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L'AMORE DI LOREDANA - romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°223 pubblicato il 29 Aprile 2013 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Immagine: San Martino

Battaglia di San Martino e Solferino.

Cliccare sull’immagine per ingrandire.

… seguito PARTE SECONDA

***

… seguito Capitolo III

Fu il conte Vagli di poi alla battaglia di San Martino con quegli squadroni d'Aosta, di Saluzzo e d'Alessandria, che sciabolando ripetutamente il nemico, l'obbligarono a ripiegare verso Pozzolengo. Bella battaglia, ideata e svoltasi alla vecchia, con accanitaggine testarda, con episodi di rabbia incredibile; e l'eco ne giunse tosto a Venezia, dove nessuno osò per quella vampa di gloria e d'entusiasmo inanimire il popolo e dare al vento il vessillo italiano.

Il conte Roberto Vagli si sentiva certo meglio di suo nipote Flopi, gettando uno sguardo al passato, benché la famiglia fosse stata sempre più incline a censurare le mende dei numerosi scapestrati onde s'ornava l'albero genealogico, che non a compensar le gesta dei pochi valorosi i quali avevano compiuto il loro obbligo. Si sentiva certo meglio, il conte Roberto, dei suoi coetanei, ch'egli non aveva incontrato né tra i lancieri d'Aosta, né tra gli ussari austriaci, né tra nemici, né tra commilitoni.

Egli fu candidamente felice di poter far parte di quel Comitato che nell'anno 1893, sotto la presidenza del cavalier Breda, aveva preparato l'inaugurazione della Torre di San Martino della Battaglia; e mentre la cognata andava snocciolandogli la litania dei vizi e degli stravizi di Flopi, e degli amori con la sbarazzina e della necessità di qualche grave minaccia, il conte Roberto, fattole comprendere d'averne abbastanza, riviveva le belle memorie, tutto chiuso in pensieri più alti e più gravi che non fosse l'avvenire del nipote.

Frugava tra carte vecchie, contemplava i vecchi ritratti degli ufficiali di cavalleria e di quelli dei bersaglieri, che avevano caninamente disputato il terreno agli austriaci, battendoli passo per passo, da una casupola a un cimitero, da un albero all'altro; e sentiva quasi sul volto un alito fresco, certamente nelle vene un sangue gagliardo scorrere, e voleva ridere di piacere per i giorni gloriosi, che nessuno poteva cancellare più.

Quel 15 ottobre 1893, in cui la Torre venne finalmente inaugurata alla presenza d'Umberto e di Margherita, tra una folla di settantamila persone onde furono allagati i bei viali di cipressi e la pianura, sotto un mirifico sole, il conte Roberto fu tutto preso da una tenera gioia e da un'ombra di malinconia, rivedendo parecchi dei vecchi combattenti e rammentando i molti scomparsi.

Filippo gli era al fianco; a lui quel tuffo in un'epoca vicina e pur così diversa da quella in cui viveva, diede subito una specie di sbalordimento. Lo stesso zio Roberto ch'egli si dipingeva, sempre al pensiero come un brav'uomo bizzarro, gli apparve fermo, giovane, sereno. Ne aveva un poco riso la sera prima, senza malizia, con Loredana la viperetta; e il mattino, innanzi alla torre storica, vedendolo tutto lieto, il petto fregiato di belle medaglie conquistate tra lo sciabolare dei nemici furiosi e vinti, Filippo ebbe quasi un fremito d'invidia e di rispetto.

Quando il cavalier Breda lo chiamò e lo presentò al Re dall'occhio fulmineo, dicendo a Sua Maestà nel placido dialetto, a cui il commendatore non aveva voluto rinunziare neppure in quell'ora solenne:

- «La permeta che ghe fazza conossar sto bravo giovine....»

Filippo, inchinandosi profondamente, si chiese perchè lo presentassero al Re e perchè egli fosse un bravo giovane; forse non per altro, se non perchè nipote del conte Roberto.

