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L'AMORE DI LOREDANA - romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°222 pubblicato il 21 Aprile 2013 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore Luciano Zuccoli

 

 

Immagine:

Uno dei laghi lombardi: il “Lario” Bellagio – (Centro lago)

 

Cliccare sull’immagine per ingrandire.

… seguito SECONDA PARTE

 

***

 

…Seguito capitolo II

 

Al ritorno dall'escursione dai laghi lombardi, Filippo chiamava Loredana «la viperetta» ed ella sorrideva misteriosamente. Quel che di più gaio, di più sano e di più forte era nella sua anima veneziana, sfolgorava nella passione libera, così che nessun dono era per la giovane premio più ambito che un'ora di baci e di carezze.

Baci e carezze di Filippo; mai non aveva pensato potessero essere d'altri; mai non aveva guardato i facili ammiratori che, protetti dall'angustia e dalla cattiva luce delle calli, la seguivano, fosse sola per correre dalla mamma, o fosse accompagnata da Clarice, e le sussurravano, passando, brevi frasi, e osavano qualche sorriso e le ronzavano intorno.

Ella aveva per Filippo una gratitudine cieca, una specie di religione; ma lungi dall'essere timorosa, era lieta ed uguale; risuonava il suo canto la mattina, nel torrente di luce che invadeva le camere; e tutto il giorno Loredana viveva con piacere, occupandosi con Clarice delle compere, dando ordini alla cuoca ed alla cameriera, riempiendo la casa delle sue corse, delle sue risatine, facendo ammattire la povera dama di compagnia, della quale imitava i gesti al piano e le stonature e il modo di camminare e il dialetto veronese, con tanto impeto, che Clarice finiva per riderne.

Filippo si recava tutti i giorni dall'amante, vi si tratteneva a colazione spesso, a pranzo quasi sempre, e per lunghe ore nella serata. Ancora non s'era fatto veder per la strada con la ragazza; gli spiaceva l'ostentazione dei suoi amori, quantunque nessuno potesse ormai ignorarli. Egli aveva pensato di vivere con Loredana lungi da Venezia, in qualche città dove, per esser la vita larga e rapida, la curiosità è meno molesta. Ma in quei giorni appunto le diatribe coi parenti s'erano fatte acute.

La contessa Bianca aveva minacciato Filippo di farlo diseredare dallo zio Roberto; occorreva una punizione materiale, poiché i concetti d'onesto vivere e il senso del decoro non avevano presa su di lui; e in verità la perdita d'un patrimonio che, come quello dello zio Roberto, si aggirava intorno ai due milioni, non poteva non impensierire Filippo, il quale non possedeva nemmeno un terzo di quella ricchezza. Allontanarsi decisamente da Venezia e con Loredana in un frangente simile, sarebbe stata imprudenza grave, anche perché la minaccia non era venuta sino allora che dalla contessa Bianca e nulla diceva nel contegno dello zio Roberto ch'egli pensasse a tanto estremo. Anzi, di Loredana non aveva più parlato.

La contessa Bianca, infatti, s'era avveduta presto che di Flopi, dello scandalo, della «monella», dei soliti discorsi, il cognato era arcistufo; poteva egli bensì dare un consiglio, ma considerava i consigli a guisa dei denari, dei quali se si regalano o se si prestano, non è lecito al donatore invigilare l'uso e rinfacciar la prestanza.

Prudentemente, la contessa Bianca smise d'intrattenere il cognato sulle follie di Filippo, ripromettendosi di tornar daccapo ad occasione propizia; e dopo un ultimo colloquio breve, secco, perentorio, col figlio che si mostrò rispettoso e cocciuto, ella si ridusse nella sua campagna di San Donà.

Ciò che la contessa aveva previsto, si avverava fatalmente: il vincolo tra Flopi e Lori si era fatto via via più saldo; non era Loredana l'amante, né la mantenuta, ma qualche cosa tra la moglie e l'amica, qualche cosa che non si vende e non si compera, che si può abbandonare ma che non si dimentica più, che con rapidità propaga il suo dominio dai sensi al cervello e dal cervello al cuore. Si trattava d'un caso d'amor libero, che talune condizioni potevano spezzar da un giorno all'altro, e che talune, più probabili, potevano un giorno trasformare in un matrimonio.

Filippo, tutto preso dalla «viperetta», dimenticò finalmente la prudenza e andrò a vivere egli pure nell'appartamento sulle Zattere, che per Loredana era troppo grande; la camera attigua a quella in cui dormiva la giovane fu ridotta, da salottino, in camera da letto per Filippo; e tra l'una e l'altra si aprì una porta di comunicazione. Il conte fece trasportar mobili, libri, oggetti suoi nella nuova dimora; vi condusse anche Piero, il domestico silenzioso, e si ripromise di vivere da quel giorno, ora in casa di Loredana, ora nel suo palazzo, secondo che le convenienze e gli obblighi sociali avrebbero permesso.

