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L'AMORE DI LOREDANA - romanzo dello scrittore: Luciano Zuccoli.

Post n°231 pubblicato il 24 Giugno 2013 da ciapessoni.sandro

L’AMORE DI LOREDANA – Romanzo dello scrittore Luciano Zuccoli

 

Immagine:

Tipica calle veneziana.

 

Cliccare sull’immagina per ingrandire.

… Seguito SECONDA PARTE

 

***

 

… seguito Capitolo XI (da post 230)

 

- Me l'aveva fatta grossa, - mormorò poi.

- Sai che è un caposcarico; potevi parlargli e persuaderlo a non molestare la tua amica. E anche la tua amica, via, confessiamolo, doveva essere più prudente, metterlo alla porta alla chetichella e non dirtene nulla.

Filippo scosse la testa.

- Loredana non ha alcuna colpa, - ribatté. - È abituata a dirmi tutto; e se l'avesse messo alla porta, io non me ne sarei avveduto e non avrei chiesto spiegazioni? Era il solo che veniva a trovarci, e ci voleva poco ad accorgermi che non c'era più!... E la mamma e lo zio, che cosa dicono?

Il conte Alvise fece un altro gesto in aria, più desolato del primo.

- Non ne parliamo, caro Flopi!... Credo che Roberto pensi a fondar col suo denaro un istituto di beneficenza...

Filippo sorrise.

- Gliel' ho consigliato io! - disse.

- Bravo! - esclamò Alvise. - Non ti conoscevo come benefattore dell'umanità. Quanto a tua madre, povera donna, questo è un colpo, è un colpo grosso... Sai le sue idee, anche in materia di duello; e qui poi si tratta d'un duello inutile, d'uno scandalo gigantesco.

- Povera mamma! - disse Filippo, meditabondo.

- Dovresti scriverle chiedendola perdono, - suggerì Alvise. - Non ti risponderà, ma la lettera la calmerà un poco, e servirà a prepararti un colloquio.

- Le scriverò; è una buona idea, - dichiarò Filippo. - Quanto a colloqui, non ne avremo: essa mi chiede ciò che io non voglio concederle, l'allontanamento di Loredana. Non voglio e non posso: tu capisci che se oggi, quando è aggredita da tutta una folla, da tutta una città, mettessi Loredana sul lastrico, sarei un farabutto...

- È giusto, - convenne Alvise.

Altri amici sopravvennero, e Filippo li interrogò, e da ciascuno ebbe la conferma che lo scandalo dilagava, che in alto e in basso, nel salotto e nell'osteria, ancora non si parlava se non del duello; qualche amico più addentro nella confidenza di Filippo ripeté, attenuando, i discorsi che correvano, e anche attenuati, specialmente per Loredana, erano oltraggiosi e provocanti...

Le visite si susseguirono fin quasi all'ora del pranzo; e Filippo ne uscì in uno stato di fredda disperazione. Piegò il capo sul braccio sinistro appoggiato alla tavola, e restò immoto a pensare.

 

Capitolo XII

 

A pensare; ma non seppe mai quanto rimanesse in quella positura.

Lievemente, con un passo che il tappeto smorzava del tutto, Loredana entrò nello studio verso le otto, per chiamar Filippo a pranzo. Ella sorrideva, perchè da qualche giorno era certa della guarigione dell'amante, e quel viaggio a Roma, di cui s'era parlato, le piaceva molto. Intorno a Roma avevano ricamato mille fantasie l'estate innanzi, a Sirmione, poi non se n'era fatto più nulla per le vicende susseguite.

Loredana si fermò di botto sul limitare, e fu per mandare un grido.

Filippo era seduto, con la testa reclinata sul braccio, immobile.

La giovane accorse, gli toccò una spalla, ed egli alzò il capo sussultando.

- Che c'è? - disse.

Loredana vide ch'egli aveva gli occhi lucidi di lagrime, e ne rimase sbigottita.

- Hai pianto? - chiese. - Flopi, hai pianto? Che cosa è avvenuto?

L'amante scosse la testa, infastidito e confuso.

- No, no, - disse, - non ho pianto...

- Sì, hai gli occhi rossi e umidi... Che cosa è avvenuto, in nome di Dio?

Filippo si alzò, fece un giro per la camera, silenzioso, mentre Loredana lo guardava attonita, quasi non lo riconoscesse; ella avrebbe potuto immaginare nei suoi sogni qualunque cosa strana, ma non avrebbe immaginato mai di dover vedere un giorno il viso di Filippo bagnato dalle lagrime; questo spettacolo superava tutto che di più orribile e di più straordinario ella poteva sognare...

- Dimmi che cosa hai! - insistette. - Per carità, Flopi, non farmi morire di spavento; rassicurami, dimmi una parola, non esser crudele a questa maniera...

Filippo s'arrestò nel bel mezzo della camera.

- Che cosa ho? - disse. - Non ne posso più, ecco! Ho tutta la città contro di me, tutti i parenti, tutti gli amici, tutti gli sconosciuti, tutti gli sfaccendati, tutti, i ricchi e i poveri, i buoni e i cattivi, tutti sono contro di me. Questo duello ha sollevato uno scandalo senza esempio, e ha coperto di fango me e te. Io sono un vanesio che compromette le donne, un «trombone» come dicono a Venezia, e tu una sgualdrinella, e i nostri nomi sono popolari... Ah sì, popolari ormai!...

