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SCIOGLI LA TRECCIA MARIA MADDALENA - dello Scrittore : Guido da Verona

Post n°195 pubblicato il 10 Ottobre 2012 da ciapessoni.sandro
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SCIOGLI LA TRECCIA MARIA MADDALENA – dello scrittore: Guido da Verona

 

 

Immagine: La tentazione.

[…] Cosicché, insieme ragionando, ben tosto capirono che tu eri, vecchio Adamo, un debole gigante, il quale, se ancor tutti governava col peso della sua dura forza, indi a poco avrebbe sottomesso l'Eden ai capricci della signorina Eva, ed avrebbe continuato più che mai a sudare grosse gocciole di sudore, a divellere tronchi centenni, a smuovere macigni e rivolger glebe, onde far lei camminare sovra l'erba fiorita.

- Come dovrò io comportarmi? - domandava, perplessa, la innocente signorina Eva.

Ed il serpente, muovendo piano piano le sue belle spirali a squame di smeriglio, rispondeva con quella voce modulata che riesce tanto bene a persuadere le donne: […]

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***

XVIII° parte del romanzo (seguito del post 194)

I loro polsi, ugualmente fini, si allacciavano, per dormire in pace. Il sonno le avvolgerebbe, così belle, così nude, sul medesimo guanciale. Sovra i loro grandi occhi orlati di khôl scenderebbero le palpebre scure. La gioia che potrebbero dare a chiunque le vedesse rimarrebbe sepolta, addormentata, in quella femminile promiscuità.

I loro polsi, ugualmente fini, si andavano sempre più allacciando, vena contro vena, per dormire in pace. Così l'una sentirebbe dell'altra il cuore delicato battere.

La bocca rossa di Madlen s'immergeva, con una specie di semiriso ebbro, nel respiro di Litzine.

Dalle cortine alte filtrava una trepidazione d'alba incerta e lontana; la stanza, fra quelle due luci, pareva sommersa, dispersa, in un fumo d'irrealità, radunava nei suoi confusi cristalli un pallido colore d'infinito.

Vedevo, sotto le camice diafane, i loro seni dolcissimi gonfiarsi nei calmi respiri. Qualche parola breve, non afferrabile, nasceva tra quel caldo silenzio. Era forse la voce di una, o d'entrambe, che bisbigliava nel tepore del sonno, tra il fumo del vino biondo, qualcosa di non dicibile, di soffocato quasi con paura nelle trecce calde, voluminose.

Erano stanche d'aver portato gioielli splendenti, stoffe impalpabili, fiori e piume; - questa, nel mondo, era la loro fatica; - -stanche di aver sollevato con mani trasparenti calici troppo leggeri; stanche di musica e di profumi, di lievi pericoli e di sottili tentazioni: - ora potevano dormire.

Dormire nella gioia perfetta di sé medesime, quasi allacciate, forse innamorate, sentendo il riposo incominciare con una specie di voluttuosa ebrietà. Il desiderio d'amore, la tendenza naturale di tutte le cose belle, muoveva con una specie d'insidia le loro mani profumate, istigava in loro, con lenti lamenti, la gioia femminile del conoscersi con esitazione. Gonfie di peccato carnale come il favo maturo è gonfio di caldo miele, sentivano il riso della loro giovinezza nascere, tremare profondamente, nei loro corpi formati con un raggio di sole...

***

Vecchio Adamo, tu eri, col tuo serpente, un personaggio biblicamente necessario nel primordiale giardino zoologico denominato il Paradiso Terrestre. Quell'impudica signorina Eva, che ogni sera, quando, stanco della caccia, ti stendevi sotto alberi fragranti e l'Eden calmo si addormentava sotto il fuoco delle sue stelle primaverili, quella gentile «midinette» preistorica, dai seni rotondi come grappoli d'alveari e dai fianchi snodati come anche di leopardesse, che veniva presso te, odorosa di giaciture selvatiche, risciacquata la sua pelle fulva nei rivoli delle primitive sorgenti, e così tentava persuaderti a ricercare la costola perduta, quella pettegola signorina Eva, che non stava mai zitta da mattino a sera, e si cambiava pettinatura, e portava collane di lapilli splendenti, - vecchio Adamo, non t'illudere! - nella storia del genere umano quella fraschetta incorreggibile poteva benissimo fare a meno di te.

A que' tempi tu eri, vecchio Adamo, un onesto cacciatore d'irsuti bufali e di gazzelle innocenti; pago del grappolo che il sole maturava su le vigne selvatiche, nemmeno pensavi ad inumidire i tuoi labbri nella polpa del frutto proibito né alcuna tentazione sentivi della compagna che stava con te. Può darsi che già ti piacessero le sue ginocchia dorate come ghiande, le sue braccia esili e deboli appresso alla forza dei tuoi bicipiti; forse ti piaceva udire la sua voce garrula imitar nelle selve il trillo delle capinere, e quando i suoi piedi leggeri camminavano su le foglie cadute, nella tua sorda potenza di maschio forse pur tu sentivi una specie di trepidazione oscura.

