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LA PAZZA DEL SEGRINO di Ippolito Nievo - Fine terzo capitolo

Post n°24 pubblicato il 10 Agosto 2010 da ciapessoni.sandro
Foto di ciapessoni.sandro

 

LA  PAZZA  DEL  SEGRINO  di Ippolito Nievo

III Capitolo – Seconda parte –

(Fine del III Capitolo)

 

“Signor Giuliano – disse sommessamente costei arrossendo e tremando tutta; - era appunto di lei che cercava, onde procuri di risanare mia madre, se così vuole il Signore”. E gli stendeva intanto quel pezzetto di carta tutto gualcito.

“Come sta la Marta” – chiese il giovine esaminando la ricetta al chiaro della balconata.

La Celeste chinati gli occhi rispose mestamente:

“Guarirà, se il Signore lo vuole”.

“Oh il Signore lo vorrà! statene certa” rispose Giuliano entrando assieme a lei nella bottega.

“Buona sera, papà” – aggiunse egli con voce che voleva essere tranquilla, ma che suonava così flebile e rotta da far venire i brividi.

“Giuliano, Giuliano! e dunque? – domandò affannosamente il vecchio, lasciando cadere il libro e levandosi a mezzo della seggiola, come se qualche terribile sentenza pendesse dalle labbra del giovine.

“L’abbiamo perduta anche in appello”, rispose quasi volgendosi a prendere un certo vasetto dalla scansia, e così nascondendo due lacrime che gli bruciavano gli occhi, tanto erano cocenti… “Era naturale, e ve l’ ho detto da un pezzo, padre mio” – proseguì egli facendo forza a se stesso e ravvicinandosi al vecchio che pallido e contraffatto era ricaduto a sedere fin dal primo annunzio di quella gravissima disgrazia. “Voi avevate pagato il dottor Anselmo, lo so, ma l’erede di costui non è obbligato come me a credervi, e avendo esso trovato il chirografo (testamento a mano) fra le carte del defunto ha tutti i diritti di chiederne il saldo”.

“Oh povero me, povero me, che colla mia solita sbadataggine ho finito col rovinarti!” – mormorava il vecchio stringendosi la testa fra le mani.

“Di me vi prendete pensiero, padre mio?”- riprese il giovine provandosi a sorridere, e mescendo nel mortaio la pozione per la Marta. – “Voi sapete di quanto poco abbisogni; ringraziamo piuttosto il cielo che le due mie sorelle sono già accasate!”.

“Oh sì! e bene, grazie a Dio!” mormorò il vecchio.

“Dunque, perché disperarsi?” – proseguì Giuliano – “il diavolo non è sì brutto come lo si dipinge. E’ vero che ne toccherà vendere la spezieria e quel poco di campagna, ma a me resta la professione; e così intanto ci potremo stabilire a Lecco, dove è maritata la Catterina; e con essa e con mio cognato Giacinto, che è quel buon angelo che sappiamo, si farà una sola famiglia. Anche Lorenzo è un ottimo cuore; sì lo so; ma lassù a Varenna l’aria è un po’ crudetta per voi, e di più la Maddalena ha cinque figli, e le daremmo troppo disagio. Dunque resta deciso per Lecco, n’è vero padre mio?”.

“Sì, sì,” – rispose questi prendendo la mano del figlio e stringendosela al cuore: -“dove tu vuoi!”.

“Credete mo che non troveremo il bandolo di esser contenti?”, proseguì Giuliano traendo a sé dolcemente la mano per versare il decotto in un altro recipiente, e compensando il vecchio con una occhiata così amorevole e serena, che lo ebbe a far tramortire per la soverchia emozione.

La Celeste dal cantuccio, ove zitta zitta stavasi nicchiata, era stata così attenta a questo dialogo, che ad osservarla avrebbe fatto compassione per quanto sforzo di volontà infatti ella andasse raccogliendo in quella attenzione, ben si conosceva non arrivar ella a comprendere di tali discorsi quanto l’avrebbe desiderato. Soltanto capiva ella chiaramente, e ben glielo si leggeva negli occhi, essere quelle due buone anime da qualche grave infortunio turbate; e se l’aspetto rassegnato di Giuliano le dava un po’ di conforto, subito tornava ad angosciarsi nel vedere lo scoramento del signor Graziadio. Tanta compassione mise nell’animo della povera scema la muta disperazione del vecchio farmacista, che sentendosi quasi mancare per l’affanno, andava tentando della mano un tavolino che l’aveva di dietro.

“E così, padre mio? – continuava il giovine adattando l’imbuto ad una bottiglietta e facendosi per quanto poteva ilare nel volto. – Credete che sorrida così per farvi piacere?… No, persuadetevi, gli è per un’altra ragione; gli è perché io vedo anche in questa disgrazia che la Provvidenza ha cura di noi, e volle che la ci incogliesse appunto quando era possibile porci riparo. Di più siamo uomini, n’è vero? Ci vogliamo bene e crediamo in Dio!…”

“Sì, S’, hai ragione!” –rispose il vecchio riavendosi alquanto.

“Sì, ho ragione, - soggiunse l’altro, e perciò stasera non abbandoneremo il nostro solito tressette, e cercheremo di non scordare la nostra sventura, ma di combatterla e di vincerla!… Non dicono che la ragione è dal lato della forza? – proseguì sorridendo – or bene, mostriamo dunque codesta forza, e la fortuna verrà dalla nostra!… Ora prendi, Celeste”, - riprese egli porgendo alla giovinetta una fiala il cui tappo s’adornava de’ più bizzarri fronzoletti di carta come se fosse destinata a qualche signorone del paese.