Loredana non aveva chiesto mai nulla, e tutto le veniva profferto spontaneamente, con fresco entusiasmo, con incredibile audacia da quello stesso uomo, che andava sostenendo tanta guerra per il suo amore. Ad ogni piccola novità, ella rideva nervosamente, quasi smarrita, rilevando che la casa si trasformava, si faceva bella e intima, che Filippo le dava a poco a poco una sua impronta personale.

- «Folletto», che ne dite? - chiedeva Loredana qualche volta alla Teobaldi.

«Folletto» era il nomignolo che Loredana aveva scelto per Clarice in memoria del famoso galop di Sirmione.

- Dico che è magnifico! - rispondeva il grosso folletto, guardandosi intorno a gustar meglio l'intimità aristocratica dei luogo, e a salutar con un sorriso certi oggetti, come quel legno policromo del 600, i quali significavano per lei qualche ricordo. - Dico, - seguitava, - che a Sirmione deve avermi spinta il mio angelo custode; e pensi, contessa, che vi sono andata a caso, senza voglia...

Ma Loredana interrompeva con un gesto la storia risaputa.

- Non tornerete daccapo? - domandava ridendo.

Dacché viveva con la giovane signora, Clarice aveva sentito il dovere di renderle il titolo di contessa, che a Sirmione le aveva lesinato; i servi imitavano in questo la dama di compagnia, quantunque nessuno ignorasse da qual vincolo Loredana era legata al conte; e Filippo, non senza riconoscere la fastidiosa gravità del fatto, s'era guardato dal muovere osservazioni, che sarebbero state, del resto, assai difficili e spiacevoli.

Berto Candriani aveva raccontato alla contessina Fioresi ch'egli era fra i pochi i quali frequentavano la casa della bella amante, e aveva detto il vero; anzi era il solo che Filippo si conducesse qualche volta a pranzo.

Aveva cominciato quasi involontariamente, perché Berto gli si era messo un giorno alle calcagna, essendosi fitto in capo di pranzare con Filippo, dovunque quel giorno e con chiunque Filippo avesse dovuto trovarsi; e quest'ultimo, o perché di buon umore, o disperando di levarselo d'intorno, se l'era condotto seco e l'aveva presentato a Loredana e anche alla signora Clarice Teobaldi.

Loredana n'era rimasta sgomenta e sospettosa; ma passato il primo impaccio, Berto s'era mostrato così accorto, così savio, così elegante nelle maniere, pur essendo loquace e malizioso, che a poco a poco Loredana s'era rimessa dal sospetto e da quel sottile pudore che l'avevano dapprima turbata. Clarice dichiarò netto che dopo il conte Vagli, il conte Candriani era il gentiluomo più compito del mondo, forse perché , invece di far complimenti usuali alla bella amante, egli aveva rivolto la sua galanteria scherzosa alla cantatrice, la quale n'era rimasta ammiratissima.

Berto non abusò del privilegio e non si recò mai da Loredana se non accompagnando Filippo. Egli pure aveva fiutato in aria che si trattava d'un legame serio, non indegno di qualche rispetto; parlava bene di Loredana a Filippo e di Filippo a Loredana, ma chiedeva a se stesso dove quei due sarebbero andati a parare.

Frattanto, perché la contessa, Lombardi e altre dame s'indugiavano in città, prolungando oltre il consueto la stagione dei bagni, Filippo aveva dovuto riprendere quella «vita per la platea» della quale era abituato a vivere. Si recava spesso a Lido, nelle capanne delle amiche.

Il Lido piaceva a lui, come a tutti i veneziani, per agonia di luce, di verde, di spazio, d'aria diffusa; anch'egli si contentava dei pochi viali fiancheggiati da villini brutti, e s'era avvezzo alle costruzioni terribilmente antipatiche di quegli alberghi nei quali si mangiava malissimo e dai quali si vedeva una sfilata di capanne tozze, una spiaggia arida, qualche disegno di giardino con gli alberetti ancor giovani, sarcasticamente dimentichi di protegger gli uomini dal sole. Anche a Filippo la terrazza dei bagni pareva una stupenda costruzione d'arte; la vita e i colori glieli prestavano le oziose belle e gli oziosi eleganti in abiti vivacissimi, cosicché quella baracca era come un animale indecente coperto da parassiti variopinti che ne nascondevano la sgraziataggine.

Con le dame, con gli ufficiali di marina, coi gentiluomini che a quelle facevano codazzo e corona, Filippo si lasciò trascinare a gite frequenti; talora prendeva parte alle «sauteries», che nel linguaggio barbarico dell'aristocrazia dovevano significare balli modesti, fra amici.