Ma ella si mise d'accordo col saggio ed astuto serpente, il quale, nel Paradiso Terrestre, faceva un mestiere certamente poco onorevole. Cosicché, insieme ragionando, ben tosto capirono che tu eri, vecchio Adamo, un debole gigante, il quale, se ancor tutti governava col peso della sua dura forza, indi a poco avrebbe sottomesso l'Eden ai capricci della signorina Eva, ed avrebbe continuato più che mai a sudare grosse gocciole di sudore, a divellere tronchi centenni, a smuovere macigni e rivolger glebe, onde far lei camminare sovra l'erba fiorita.

- Come dovrò io comportarmi? - domandava, perplessa, la innocente signorina Eva.

Ed il serpente, muovendo piano piano le sue belle spirali a squame di smeriglio, rispondeva con quella voce modulata che riesce tanto bene a persuadere le donne:

- Fate com'io dico, signorina Eva. Questa sera, verso il tramonto, quando il coraggioso Adamo tornerà con gli omeri a sangue per le spine dei rovi e carchi di bestie uccise, voi levatevi piano piano, facendo muovere il vostro sottile corpo, ed abbiate, vi prego, nella treccia un bel fiore scarlatto, e ditegli con la voce più soave della vostra gentile favella:

- «Signore mio, come siete questa sera pieno di polvere! Venite presso me, inginocchiatevi, ch'io possa con un fascio d'erba intrisa nel ruscello rinfrescarvi dalla fatica della caccia e spegnere l'arsura che vi diede il sole.».

Adamo s'inginocchierà. E gli farete sentire, nel dargli questo buon refrigerio, leggermente, contro il petto villoso, le cocche dure e calde dei vostri seni, e passerete le dita, leggermente, fra i suoi capelli ispidi, e vi attorciglierete a lui piano piano, come il tralcio s'inerpica sul tronco, e di tutta voi gli darete, leggermente, il peso e la fragranza da sentire, finché vedrete i suoi occhi ardere, la sua fronte accendersi di rossore; poi gli direte: -

«Signore mio, levatevi...» E andrete via, su l'erba, senza volgervi, camminando piano.

La signorina Eva subito corse in cerca del fiore scarlatto. Lo trovò, tornò, e il saggio serpente le disse:

- Ora, signorina Eva, nei capelli avete messo un fiore. Questo fiore vi sta molto bene. Vi rende più leggera e più alta. Siete bella ora come non foste mai. E vi prego di ricordarvi che la donna deve sempre avere su la sua nudità per lo meno un fiore. Ma io vi dirò, signorina Eva, che dovrete poi attendere l'ora delle stelle.

Nel colore azzurro della notte meglio si prova il fuoco della tentazione.

- La tentazione? - mormorò la fanciulla. - Cosa è mai questa parola che io non conosco?

- Ebbene, - le rispose il serpente, - io vi dirò ch'essa è la vostra forza ed è come il profumo della primavera. Dunque, all'ora delle stelle, voi dolcemente vi coricherete presso il grande uomo supino, metterete un piede fra le sue ginocchia e farete in guisa di respirare, dolcemente, vicino alla sua bocca. Poi gli direte: -

«Signore mio, le foglie secche stridono e la terra è dura; ponete, vi prego, un braccio sotto la mia nuca, piegatelo, e fate ch'io m'addormenti appoggiata su di voi.» Se la capigliatura v'ingombrasse, buttatela contro la sua bocca. E state ferma; non parlate; chiudete gli occhi; lasciatevi così coprire dal tremore delle stelle.

- Oh, signor serpente, - mormorò la signorina Eva, - io provo già il bisogno di fare tutto quello che voi dite...

- Allora, - concluse il serpente - non importa ch'io vi dica di più.

E raccolte l'una su l'altra le sue belle spirali smerigliate, questo vecchio libertino preistorico pensò al diletto ch'egli avrebbe, la notte prossima, nello starli a vedere...

***

Ma questa vecchia parabola - direbbe l'avvocato Claude, - appartiene alla letteratura provinciale. Nei paradisi del ventesimo secolo le donne di una certa sensibilità troverebbero mediocri ed inefficaci le astuzie del vecchio serpente. Queste leggere cose io medesimo pensavo, presso la coltre di Madlen, nella stanza ove ancora ondeggiavano i fumi del vino biondo, pesava l'irritazione di quella vita artificiale, di quella vita prestigiosa e logorante che si conduce presso le tavole da giuoco, negli alberghi di tutte le frontiere, tra le orchestre che ridono e trillano, mentre saltano i tappi delle bottiglie di Sciampagna, in quella vita ove tutto brucia, urla, splende, si consuma, e non v'è più amore, non v'è più dolore, ma solamente la gioia di vivere, che diventa ogni giorno più inafferrabile, ove i piccoli pregiudizi, tanto gravi per l'anima dei borghesi, fan sorridere come storielle per i bimbi, e soltanto rimane ancor bello ciò che nasconde un più tremante brivido, -vita che lascerà in noi, dopo tanta fiamma, null'altro che un pugno di cenere...