“Anzi aspetta, aspetta, - continuò vedendo in quella entrare il curato ed il medico. Ora che il papà è in buona compagnia, verrò ad accompagnarti. Buona sera papà!… Buon divertimento a lor signori; e fin ch’io non torni a fare il quarto, possono intavolare un terziglio”.

In questo dire Giuliano aveva tratto per mano la giovinetta lungi dalla bottega; e solo indi a poco s’avvide che l’era così smarrita da durar fatica ad alternare i passi.

“Cos’ hai, Celestina? – le chiese ansiosamente fermandosi sui due piedi. Scommetto io che mi hai disubbidito e sull’avemaria hai preso la nebbia del Segrino”.

“Oh no, - rispose la giovinetta che riavutasi in quel frattempo prese a camminare velocemente; vi ho ubbidito, e sono sempre stata a casa”.

“E perché corri tanto ora?”

“Perché la mamma per guarire deve bere questo medicamento prima di notte”.

“Via, non avvicinarti così al ciglio della strada”, - le disse il giovine cercando di trattenerla, onde non la corresse pericolo di cadere nel lago.

“La mamma mi ha detto solo che non mi fermi”, - soggiunse ella saltando lievemente sul muricciolo che cadeva a piombo nell’acqua, e correndo sovra esso quanto più lestamente poteva.

“Non voglio che tu ti esponga sempre a nuovi pericoli!” – le gridava dietro Giuliano abbrancandola per la falda del vestito. Ma forse per la troppa forza usata in tale atto dal giovine, il piede della fanciulla sdrucciolò, e se egli non era presto a serrarla fra le braccia, la sarebbe certamente precipitata nel lago.

“Vedi?” – mormorava il giovine tutto tremante per lo spavento traendola sulla via.

“Ah la bell’acqua, la bell’acqua!” – balbettava la Celeste come rapita in dolcissima estasi.

“Sì, l’acqua, la bell’acqua!… e tua mamma e la medicina?” –soggiunse un po’ aspro Giuliano.

“Povera mamma, povera mamma!” – esclamò la Celeste sguizzandogli dalle braccia e riprendendo la sua corsa  così rapida, che il giovine poté questa volta tenerle dietro, ma non raggiungerla.

“Va’ piano, Celeste!… fermati!… andava egli gridando. Ma invano, che dessa voltò pur fuggendo a quel modo pel sentiero che monta alla capanna, e solo giunta alla prima balza  della montagna, si volse a rimproverargli:

“Grazie signor Giuliano; mi saluti la bella Madonnina e le raccomando di volerle bene”.

Dopo ciò la giovinetta mormorando strane parole, che ora parevano grida di gioia. ora schianti di pianto, ora gemiti, ora preghiere, salì fino al tugurio, entrandovi con tal impeto che la lucernetta appesa al camino n’andò quasi spenta.

“Hai fatto assai presto, figliuola, disse la vecchia, lasciando a mezzo una posta del rosario”.

“Ho fatto presto perché tu abbia a guarire, mamma mia, - rispose la fanciulla buttandosele con le braccia al collo. – Via bevi ora la medicina!… Guarda come è bella!… E’ gialla come il sole quando va a dormire, è tiepida e limpida come la bell’acqua del lago!… Bevi, madre mia, che te la manda il signor Giuliano questa pozione; e con essa son certa che guarirai.

Poi tolto tra mano un bicchierino e versatovi entro quel liquido, si pose a parlargli con ogni tenerezza; e solo quando sua madre l’ebbe tracannato accondiscese a spogliarsi. E così coricatasi in un lettuccio che l’aveva in uno sfondo della capanna, com’era suo costume, in brevissimo tempo s’addormentò. Ma pur tenendo chiusi gli occhi si muoveva ella e parlava con tanta chiarezza che più non ne avevano i suoi discorsi della veglia; e solamente la Marta, per esserci avvezza, poteva credere che quello fosse sonno o non piuttosto delirio.

“Oh, la bella Madonnina lo consolerà!…diceva la poveretta, alzando le braccia verso il cielo. – Oh la bella Madonnina è fortunata!… Non è vero che il Segrino è bello?… Non è vero che là dentro c’è il paradiso?… Oh questo poi sì; e l’ ho veduto anche io!… Ma ora che ci penso, bisogna che torni a casa per guarire la mamma: addio bell’acqua!… A rivederci!… “

E così quella meschinella continuò per tutta la notte.

La vecchia inferma, poiché n’ebbe terminato il suo rosario, fu tanto fortunata da addormentarsi essa pure.

Ma già si sa come è il sonno dei vecchi e massime dei malati; onde ogni poco ella si svegliava, e così allora poneva mente ai vaneggiamenti della Celeste, prendendo da essi ora svasamento, ora dolore, secondo ché i sogni erano di beatitudine, o di tormento. Però alle volte l’affanno della povera madre si faceva maggiore ed era quando pensava all’avvenire della figliuola.

“Cosa sarà di lei!… Oh disgraziata!…”mormorava ella fra sé. “Purtroppo io sento di non poterla durare a lungo!” Indi come è l’usanza di quelle anime semplici dei campagnoli conchiudeva:

“Il Signore provvederà!…”.

 

Fine del III Capitolo

 

P.S. La mia lirica: “Il glicine dei portici…” che volevo pubblicare  nel blog, è leggibile in:

 

http://digilander.libero.it/ciapessoni.sandro

poi: Poetica lariana,

poi: Il glicine dei portici.

GRAZIE e buona lettura.

 

 

 
 
 
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