Egli aveva il proprio pensiero rivolto a Loredana anche in quelle ore, ma la dimestichezza antica con le famiglie patrizie, la necessità di rispondere alle cortesie, la germinazione continua di visite da visite, di pranzi da pranzi, di gite da gite, la rete sottile e densa della vita mondana, che o si fugge interamente o interamente vi afferra, per lunghi giorni lo avevano costretto ad abbandonare l'appartamento segreto e caro delle Zattere, dove non si riduceva che a notte tarda, con la furia di ricomprarsi il tempo perduto e di compensarne l'amante.

Loredana, che di rimbrotti non era capace, sentì bruscamente d'odiare quelle donne, quegli uomini, quei ritrovi, quegli spassi; non solo perché interrompevano la sua bella esistenza d'amore, a più perché la mettevano innanzi a una barriera.

C'erano dunque famiglie ch'ella «non poteva» conoscere, e donne che «non dovevano» salutarla? Si era data con ingenua lealtà, fidando, senza un calcolo, per impeto d'amore; e niente la salvava dalla riprovazione arcigna del mondo? Ella aveva contro di sè la piccola società borghese alla quale apparteneva, e la società aristocratica alla quale non poteva appartenere; l'una e l'altra s'accordavano in un sol punto, nel biasimarla.

La fanciulla evitò di metter piede a Lido, temendo che la sua mala sorte la facesse incontrar con Filippo e obbligasse l'uno e l'altra alla commedia di scambiare un saluto appena percettibile; ma se lo sguardo le cadeva sui giornali cittadini, vedeva il nome di Flopi nel resoconto delle feste accomunato con quello di Berto Candriani, del tenente Orseolo, del marchese di Spinea, e due righe sopra una sfilata di dame, dalla contessa Osvaldi alla duchessa di Torrecusa, dalla contessina Fioresi alla contessa Lombardi. Erano sempre le medesime, accompagnate dai medesimi aggettivi, disposte nel medesimo ordine; e venivano poi i nomi di signore esotiche, le quali almeno, sparivano e ricomparivano con maggior varietà.

Che cosa faceva Flopi, come poteva non annoiarsi tra quelle donne, ch'egli vedeva tutti i giorni, da anni?

Berto Candriani, una sera a pranzo, aveva detto sbadatamente, innanzi a Loredana, che non si può vincere la noia in società se non a patto di andarvi per corteggiare una donna, per trovar l'amore o per condurre un flirt. E aveva svelato i piccoli intrighi, che legavan questo a quella, sfilando una corona di allegri pettegolezzi ed esagerando molto.

Loredana aveva dato un valore d'assioma alle parole del Candriani, e aveva guardato Filippo impallidendo; ma Filippo, quella sera medesima sul tardi s'era recato a una delle solite «sauteries» spinto dalla curiosità di veder dappresso il famoso Milan Obrenovich, del quale si narrava in quei giorni la riconciliazione con la regina Natalia. La giovane s'era coricata subito, per piangere, e nel cupo silenzio della notte veneziana, a lungo aveva dovuto aspettare il ritorno di Flopi.

Distesa sul letto, i capelli raccolti in fascio dietro la nuca, guardava tra le lacrime la sua camera e gli oggetti intorno, che le eran tanto cari. Una lampada ardeva sul tavolino; il letto chiuso nei veli della zanzariera, che tenevano Loredana come in un'ampia rete, e i mobili di mogano lucido sui quali splendevano le serrature e le borchie d'argento, e le due finestre debolmente illuminate dalla fiammella del lampione ch'era innanzi alla casa, e le poltrone di stoffa a larghi fiori di velluto in rilievo, tutto era accarezzato come da un raggio lunare, per la lampada che aveva il globo intensamente azzurro.

Il valzer in casa Lombardi cantava intanto: «Abbandonatevi a queste gioie malinconiche, a quest'onda invisibile, e sognate tutti i vostri sogni, prima che l'alba vi risvegli....»

 

III

 

Di quel patriziato veneziano del quale le storie del 1848 non dicono nulla, quelle del '59 non dicono niente e quelle del '66 dicono poco, il conte Roberto Vagli era stato ai suoi tempi una fortunata eccezione.

Come ufficiale di cavalleria, aveva preso parte al combattimento di Montebello, che viene giudicato dai tecnici il primo scontro importante del 1859; e terribile, perché secondo alcuni autori, metà della cavalleria piemontese - lancieri Aosta, lancieri Novara, cavalleggeri Monferrato vi rimase distrutta, essendosi urtata con gli Ussari Haller sotto la fucilata implacabile dei battaglioni austriaci; e stupendo per l'impareggiabile pertinacia dei cavalieri italiani che si lanciarono più volte alla carica con una furia, la quale il fuoco e il piombo non poterono arrestare.

 

 

Fine prima parte capitolo III

Buona lettura.

 

 

 
 
 
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