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La grande bellezza. Perché è un capolavoro da http://titolidicoda.com.unita.it/

Post n°11245 pubblicato il 05 Marzo 2014 da Ladridicinema
 

su Titoli di coda
Autore: Raffaele Ariano
 
Data:2014-03-02

[In occasione della Notte degli Oscar, che vede La grande bellezza candidato come Miglior film straniero, ripubblico una mia analisi uscita per la prima volta col titolo Il cinema di Paolo Sorrentino sul numero 30 (Luglio-Agosto 2013) della rivista 451 via della letteratura della scienza e dell’arte]

 

 

 

La frivolezza è quindi l’antidoto più efficace al male di essere ciò che si è: grazie a essa noi inganniamo la gente e dissimuliamo la sconvenienza delle nostre profondità. Senza i suoi artifici, come non vergognarsi di avere un’anima?

Emil Cioran, Sommario di decomposizione

Con l’approdo nelle sale del suo sesto lungometraggio, La grande bellezza, i tempi sembrano maturi per aprire una riflessione complessiva sull’opera di Paolo Sorrentino, sulla sua poetica e sui motivi della sua rilevanza per la cinematografia italiana. Da un lato, infatti, il regista napoletano ha dimostrato, lungo l’intero arco della sua produzione, di avere una voce fortemente coesa e originale, tanto dal punto di vista dello stile cinematografico, della mise-en-scène, quanto da quello della costruzione dei personaggi e della narrazione; due aspetti che, insieme, lo rendono a tutti gli effetti un autore, e uno dei più rilevanti, se non il più rilevante, del cinema italiano recente. Dall’altro, non si può trascurare che, anche dal punto di vista del riconoscimento di pubblico e critica, Sorrentino costituisca oramai un piccolo caso. Film i cui protagonisti non hanno mai meno di cinquant’anni e sono intrisi di un forte senso di decadimento, nostalgia, fallimento, sono apprezzati da molti in Italia, ma autenticamente idolatrati proprio dal pubblico giovane, quello under 30, che vi si riconosce pur non essendovi stato direttamente messo in scena; e ancora, storie le cui psicologie e i cui contesti sociali sono fortemente italiani – eccezion fatta, come ovvio, per This Must Be The Place – vengono comprese e apprezzate dalle giurie e dalla critica straniere talvolta di più che da quelle italiane, pur essendo esattamente l’opposto di facili “cartoline” sul Belpaese. Una rapida scorsa alle recensioni estere a La grande bellezza ne dà chiara conferma. Un primo bilancio sull’autore Sorrentino può essere insomma condotto analizzando in dettaglio questa sua ultima fatica, che è a tutti gli effetti una summa dei temi estetici e filosofici che ricorrono sin dalla sua opera prima, L’uomo in più (e che tornano, con le differenze dovute al cambio di medium, anche nei suoi lavori letterari, il piacevole romanzo Hanno tutti ragione e la più sbiadita raccolta di racconti Tony Pagoda e i suoi amici).