Nelle taverne ci conoscono come nei palazzi, e non abbiamo uno, un solo che ci difenda! Hai capito, Lori, che cosa ho? Un uomo non può combattere contro la folla; sono stritolato da una tempesta che ho sollevato io; non mi posso muovere, perchè la folla son tutti e non è nessuno.... Chi prendere? A chi chiedere ragione? Che cosa devo fare? Io non lo so; Priùli mi ha detto di fare un lungo viaggio, e sta bene, ma poi? Dovremo tornare, non potremo viaggiar tutta la vita, e rimettendo il piede a Venezia, io sarò il «trombone» e tu la sgualdrina... È odioso, Lori! Non mi sono mai perduto d'animo, non ho mai piegato, fin che si trattava di discutere coi parenti; ma oggi non so dove dar la testa, perchè ho di fronte una città, l'intera città, ti dico, nella quale i pettegolezzo è un'arte, la sola rimasta a questi cialtroni. Capisci, Lori, che cosa ho? Non ne posso più, non ne posso più, non ne posso più!...

Loredana, aveva capito; aveva chiaramente e interamente capito.

Dopo il primo senso di terrore e di smarrimento, la giovane stava come agghiacciata, rigida e muta. Aveva compreso; Filippo era vinto; non si poteva chiedergli di più; perduta la famiglia, aveva resistito; perduta una fortuna, aveva resistito. Ora, davanti al ridicolo, davanti ai ghigni della moltitudine, davanti alla gazzarra, allo scandalo osceno, davanti al disonore - non lo accusavano di compromettere le donne? - Filippo era vinto, e piangeva. Lei, con la sua leggerezza incredibile, lo aveva lei con le sue mani spinto in quell'abisso.

Ella rimaneva a testa china, le braccia pendenti lungo il corpo.

Filippo la vide e le si avvicinò.

- Scusami, - disse. - Scusami, Lori. È stata una debolezza imperdonabile, la mia; non dovevo affliggere anche te. Ora è passata... Faremo un lungo viaggio, ti piace? Prima a Costantinopoli, e là poi decideremo dove andare: io posso rimanere assente anche due, tre anni. Odio Venezia, ormai, non mi ci posso più vedere! Non mi rispondi, Lori?

Ella non rispondeva: aveva capito e stava pensando che cosa dovesse fare, che cosa il suo amore chiedesse da lei, e tutto le pareva orrendo. Cercava dentro il cuore l'energia per il domani, e sentiva il cuore gelido, come pervaso repentemente da un veleno mortale.

- Non mi rispondi? - chiese Filippo di nuovo. - Guardami, non sono più triste; ha ragione Priùli: un lungo viaggio ci farà dimenticare, e intanto saremo felici. Condurrò con noi anche la Teobaldi, il povero folletto, e la faremo cantare... Che ne dici, Lori?

Ella non rispondeva. Il suo amore era finito. Bisognava far qualche cosa, non si poteva accettare il sacrificio ultimo dell'uomo che aveva sacrificato già tanto; l'amore, l'amore vero, voleva da lei qualche cosa di più.

- Va bene, - disse fievolmente, per dire. - Va bene, Flopi. Ora guarisci, perchè non puoi partire così; e dopo decideremo tutto... Va bene... Sì, anche Clarice; la faremo cantare...

Tacque subito per non dare in uno scoppio di pianto, in un urlo di dolore.

- È tardi, - soggiunse. - Andiamo a pranzo...

A tavola li aspettava, come al solito, la signora Teobaldi, la quale aveva preparato un discorso intorno a certe opere che si davano alla Fenice, e voleva esprimere alcuni giudizi categorici sulla musica moderna, sulla morte del bel canto... Ma rimase esterrefatta vedendo Lori e Flopi; il conte pallido come un cadavere; la ragazza pareva intormentita. Mangiarono in silenzio, senza guardarsi; Filippo e Loredana anzi, dimenticavano spesso di mangiare e restavano con gli sguardi perduti nel vuoto. Piero cambiava le posate, senza che il conte avesse toccato cibo; anche Piero era costernato per quello spettacolo di tristezza. Certo, era avvenuta qualche sciagura; ma dove, ma quando, se proprio quel giorno nessuno era uscito di casa, se proprio quel giorno non era arrivato nemmeno un telegramma? Il conte aveva di tanto in tanto un fremito subito contenuto; ripensava alla folla che correva le strade, trascinando il suo nome e il nome di Loredana; gli pareva d'udir le sghignazzate degli oziosi maligni... La fanciulla, inerte, con un gran freddo dentro, si rivolgeva alcune domande angosciose, alle quali non trovava risposta.

Subito dopo il caffè, il conte le baciò la mano e si ritirò.

Clarice e Loredana rimasero sole, innanzi alla tavola, che Piero, interamente smarrito, aveva dimenticato di sparecchiare. Un grande silenzio, un silenzio d'angoscia invase la sala; non si udiva fuori se non la cantilena monotona della pioggia che cadeva fitta e instancabile da più ore.

- Contessa, - mormorò Clarice con voce supplichevole. - Contessa, mi dica...

Ma Loredana rabbrividì da capo a piedi, come un' aspide l'avesse morsa. Guardò la vecchia amica dalle terribili sopracciglia al nerofumo, la buona donna che le era sempre stata al fianco, i tristi giorni e i lieti. Una raffica di vento sfiorò la casa fra le tenebre e fece traballare i cristalli alle finestre. La giovane stese le braccia nel vuoto. Perdutamente, con uno scoppio di pianto, disse:

- È finita!... È finita!... È finita!...

 

Fine Capitolo XII

Buona lettura.

 

 

 
 
 
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