La folla bisbigliava facendo ala ai Sovrani per vedere la Regina, augusta bellezza nell'abito violetto, col cappello nero piumato sulla massa della chioma d'oro; e Filippo, rimasto a pochi passi dal Re, sentiva gli sguardi avidi fissare il gruppo dei generali, cercar fra questi il vecchio Cucchiari, e diffondersi il sussurro, diventar grido e tumulto, perdersi lontano dove ondeggiava un mare di teste.

Più tardi, durante la visita all'Ossario, Filippo guardò i teschi degli ufficiali italiani e austriaci, raccolti e disposti nella scansia circolare. Pel vialetto di cipressi che adduceva a quel funereo reliquario, la battaglia era stata atroce; i colpi di fucile avevano sloggiato i nemici a uno a uno, quasi in un duello di soldati contro soldati; qua e là l'iscrizione breve d'una pietra rozza fitta in terra indicava la zolla su cui un ufficiale italiano era caduto durante la rapida caccia; e la terra pareva diversa da quella di tutti gli altri campi, quasi il sangue onde s'era abbeverata l'avesse fatta più grigia e più triste.

Ma Filippo osservò attentamente i teschi raccolti nell'Ossario. Il conte Roberto, senza parlare, gliene segnò alcuni col dito, gl'indicò il cartellino col nome; dalle occhiaie e dalle suture sconnesse di alcuni pendeva per una cordicella il pezzo di piombo che aveva traversato il cranio o spaccato il cuore; e toccando quei frantumi di proiettili e di mitraglia, Filippo vide fuggire lungo i palchetti della scansia qualche scolopendra che aveva preso albergo nei teschi dei valorosi.

Egli guardò Roberto, che sorrise tranquillo.

- È un altr'uomo! - pensò Filippo. - La morte non gli desta alcun orrore; egli vede i teschi dei commilitoni come fossero ancora animati, e avessero occhi e carni. Poteva essere lui nell'Ossario; io non l'avrei conosciuto e non avrei compreso il suo sacrificio.

Roberto lo toccò nel gomito. I due Sovrani uscivano scambiando qualche parola con gli ufficiali ch'erano intorno; tutto il sèguito si muoveva. Roberto disse:

- Ebbene, che pensi? Ti piace?

Filippo non poté trattenersi dal ridere sommessamente.

- Che verbo strano tu hai scelto! - egli rispose. - Se mi piace! Come fossimo a un ballo!

- A me piace molto, - disse lo zio con semplicità. - Ogni passo su questo terreno mi fa rivivere. Non è stata una grande battaglia, sai? E si sono commessi spropositi da cavallo; tuttavia è andata bene. A Montebello ci eravamo divertiti meglio; gli Ussari erano magnifici; bei soldati gli Ussari; ma qui abbiamo picchiato più forte, più deciso. Tu avessi visto il cimitero! Un carnaio; si dovette conquistarlo a mitraglia e a fucilate come una fortezza. E la villa Tracagne, presa e ripresa sei volte? Ha nella fronte ancora diciotto palle da cannone...

Tacque un istante, gli occhi nel vuoto, sopra le teste della folla che egli non guardava e che guardava lui. Aggiunse, col sorriso pacifico:

- Ci siamo divertiti! Bah! Non potere tornar daccapo!...

Filippo voleva dire qualche cosa; voleva dirgli che lo amava assai in quel momento, che gli pareva nobile ed alto; ma si rattenne non trovando la parola discreta, e sorrise egli pure. Il resto della cerimonia, la messa, il banchetto nel padiglione reale, non ebbero per Filippo alcun significato; la festa si vestiva ormai della sua veste ufficiale.

Davanti alla Torre, i due cannoni che la presidiavano con le bocche rivolte al viale, attrassero l'occhio di Filippo, che pensò i due vecchi arnesi della guerra già antica serrassero qualche cosa in sé dell'anima di Roberto; egli era della stessa tempra ingenua e salda. Ma l'immagine che rimase nitidissima fra tutte nella mente di Filippo fu quella dei teschi, dei frantumi di mitraglia, delle scolopendre che correvano smarrite.