Le due sequenze d’apertura de La grande bellezzaracchiudono come un prisma i temi della narrazione che verrà. Sulle note eteree di I Lie del compositore californiano David Lang vediamo dispiegarsi il panorama romano del colle del Gianicolo e, in alternanza, un coro femminile che, in un felice spiazzamento della separazione tra diegetico ed extradiegetico, canta il brano di sottofondo affacciandosi dalle finestre della Fontana dell’Acqua Paola. Movimenti di macchina molto marcati, quasi eccessivi, con l’utilizzo dei tipici dolly e crane che sono uno dei marchi di fabbrica di Sorrentino, evidenziano al contempo la maestà e l’inebetente rapimento connessi alla visione di Roma, alla bellezza terribile dei suoi monumenti. Il lirismo di questa sequenza è però subito punteggiato dall’irruzione del volgare: un nugolo di turisti che fotografano compulsivamente, l’esclamazione in romanesco «Mi hai proprio rotto il cazzo» di una comparsa che parla al cellulare, un obeso in canottiera che si terge il sudore con l’acqua della Fontana, come fosse in un bagno pubblico. Sono solo brevi sprazzi, che squarciano per un istante l’armonia di musica e immagini. La sequenza successiva rovescia tutto questo. Un repentino stacco di montaggio, uno sguaiato grido femminile, e dal silenzio solenne della cima del colle romano si è catapultati su un rooftop del centro, in mezzo alla bolgia decadente di una festa di compleanno. Una folla di volti deformati dall’alcol, dal ballo e dal desiderio, giovani corpi di modelle mischiati a quelli di sessantenni liftati e con le camicie sbottonate, balli di gruppo, nani, mariachi che sfilano suonando grottescamente in mezzo alla folla incurante. In colonna sonora, Far L’Amore di Bob Sinclar, remix del brano di Raffaella Carrà. La città eterna si rivela nell’altro suo volto, quello di una Babilonia volgare e insensata. Anche in questo caso, brevi istanti di ribaltamento: la Carrà cede per un attimo la scena agli ovattati suoni elettronici di More Than Scarletdei Decoder Ring, mentre poche inquadrature si soffermano su un’elegante e sinuosa ballerina diburlesque, che, dall’altro lato di un vetro insonorizzato, danza a beneficio degli invitati, immersa nel perfetto silenzio. Dall’intangibilità ieratica della sua figura emana una sorta di mistero, quella bellezza sommessa che balena per un istante, secondo uno degli stilemi ricorrenti della poetica visiva di Sorrentino. Nella prima sequenza, il grottesco si sprigionava dalle fratture di una bellezza che si vorrebbe perfetta, eterna, intangibile; e di contro, nella seconda, spiragli di bellezza riescono a filtrare nonostante la prosaicità della vita, tra le sue pieghe.

 

Facciamo presto conoscenza di Jep Gambardella, il protagonista di questa storia, interpretato ancora una volta da un Toni Servillo nel proverbiale “stato di grazia”. Più che un vero plot, lo svolgimento del film seguirà l’evoluzione interiore del suo personaggio, in una serie di episodi relativamente slegati tra loro. Come accadeva ne Le conseguenze dell’amore, ne L’amico di famiglia e ne Il divo, ai monologhi invoice over saranno affidate l’esplorazione dell’autocoscienza del personaggio e la sua evoluzione; un espediente che a taluni è potuto apparire facile o didascalico, ma che Sorrentino, in ragione della sua caratura di sceneggiatore, padroneggia con efficacia.

È il compleanno di Jep, la festa è sua. Ha sessantacinque anni e lavora alla pagina culturale di un prestigioso giornale, ma la sua vera occupazione, da quando – quarant’anni prima – si è trasferito a Roma, è la mondanità. Dandy impeccabilmente vestito, vive di notte, beve molti drink (ma, come afferma verso la fine del film, «non tanti da diventare molesto») e ha battuta pronta, capacità di analisi psicologica e un sarcasmo devastante. La raffinatezza del suo eloquio e la padronanza delle convenzioni sociali, di cui fa sfoggio con ostentazione, gli permettono di essere un autentico mattatore nelle serate dell’alta società romana. Nel suo attico con vista del Colosseo, lo vediamo ospitare nobili decaduti, ricchi commercianti, intellettuali di partito, ereditiere, poeti, cardinali, persino una missionaria in odore di santità. L’insincera superficialità di questa vita sociale lo fa sentire a suo agio come nel suo elemento naturale. Eppure, quarant’anni prima, Jep Gambardella era stato uno scrittore. Autore di un unico romanzo, L’apparato umano, descritto come un’autentica opera d’arte, addirittura come un testo rilevante per la storia della letteratura italiana. Un libro che, si dice a un certo punto, può esser stato scritto solo da un uomo molto innamorato. Dopo quel libro Jep si trasferì a Roma, cominciò con la mondanità e non scrisse mai più una sola riga.

