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Pasolini, un delitto politico da il corriere della sera

Post n°14152 pubblicato il 12 Dicembre 2017 da Ladridicinema
 

L’uccisione dell’intellettuale, scomodo per ciò che scriveva e faceva, 
fu un crimine capace di suscitare polemiche radicali e violente

Un’illustrazione di Davide Toffolo da «Pasolini» (Rizzoli Lizard)Un’illustrazione di Davide Toffolo da «Pasolini» (Rizzoli Lizard)
shadow

Tre cose. La prima. Finché è vissuto, Pier Paolo Pasolini è stato un intellettuale che con la sua vita e le sue opere ha litigato e fatto litigare molto (come del resto accade sempre quando si incontrano originalità, creatività e genio). La stessa cosa accade anche dopo la sua morte, e non soltanto in relazione alle sue opere.

Nella nostra storia recente ci sono pochi eventi drammatici di taglio criminale che riescano a suscitare polemiche così radicali e violente come il massacro che lo ha visto vittima in quel campetto da calcio all’Idroscalo di Ostia. Tra quelli pubblici forse soltanto la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 possiede una carica virale paragonabile, e tra quelli privati, probabilmente, la morte del piccolo Samuele Franzoni. Anche soltanto riparlare di quello che accadde in quel campetto da calcio la notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 — e delle ore che lo precedettero — comporta l’accusa di essere dietrologo e complottista, approfittatore (fare giallo sulla morte di un poeta), omofobo (se non si accetta che sia stato ucciso da un ragazzino rimorchiato alla stazione è perché non si vuole accettare neppure la sua omosessualità), o addirittura di ucciderlo una seconda volta (l’interesse morboso per il giallo della sua morte distrae dalla sua opera).

 

 

In ogni caso, qualcosa di inutile, discutibile e inopportuno, se non ridicolo. In molti casi è vero. Succede spesso, in Italia: costruiamo complotti secolari orditi da Grandi Vecchi e ci lasciamo trascinare dalle vicende di sangue in una morbosa serialità di talk show e libri rivelazione. Ed è successo, sicuramente, parecchie volte anche con la morte di P.P.P. Però, se dietrologia e complottismo sono una malattia, non è che ce le siamo inventate come fanno gli ipocondriaci. Qualcuno ce le ha fatte venire, perché magari non un Grande, ma qualche Piccolo Vecchio in tutti questi anni lo abbiamo incontrato, qualche incrocio di interessi dietro piombo e bombe lo abbiamo scoperto, ed è successo che qualcuno sia stato ammazzato per quello che sapeva o stava facendo. O anche solamente per quello che era. Soprattutto riguardo ad anni meravigliosi ma altrettanto violenti come quelli Settanta e Ottanta, in cui era facilissimo morire così.

In qualunque direzione vadano, i ragionamenti sulla morte di Pasolini aprono comunque un dibattito feroce che va oltre chi lo abbia ammazzato, come e perché, e finisce per investire la sua figura nella cultura italiana e il modo che ha quella cultura di analizzare e interpretare il nostro recente passato. Evidenziandone soprattutto i limiti. La seconda cosa. Sulla morte di P.P.P. esiste, praticamente da subito, una verità giudiziaria. Sono pochi ad averne una di quelli che impropriamente chiamiamo Misteri Italiani (e che dovremmo invece definire Segreti: la spiegazione di come sono andate le cose non sta in qualche luogo oscuro che sfugge alla ragione, ma chiusa in un cassetto, di solito in triplice copia). Cosa che automaticamente escluderebbe quella notte all’Idroscalo dal numero dei suddetti.

Secondo quella verità il poeta Pier Paolo Pasolini è stato ucciso da un ragazzino di vita di nome Pino Pelosi, detto Pino la Rana, rimorchiato a piazza dei Cinquecento, che ha reagito a quello che P.P.P. gli voleva fare, lo ha massacrato di botte e poi gli è passato sopra con la macchina, senza accorgersene, mentre scappava. Da solo. In casi come questo, e soprattutto nei cosiddetti Misteri, la verità giudiziaria è la base da cui partire, tenendo conto, però, che una verità assoluta, senza aggettivi, in natura non esiste. C’è quella giudiziaria, scritta nelle sentenze di Cassazione, che oltre a mandare o no in galera qualcuno ti permette comunque di dire una cosa senza essere querelato, ma che potrebbe anche non coincidere con quella del buon senso, basata sul fatto che due più due di solito fa quattro, o con quella della storia, formatasi a distanza di tempo su diversi tipi di fonti, o con quella della politica, che, come ripete un personaggio di Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi, «non sempre è rivoluzionaria», e quindi potrebbe non combaciare né con la prima, né con la seconda e neppure con la terza.

Perché come spesso accade nei nostri Misteri/Segreti — anche in quelli che un colpevole non ce l’hanno — sono tante le cose che sappiamo con una ragionevole certezza, pure in quelli che sembrano più misteriosi. Nel nostro caso sappiamo che chi ha ammazzato P.P.P. non era solo. Va contro tutti i precetti e le regole di ogni scienza forense che a compiere quel massacro sia stato un ragazzetto come Pino la Rana, praticamente a mani nude, e uscito quasi immacolato dallo scontro. Lo aveva fatto notare anche la sentenza di primo grado, poi riformata dalle successive due e trasformata così in verità giudiziaria. Sappiamo che quasi sicuramente P.P.P. e Pino La Rana si conoscevano da prima che si incontrassero quella notte, e sappiamo che molto probabilmente Pasolini era andato a piazza dei Cinquecento perché aveva un appuntamento. E sappiamo anche che P.P.P. era un intellettuale scomodo, per quello che scriveva, per quello che faceva e anche per quello che era. E che allora era già abbastanza per essere ammazzato. Basta per dubitare della verità giudiziaria e per legittimare ragionamenti di ogni tipo sulla sua morte?

Per coordinare «fatti anche lontani», mettere «insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico», ristabilire «la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero», come scriveva lui stesso? Terza e ultima cosa. Visto da questo punto di vista, l’omicidio di Pier Paolo Pasolini è un delitto politicoComunque, sia che lo abbiano ammazzato per dare una lezione a un frocio comunista, sia che lo abbiano tolto di mezzo per quello che stava facendo o per dare un segnale a qualcuno. Non è un evento privato che appartiene alla famiglia, un passaggio esistenziale di un percorso letterario da discutere tra critici, e neanche un fatto giudiziario da lasciare a magistrati e investigatori. È un fatto politico, come l’omicidio di Fausto e Iaio, Piazza Fontana, la morte di Pinelli o l’assassinio di Aldo Moro, le due ragazze del Circeo, lo stupro di Franca Rame, il suicidio di Roberto Calvi: mi fermo qui perché potrei andare avanti all’infinito, mescolando terrorismo, mafia, malapolitica e malaeconomia. Un delitto politico. Ecco, secondo me, è proprio di questo che parliamo quando ragioniamo ancora una volta sulla morte di Pier Paolo Pasolini.

 
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