Rivide il vialetto dei cipressi già imbevuto di sangue, e si provò a sognar quell'episodio di furore, la corsa, il crepitio delle fucilate; udì quasi l'ansimar dei soldati sotto la tempesta di ferro, e questo e quello vide cadere, squarciato il viso, rotto il fianco. Il conte Roberto eccolo alla testa d'un plotone di lancieri sbucare di repente tra quell'inferno, urlando e sciabolando coi suoi cavalieri indemoniati; e il sibilo della mitraglia raddoppiare: cavalli impennati, uomini precipitati di sella; e dietro, altri plotoni e altri, e lampeggiar di lame e di lance: cavalleggeri Saluzzo, lancieri Aosta, cavalleggeri Monferrato, tutti addosso al nemico che balena. Poi, d'un tratto l'uragano scoppia; la furia del cielo si mesce alla furia degli uomini, violentissima, e al fragore delle armi si unisce il guizzo dei fulmini e lo scroscio della bufera.

- Torni a Venezia? - domandò il conte Roberto.

Filippo sussultò in modo, che il vecchio si mise a ridere.

- A che pensavi? - disse.

L'altro si passò una mano sul viso come trasognato. Erano tutti in piedi, al finir del banchetto. Si fece un gran silenzio: i Sovrani si congedavano; e a Umberto piacque salutare affettuosamente il conte Roberto Vagli.

- Arrivederci, - gli disse, stringendogli la mano e fissandolo con gli occhi acuti. – Sono contento d'aver conosciuto ancora un valoroso...

Strinse la mano pure a Filippo, con un breve sorriso.

Sul volto di Roberto s'era diffusa una espressione di compiacimento quasi fanciullesco, alle parole di Umberto; e il vecchio restò a guardare il Re che s'allontanava con Margherita, stretti intorno dagli alti funzionari Filippo gli domandò:

- Sei soddisfatto? Umberto è stato molto gentile con te.

- Molto, molto! - esclamò il vecchio con gioia. - Non potevo desiderare di più. È stato troppo buono, e mi ha confuso. Per quattro sciabolate!... In verità mi rammarico del poco che ho potuto fare!... Quattro sciabolate! Ma se torno daccapo...

S'interruppe e si mise a ridere.

- Oggi mi son fitto in testa di far la guerra, * - disse poi. - Si vede che ho la febbre. Ma ti assicuro che farei meglio, farei pazzie!..

Drizzò la bella persona, quasi immaginando di rotear la sciabola contro un nemico invisibile; ed era in quella sua fantasia così fiero e deciso, che Filippo lo guardò ammirato. Risuonava il terreno per un galoppo sordo e continuo; la folla sterminata correva a veder la partenza dei Sovrani, a prender d'assalto i treni; e spinta innanzi dalla curiosità e dalla fretta, innalzava un convocìo incessante che a poco a poco diventava un urlo rauco, quasi il soffio di una procella vicina.

Più volte Roberto e Filippo vennero urtati; ma essi procedevano adagio e in silenzio, ciascuno abbandonato all'onda dei propri pensieri, i quali erano tanto dissimili chi si sarebbe detto i due uomini appartenessero a due mondi piuttosto che a due epoche diverse.

Roberto ebbe ancora qualche esclamazione:

- Buon Re! - disse, quasi parlando da solo. - Egli ha conosciuto la guerra e la battaglia; le sue parole mi son più care.

Rintronava il galoppo; passavano intere famiglie, seguite dalla domestica che recava sulle braccia i canestri vuoti della colazione, e tutti della famigliuola correvano, chiamandosi e incitandosi ad alta voce; qualche volta, rapido al par del fulmine, appariva e spariva un cane, abbaiando per cercare il padrone; di quando in quando passava una carrozzella, zeppa di gente così da far pensare che la molle stessero per cedere e il cavallo per rimanere stecchito; e di nuovo la folla sparsa, una tempesta di ombrellini aperti con colori strani, con le forme più varie, dal minuscolo all'enorme; e gruppi che procedevano lenti, a squadre, alternando l'inno di Garibaldi con l'inno di Mameli. I due uomini seguitavano a camminare adagio, in silenzio, urtati e stretti, col pensiero lontano.

Fine del III Capitolo

Buona lettura.

 

 
 
 
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