 

Quando, a ventisei anni, giunse a Roma, apprendiamo da uno dei monologhi in voce fuori campo, Jep era deciso a «diventare il re dei mondani». Non voleva solo partecipare alle feste. Voleva, come afferma, «avere il potere di farle fallire». Un sentimento di potenza, di dominio, di espansione indefinita dell’ego è all’opera nel modo in cui si dà alla vita secolare, a questo «mondo degli uomini» fatto di superfici riflettenti e drammi esistenziali nascosti sotto la patina della buona riuscita sociale. E al contempo vi è in lui un senso tragico di auto-abbrutimento consapevole, di caduta, di volontario inabissamento. Lo sguardo di Jep, nel tracciare il perimetro della decadenza propria e dei suoi simili, è preciso, cinicamente chirurgico. A caratterizzarlo è una sorta di lucida e amara flânerie – amara, nonostante alla grande interpretazione di Toni Servillo riesca di metterla in scena con un sorriso sornione sempre stampato sulle labbra. Osserva questo assurdo parco umano a cui appartiene, Jep Gambardella, con quel suo fasullo nomignolo da italoamericano. Nella sequenza in cui una coppia lo coinvolge in un gioco sessuale a sfondo voyeuristico, lui si adagia sulla poltrona e guarda, curioso; lascia che il mondo gli sfili davanti, con sguardo disincantato, ma anche, in fondo, privo di giudizio. Guardando uno dei “trenini” che concludono tipicamente le feste del suo entourage, afferma sconsolato che i loro trenini sono i migliori, perché «non vanno da nessuna parte»; e, pochi minuti dopo, indicando i suoi invitati, dirà alla sua domestica sudamericana (uno dei pochi personaggi con cui abbia un rapporto di autenticità umana): «Questa è la mia vita, e non è niente». Jep ha insomma un rapporto ambivalente col suo essere mondano. Lo vediamo spesso smarrito, in preda al disprezzo di sé, al punto da cercare – a un certo punto – persino il conforto di un prete.

Le battute e le feste non sono però tutta la sua vita. Lo vediamo, talvolta, ritagliare per sé degli spazi di bellezza vera e di autenticità. Le passeggiate per le vie di Roma la mattina presto, immerso nella bellezza dei suoi monumenti e della sua vita sonnolenta; l’opera di quei rari veri artisti, che si trova a intervistare per la sua rubrica (per questo lo vediamo demolire ferocemente, all’inizio del film, la falsa artista concettuale che dà «le capate nel muro», ispirata probabilmente alla figura di Marina Abramović); soprattutto, le amicizie. L’amicizia con Dadina (Giovanna Vignola), la direttrice – affetta da nanismo – del suo giornale, anch’ella invischiata nello stesso ambiente di Jep, ma donna forte, saggia, a tratti materna; quella con Romano (Carlo Verdone), scrittore fallito, un idealista sincero e imbranato a cui Jep cerca di insegnare la leggerezza e l’arte di trattare le donne; infine con Ramona (Sabrina Ferilli), una spogliarellista agée semplice, un po’ ignorante, ma vera e dotata di umanità, resa melanconica dal pesante fardello di una malattia incurabile.

Tra queste “due vite” di Jep Gambardella non vi è, ad ogni modo, una completa antitesi. Esse comunicano da qualche parte, nelle profondità del personaggio e della sua visione delle cose. Col suo inseguimento del superficiale, Jep sembra voler infatti testimoniare una qualche verità profonda su se stesso e sull’esistenza. Cominciamo a scorgerlo nel modo in cui umilia pubblicamente una sua invitata, Stefania (Galatea Ranzi), colpevole di essersi per l’ennesima volta vantata del suo impegno civile e del modo eroico in cui ha cercato di essere, come si dice, donna e madre al contempo. Di questo malsicuro misto di superbia e moralismo Jep sente il bisogno di svelare la menzogna nella maniera più brutale: ricordandole che la sua passione civile è cresciuta all’ombra di un amante segretario di partito, che suo marito è segretamente omosessuale, che i suoi figli sono costantemente affidati a babysitter, autisti e istitutrici private. Jep dice a Stefania che anche la sua, come quella di loro tutti, è una vita disperante e devastata. Ma mentre loro sono consapevoli della propria meschinità, e hanno quindi la bontà di stringersi gli uni agli altri, di farsi compagnia, di passare il tempo a parlare di vacuità, lei sente il bisogno di riempirsi la bocca di cose serie, di gonfiare il petto coi valori più alti. Questa forma di insincerità inconsapevole e inautentica è per Jep assolutamente deprecabile. Al contrario, l’insincerità consapevole, che è il pane quotidiano del mondano, Jep la concepisce, in fondo, come segno di una sincerità più radicale, come testimonianza lucida della pochezza della condizione umana. Potremmo dire, come un atto di verità. Insomma, la frivolezza è l’abito con cui vengono travestite le profondità di pessimismo e distacco scettico cui solo uno spirito dotato di una sensibilità troppo dolorosamente sviluppata sa giungere.

