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Verso il 25 Aprile da wuming foundation

Post n°15660 pubblicato il 22 Aprile 2020 da Ladridicinema
 
Tag: STORIA

 

Verso il 25 Aprile. Riflessioni urgenti sulla necessità di rompere il vetro e tornare in strada

 

di Wu Ming

Oggi, 21 Aprile, celebreremo a modo nostro l’anniversario della Liberazione di Bologna. Non in “telepresenza”, ma nello spazio fisico. Niente “convocazioni”, ci muoveremo da soli, prendendoci in prima persona le responsabilità del caso.
Vogliamo fare qualcosa anche il 25 Aprile. A tale proposito, ecco alcune riflessioni.

Pochi giorni fa, a Torino, due auto e due jeep dei carabinieri hanno inscenato una vera e propria retata per prelevare, perquisire e multare un militante del Centro Sociale Gabrio, reo di aver distribuito un volantino davanti a un supermercato, nell’ambito della raccolta di beni di prima necessità SOSpesa, organizzata per aiutare chi è in difficoltà economica.

L’altroieri, sempre a Torino, l’incrocio tra corso Giulio Cesare e Corso Brescia è stato occupato da uno squadrone misto di forze dell’ordine ed esercito, decine di divise, allo scopo di accerchiare e portare via di peso quattro compagne/i, colpevoli di aver contestato il trattamento inflitto a due giovani immigrati. Tutt’intorno, per strada e alle finestre, molte persone protestavano per l’eccessivo dispiegamento di forze e la tracotanza degli uomini in divisa.

Media e politici hanno subito giustificato l’operato di agenti e soldati dicendo che a monte c’era lo scippo di una collanina. Come se, partendo da un aneddoto di microcriminalità individuale, fosse accettabile una simile escalation.

Toh, la repressione!

Questi non sono exploit isolati, né la repressione colpisce solo immigrati o militanti. La decretazione d’emergenza e l’epidemia di ordinanze e divieti – sovente assurdi – hanno dato alle forze dell’ordine molta più discrezionalità di quanta già ne avessero (ed era già molta). A farne le spese direttamente, in queste settimane, sono state migliaia di persone.

Questa, a titolo di esempio, è una rassegna di episodi significativi accaduti in Sardegna nei giorni scorsi. Un’altra rassegna si può leggere su Osservatorio Repressione. Noi stessi, qui su Giap, riceviamo testimonianze da settimane, basta leggere queste discussioni: 123 e 4.

Dopo una lunga fase in cui a occuparcene eravamo in pochissimi, ora persino alcuni media mainstream sembrano avere scoperto gli abusi in divisa in tempi di lockdown. Addirittura Repubblica!

Negli ultimi due mesi, quel giornale ha fatto di tutto per seminare terrore, paranoia e leggende metropolitane. Al volo, ricordiamo solo «il virus è nell’aria», le foto di resse che non c’erano, i titoli a cinque colonne che descrivevano già situazioni di due settimane dopo, col risultato di orientare scelte politiche, divieti, comportamenti… Due mesi trascorsi a difendere anche gli aspetti più inaccettabili e vessatori della politica del lockdown, a indicare capri espiatori e tormentare presunti «furbetti» in modi che per rozzezza avevano poco da invidiare alle cacce all’uomo condotte da Barbara d’Urso, di cui erano solo una versione più appetibile al pubblico di “centrosinistra”.

Dopo due mesi così, a un certo punto Repubblica comincia a parlare di «clima pesante», e ti piazza pure un articolo contro gli abusi compiuti dalle fdo, con tanto di attacco allo «stato sceriffo». Diffonde anche un video dove un parroco del cremonese, don Lino Viola, si oppone con fermezza e dignità all’interruzione manu militari della messa che sta celebrando di fronte a pochissimi fedeli, tutti con mascherine e ben più che a distanza di sicurezza.


Naturalmente non si va un millimetro oltre la narrazione delle «mele marce»: questi episodi sarebbero da imputare a membri troppo zelanti o singolarmente «spietati» di PS, polizie locali e Arma.
Come se non fosse stato il clima di timor panico creato dai media a rendere possibili questi abusi.
Come se la discrezionalità di operare in quei modi non l’avesse data alle forze dell’ordine la stessa decretazione d’emergenza di cui Repubblica è stata punta di lancia mediatica.
Ora si sono accorti che il clima è cambiato e, dopo il cerchio, danno qualche colpo anche alla botte, confidando nella smemoria diffusa e nell’abitudine a far passare tutto in cavalleria.

Repubblica è il giornale di riferimento della sedicente “sinistra” neoliberale, non era lecito aspettarsi niente di diverso. Dal nostro punto di vista, il problema è che nella comunicazione delle sinistre più “radicali” e “di movimento”, con poche lodevoli eccezioni, non s’è visto granché di meglio.

Quelli che «la libertà? Pfui!»

C’è chi si è ostinato a negare il problema delle libertà compresse dal lockdown, usando con sarcasmo gli stessi diminutivi banalizzanti dei governatori o sindaci celoduristi, da Fedriga a De Luca: la «corsetta», la “passeggiatina”… Si è arrivati a dire che la libertà era faccenda da borghesucci annoiati del proprio salotto, una pseudo-questione agitata da intellettuali che scalpitavano per tornare a farsi l’aperitivo ecc.