E voi che sentite ne' miei libri cantare questa irritata crudeltà, fervere questo rogo micidiale, splendere questa povertà infinita, voi direte forse di me che il mio cuore ha camminato per nulla, e per nulla è passato fra gli uomini a ricercare il loro fuggente iddio, e per nulla fu rosso come l'estate, per nulla consumò sé stesso nel rogo della sua folle inquietudine.

Direte allora di me quel ch'io penso d'ogni cosa nel mondo, e troverete il senso della vita in questo freddo e morto peso ch'è la fine di tutte le vicende, la conclusione di tutti i pensieri, la storia di tutte le anime, quel nulla, che ogni cosa riduce lentamente in un pugno di cenere.

Ma or non sentite nell'alba cantare il pallido fiume Urumea? Sì, canta, canta... E questa è la musica della giovinezza, il rumore delle cose vive, la forza passeggera ed inestinguibile che ha per unica sua meta quella di scendere un pendio. Come ora canta, nelle origini cantava. Di qui passava e passerà, nei secoli, una riviera lenta. In ciò che da noi si allontana, uomini, è la musica della vita.

E tu, Madlen, se il tuo cuore di donna perduta vuol conoscere questa femmina bionda, sii veracemente quello che sei, chiudi nel semiriso dello sperdimento le tue palpebre scure, muovi su lei con lentezza le tue braccia innamorate, fa che di te si strugga, e fa di te stessa, Madlen, la perduta che sei...

Nel colore della notte, nel fumo della trasparente oscurità, mi pareva che un suo piede si andasse allacciando, piano piano, alle caviglie di Litzine...

Perché ... Le voleva bene?... Si consideravano forse come due buone sorelle?...

Nell'alba lontana - io pensavo - muoiono le bianche stelle.

Qualcosa è laggiù, nello spazio, che gli uomini ancora non hanno definito. Qualcosa avvince tutte le creature all'eterna distruzione, all'eterna aurora. E il mondo si piega, si torce, nel dolore della sua gioia troppo lieve: nulla in sé trova pace; ogni desiderio cerca ulteriori possibilità; la creatura e l'infinito, l'ombra e l'alba, tutto finirà, sparirà... Muoiono le stelle. E comporranno un giorno, Madlen, la tua treccia bionda e buia, per la eterna supinità, nel grembo della terra santificata; gli anelli mortuari opprimeranno le tue dita spente.

Nell'alba lontana - io pensavo - una vela è partita sul mare. Va per le onde; quasi brilla; incontrerà, fra poco, un raggio di sole. E il mio dolore se ne va con lei, per le distanze che ancora non vidi; ésula, nella trepidazione dell'alba, da questa povera cosa che io sono, e porta me stesso lontano da me, verso il cuore degli altri uomini, e navigando fra stelle troverà, su le criniere delle onde, un raggio di sole.

Nell'alba grigia canta il pallido fiume Urumea.

E suoneranno fra poco le alte campane dorate, al dio mattutino che incendierà le splendenti basiliche... Una vela è partita sul mare.

Madlen, inquieta, parlava con l'altra sottovoce, sottovoce...

Cosa diceva non so. La sua calda bocca, un po' crudele, un po' amara, le sue narici sottili come le fenditure dei boccioli, vellutate come l'addome delle vespe, mobili ed ebbre, quasi ché fiutassero un profumo troppo forte, si andavano avvicinando, avvicinando alla bocca di Litzine...

Fuori, laggiù, nell'alba, era la distanza infinita; nel mio cuore di navigante saliva, brillava, scintillava la spuma del vino biondo, cantava in me, non distinta, la folle musica dei bicchieri, la poesia felice, ingannatrice, che trilla su gli archi dei violini e scuote via dall'anima la polvere del buio dolore. In me, per ogni atomo, penetrava la gioia della carne umana, lo spasimo del grembo che si contorce, la viva e tremante furia della voluttà inesaudita.

Hai una treccia che ti veste, Madlen, come il fiocco abbrunito dal sole veste la pannocchia del grano.

E le rondini - pensavo - della bianca terra di Guipuzcoa, si levano tutte a stormo e trillano, questa mattina, per andare. Con l'ala tesa e ferma traverseranno il cielo infinito. Nelle bufere di luce, nelle burrasche di stelle, andranno per le vie dell'alto mare. E canterà lo spazio, e i turbini dei maestrali canteranno, lassù, nell'alta musica, dove la strada è bella. Rondini, e l'amore vi porterà verso la stella ultima; vi ucciderà, nel vento, la distanza implacabile; forse vedrete splendere il sole della terra più lontana.

Fine parte XVIII° del romanzo

Buona lettura!


 
 
 
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