 

Jep Gambardella è un uomo esistenzialmente bloccato, come del resto lo sono tutti i protagonisti del cinema di Sorrentino. Si tratta di individui in cui il trauma di una troppo acuta sensibilità verso un qualche aspetto della vita ha determinato uno scacco, un inaridimento del rapporto con il mondo esterno e con il prossimo. È il caso del Titta Di Girolamo de Le conseguenze dell’amore, che vive una vita sterilizzata, priva di rapporti umani, completamente dedita all’autodifesa e al controllo minuzioso di ogni variabile quotidiana, perché sa fino in fondo quanto profondamente e pericolosamente ci mettano in gioco gli affetti veri, siano essi d’amicizia o d’amore; e infatti, innamorarsi e trovare la morte saranno, per lui, parte di una medesima scelta, di un medesimo azzardo. È anche il caso di Giulio Andreotti (Il divo), troppo profondamente consapevole della «mostruosa inconfessabile contraddizione» del potere, ovvero della necessità di «perpetuare il male per garantire il bene», per non trasformarsi in un uomo freddo, cinico, privo di qualsiasi pietà umana e indecifrabile persino per sua moglie, che ama con sincera devozione. E ancora, è il caso della troppo acuta sensibilità di Tony Pisapia (L’uomo in più) per il sentimento di una libertà che può esprimersi solo come tracotante volontà di vita, di Geremia De Geremei (L’amico di famiglia) per la propria abiezione estetica e morale, infine quella dell’ex-rocker Cheyenne (This Must Be The Place) per la serietà terribile connessa all’assunzione della responsabilità, sensibilità che lo spinge, ancora a cinquant’anni, a vestirsi come un adolescente, a odiare la figura del padre, da cui si sente rifiutato, e a far visita ogni settimana alle tombe di due giovani fan della cui morte si ritiene causa.

Lo scacco di Jep Gambardella sta nell’aver vissuto tutta la vita nella nostalgia per la grande bellezza perduta. Quando scrisse L’apparato umano, la sua unica opera letteraria, Jep era permeato dal lirismo dell’unico grande amore della sua vita, quello per Elisa De Santis, la donna che conobbe quando aveva diciotto anni, amò intensamente e poi perse all’improvviso, lasciato senza mai sapere il motivo. Quando, nel giorno del suo sessantacinquesimo compleanno, gli si presenta Alfredo (Luciano Virgilio), il marito di Elisa, per comunicagli di aver letto nel diario della moglie appena defunta che l’unico uomo che lei avesse mai amato è proprio Gambardella, Jep comincia a prendere consapevolezza della propria situazione. A rendersi conto che la sua disperata mondanità, la pessimistica ricerca del grottesco, la sua incapacità di produrre letteratura sono parte di un ininterrotto canto elegiaco per quella pienezza d’amore che non c’è più. Si rende conto di aver sempre vissuto nel sentimento di una biblica caduta dal paradiso, di aver regolato su di esso l’intera sua esistenza. Parlando della sua giovinezza, a un certo punto Jep afferma: «Ero destinato alla sensibilità, ero destinato a diventare uno scrittore, ero destinato a diventare Jep Gambardella». Dobbiamo prendere questa successione come una sequenza causale: la sua grande sensibilità fu tanto ciò che ne fece, dapprincipio, uno scrittore, quanto ciò che lo indusse, in seguito, a diventare il suo opposto, un mondano cinico e disincantato. Eroe tragico, uomo troppo sensibile per avere una vita come tutte le altre, quarant’anni dopo Jep vive ancora nell’ombra gettata da quell’amore giovanile; mentre Alfredo, brav’uomo, ma di statura certamente non eroica, capisce che, se vuole sopravvivere, deve, più modestamente, dimenticare e voltare pagina. A pochi mesi dalla morte della moglie lo vedremo felicemente risposato con Polina, una polacca di qualche anno più giovane di lui, rassicurante e con pochi grilli per la testa.