Questo mentre l’intera popolazione – e alcuni soggetti molto più di altri, come sempre – era sottoposta all’arbitrio indiscriminato delle fdo, senza nemmeno la possibilità di sapere come e quando stava infrangendo una legge, perché a consentire ogni arbitrio era il caos normativo: decreti nazionali, circolari interpretative, ordinanze regionali, circolari interpretative delle ordinanze regionali, ordinanze comunali, circolari delle polizie municipali, aggiornamenti del modulo per l’autocertificazione…

Si sono sprecate battute e invettive su «i Wu Ming si occupano di passeggiate» e – horribile dictu! – di «libertà individuali». Più di qualcuno ha fatto finta di non capire – o forse, imparanoiato e succube, davvero non riusciva più a capire – che a essere colpite in ultima istanza erano e sono le libertà collettive.

A subire un attacco preventivo è la libertà di organizzarsi e di lottare nella crisi, nella recessione che sta arrivando. Ne va della possibilità futura di fare riunioni, assemblee, manifestazioni, presidii, sit-in, picchetti e in generale di attraversare e vivere lo spazio pubblico fisico. Per stroncare le prossime lotte, le prossime occupazioni, la repressione adotterà motivazioni sanitarie. Con alcune lotte di lavoratori è già successo, e non solo in Italia, come dimostra il caso Amazon/Smalls.

Si è arrivati a questa situazione principalmente perché i due precetti più ribaditi in quest’emergenza, «stare a casa» ed «evitare assembramenti», rotolando giù dal piano inclinato senza che nessuno li fermasse per verificarne le implicazioni, si sono trasformati in prescrizioni mostruose.

«Stare a casa» non vuol dire per forza stare in casa

Dalla necessità di «stare a casa», cioè di chiudere i luoghi dove ci si assembrava lavorando o consumando, in men che non si dica si è passati all’obbligo di «stare in casa», che è cosa ben diversa.

Sentirsi ripetere fino alla nausea, a reti unificate e titoli sbraitati di fronte alle edicole, che bisognava stare in casa, ha portato milioni di persone a blindarsi vive, con conseguente demonizzazione dell’aria aperta.

Demonizzazione selettiva e incoerente, però. Colpiva solo le attività disinteressate, gratuite, fatte per mantenere un minimo di qualità della vita: correre, passeggiare, giocare col proprio figlio… Guardacaso, attività non in linea col produci-consuma-crepa del capitalismo.

Durante il lockdown, il produci-consuma-crepa si è imposto come mai prima, e senza il minimo contrasto: o andavi al supermercato, o andavi a farti sfruttare, o non andavi da nessuna parte. E c’erano pure sedicenti “anticapitalisti” che erano d’accordo.

Che cos’è un «assembramento»?

L’altra dinamica a cui abbiamo assistito è stata l’estensione a qualunque cosa del concetto di «assembramento», già problematico di per sé.

Sul rapido e prepotente riemergere di questo termine nell’immaginario italiano abbiamo già scritto qualche appunto. Pensiamo si sia trattato di un «riflesso condizionato culturale», una risposta pavloviana legata alla mancanza di un’elaborazione seria del passato fascista. L’interpretazione di «assembramento» che si è affermata all’istante proviene direttamente dal ventennio, dal Titolo 2 del TULPS (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) del 1931 e dal regolamento delle colonie di confino, dove era «assembramento» il semplice passeggiare insieme se in numero superiore a due.

Durante l’emergenza coronavirus siamo andati persino oltre: è diventata «assembramento» praticamente qualunque azione compiuta fuori casa a parte il lavorare in fabbrica e lo stare in fila – sovente chilometrica – davanti al supermercato. Se esci di casa con tua moglie e tua figlia è già assembramento, anche se vivete insieme; se porti tuo figlio a fare la spesa è già assembramento; se ti fermi a salutare un’amica a distanza di sicurezza è già assembramento, come nell’aneddoto raccontato qualche giorno fa da Ginevra Bompiani:

Ginevra Bompiani

«Oggi, per andare in libreria, ho attraversato per la prima volta un pezzo di città. Ho cercato d’imprimermi negli occhi quel che vedevo: rari passanti che si aggirano con la museruola bianca. A un certo punto ho incrociato un’amica e a salubre distanza ci siamo sbracciate per salutarci. Una macchina della polizia si è fermata. «È possibile incontrare per strada un’amica e non salutarla?». E il poliziotto: «Ci vuole pazienza..». Sì, ce ne vuole molta, ma con chi? Con l’epidemia? O con chi sta sostituendo al nostro il suo libero arbitrio? A chi faccio del male salutando un’amica da lontano? A nessuno. E allora perché la polizia ha facoltà d’interromperci? E quella di comminarci fino a 4000 euro di multa? Quando è stata votata la legge che ci toglie la facoltà di decidere il margine di rischio che vogliamo correre?»

 
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