita, ovvero la fecondazione” (p. 51). Gerini afferma, infatti, che essendo la fecondità un bene e un valore profondamente insito nel corpo, “il suo venir meno è sempre causa di sofferenza, anche se vissuta più o meno consapevolmente” (p. 51).
  Sottolineando la finalità unitivo-generativa del ciclo mestruale (ovulazione e flusso mestruale) che la donna vive intensamente in tutte le fasi feconde della sua vita e che portano il suo corpo ad orientarsi verso una dimensione che sia soprattutto generativa e creativa, Gerini afferma che “non è nel profondo ed essenzialmente ricerca di piacere e desiderio di questo stato affettivo, ma quella di unità tra due esseri di sesso diverso che in questo incontro generano e custodiscono un’altra persona, il loro figlio” (p. 145). A questo proposito l’Autore distingue due momenti caratterizzanti il ciclo mestruale: il primo, culminante con l’ovulazione, si manifesta con una tendenza “centrifuga”, ossia orientata verso l’esterno, verso l’incontro sessuale che è un incontro unitivo e procreativo. Tutto il corpo partecipa a questa pulsione con espansioni affettive di tipo espansivo-comunicative. Se, tuttavia, il concepimento non è avvenuto, si ha la regressione del corpo luteo e la cessazione della sua attività ormonale. L’arrivo del flusso mestruale (secondo momento) ne è la manifestazione più evidente.
  Gli stati emotivi che si accompagnano al flusso mestruale sono molto diversi e possono essere individuati nella vergogna, nella colpa, nell’angoscia, nell’ansia, secondo una modalità esistenziale che ricorda alla donna il “fallimento” del progetto di fecondità insito nella natura stessa.
  Per tutti questi fattori Gerini afferma che il ciclo mestruale è la testimonianza di quanto “la sessualità sia connaturalmente legata alla generatività e il non raggiungimento di tale obiettivo è causa di sofferenza somato-psichica evidente, sebbene spesso molto sfumata” (p. 47).

Trovi il lavoro intero all'indirizzo http://www.psichiatriasirai.org/signif-ciclo-mestr-libro.htm

 

TEATRO E FOLLIA

METODO DI LAVORO

 di Claudio Misculin

Parlando di “metodo di lavoro”, mi sento in dovere da affermare che non esiste metodo in arte, esiste l’esperienza.
Io ho fatto un’esperienza alla quale ci si può riferire.
L’arte è un’apertura permanente che non si può vivere senza l’accettazione e la ricerca lucida e deliberata del rischio (Kantor)
Ebbene il fattore rischio che ho scelto per giocare all’interno dell’arte è la “follia”.

E’ una ricerca che tiene aperti, spesso faticosamente, spazi che si vanno rapidamente omologando, sfere che tendono ad automizzarsi, nella schizzofrenia del singolo e in quella più generale.
Quindi il teatro diventa anche mezzo, strumento di concreta quotidiana mediazione d’oggetto con altri soggetti, sani o malati che siano. Luogo di produzione di cultura, attività di formazione alla relazione con uomini e donne e cose.
Siccome parliamo di una ricerca tra teatro e follia, che non esclude, ma travalica il mero aspetto terapeutico, per cogliere sino in fondo nel profondo l’essenza e la validità di tale metodo di lavoro, cominceremo a viverlo e a pensarlo come strumento efficace per un buon approccio al teatro, non solo per il matto, il disgraziato, il differente, ma anche per il normale che intende cimentarsi nel teatro.
E per finire sul “metodo di lavoro” vorrei dire due parole sull’eccesso, e cioè  Viviamo nella dimensione dell’anticipazione dei desideri. Cioè i miei desideri non nascono più da pulsioni interne, ma dalla scelta delle soluzioni fornitemi.
Faccio un esempio: posso scegliere tra mille tipi di dentifricio, ma non posso scegliere l’aria pura: non c’è più.
Viviamo già nell’eccesso: eccesso di mezzi, di strumenti, di ignoranza. Il risultato è incomprensione della realtà, incomprensione di se stessi, incomprensione.
Il palco è per convenzione il luogo deputato all’eccesso. E nel mio teatro questo è.
E’ il luogo magico, il luogo del delirio che offre le valenze alla ricomposizione immediata del soggetto, mentre oggettivamente è una finestra che permette la visione delle contraddizioni.
il sistema dell’eccesso.

 

"N O R M A L I T à"

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce. Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti. Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi e' infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante. Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce. Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare. Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicita'.
Pablo Neruda

 

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