L’episodio finale di questa presa di coscienza è dato dall’incontro di Jep con la santa africana. A lei Gambardella risponde – per una volta – sinceramente, alla domanda sul perché non abbia mai più scritto un libro: «Cercavo la grande bellezza, ma non l’ho trovata». Nella purezza della santa Jep si riconosce. Ma vede forse anche ciò che non vuole essere più. La santa cerca in Dio la grande bellezza, e per questo si macera, vive nell’ascesi, a oltre cent’anni mangia radici, dorme per terra e assiste i poveri. Jep capisce che, dalla brama per l’assoluto, l’uomo, che è un essere finito e manchevole, non può che restare schiacciato. L’unica bellezza che ci è davvero data in questa vita è infatti quella che balena per un istante e poi svanisce, quella che è frammista alla bruttura, allo squallore, alla caducità. Capisce anche, forse, che in questa sua esistenza in bilico tra sincerità e insincerità, tra ricerca del bello e inabissamento nel grottesco, vi è stata una qualche forma di saggezza. Che la ricerca dell’assoluto è altrettanto votata allo scacco, e perciò alla menzogna, della sua completa dimenticanza. L’unica vita possibile sta nel mezzo, nella contemplazione di una bellezza impura, nell’accettazione del suo limite e fallimento. L’unica vita possibile è quella di chi ha capito che l’uomo non ha le forze per occuparsi dell’Altrove. Solo comprendendo tutto questo Jep Gambardella può tornare alla scrittura.

 

Recita il monologo finale:

Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita. Nascosta sotto il bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla. Bla. Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Si, è solo un trucco.

Queste parole si ricollegano alla citazione di Viaggio al termine della notte di Céline che compare all’inizio del film, secondo la quale il vero viaggio che è concesso agli uomini è un viaggio «interamente immaginario», «un romanzo, nient’altro che una storia fittizia». In questo finale, Sorrentino sta fornendo forse un’indicazione consapevole sulla sua poetica e sulla sua concezione dell’arte cinematografica, anzi, della narrazione in generale. Il regista napoletano sembra attratto da figure di fallimento esistenziale, da caratteri che la vita ha immeschinito o, ancor più, che hanno scelto risolutamente di essere meschini per seguire fino in fondo una parte di sé. Nella loro miseria c’è quindi anche una forma di grandezza; una grandezza a tratti eroica, ma per lo più essa stessa limitata, ridicola, parziale. Non è un caso che i film di Sorrentino, che indubitabilmente appartengono al genere drammatico, stiano accogliendo in sé un sempre più spiccato tratto di commedia; al punto che, ne La grande bellezza, così com’era stato in This Must Be The Place, si ride molto, e inaspettatamente. Tutto ciò mette capo a quella che potremmo definire un’estetica dello squallore, nella quale non si tratta di commiserare, con larvato senso di soddisfazione, la miseria di questi tristi personaggi – faccendieri della mafia, usurai, politici corrotti, cantanti in pensione, mondani all’ultimo stadio –, bensì di cogliere, in quel loro irripetibile impasto di miseria e grandezza, qualcosa di profondamente umano. Lo squallore e il fallimento, nell’unicità con cui colgono ciascuno di noi, ci individualizzano, ci rendono davvero, irrepetibilmente, ciò che siamo. Si è felici, forti, belli, di successo, tutti nello stesso modo. Ma si è sconfitti dalla vita ciascuno in una maniera peculiare. Lo squallore è insomma, nel cinema di Sorrentino, una figura dell’autentico. L’arte narrativa deve mostrare questa bellezza del brutto, questa sincerità nella sconfitta, questa grandezza dello scacco. Può farlo proprio perché è un trucco, perché, pur essendo fittizia, essa dice la verità.

 
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