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Marcello Fonte premiato come miglior attore per il film Dogman di Matteo Garrone al festival del cinema di Cannes, il 19 maggio 2018. (Valery Hache, Afp) Prima, le facce. Quella di Zula (Joanna Kulig) nella bellissima epopea storico-romantica Zimna wojna (Guerra fredda) di Pawel Pawlikoski (premio migliore regia), personaggio capace di trasformarsi in un lampo da innocente madonnina folk a seduttrice sensuale. La faccia tonda, tesa, di Ayka (Samal Yeslyamova, premio migliore attrice) nel film omonimo di Sergey Dvortsevoy, una coreografia dell’emarginazione che non dà tregua, incentrato su un’immigrata del Kirghizistan alla disperata ricerca di un lavoro in una Mosca fredda e insensibile. Gli occhi supplicanti ma anche diffidenti della piccola Juri, bambina di cinque anni adottata (per non dire rapita) da una famiglia di ladruncoli in Manbiki kazoku(Shoplifters) del regista giapponese Hirokazu Kore’eda, meritato vincitore della Palma d’oro in questa 71esima edizione del festival del cinema per antonomasia. Basato su un racconto di Haruki Murakami, è un film di due ore e mezza che lascia con tante domande e poche risposte. Domande che riguardano anche la natura del film: comincia, forse, come commedia romantica; finisce, forse, come giallo. Ero un po’ irritato dalla sua impenetrabilità quando sono uscito dalla sala, ma Burningcontinua a seguirmi, segno che lo dovrei rivedere, sempre premesso che esca da qualche parte. Quella italiana è stata la più convincente partecipazione nazionale di quest’anno, regalando due film forti e originali È stato un anno di transizione a Cannes, con una selezione che dimostrava la voglia di premiare la qualità dei film più del nome dell’autore–regista. C’era un solo veterano: Jean-Luc Godard, con Le livre d’image, una specie di flusso di coscienza audiovisivo, un videodiario composto dai pensieri sparsi di un dio minore che si illumina per brevi tratti ma che per lo più è ermetico, rabbioso, la versione intellettuale del monologo di un vecchio pazzo sull’autobus. Non giudico i colleghi che l’hanno amato, dico solo che la storia della videoarte, per la quale molti critici cinematografici hanno un punto cieco, è piena di riflessioni su cinema e tv di maggiore spessore – pensiamo solo a 24 hour psycho di Douglas Gordon oppure a The clock di Christian Marclay. Lazzaro felice e Dogman Con Lazzaro felice, Alice Rohrwacher realizza la sua opera più compiuta, attingendo al mondo delle fiabe, a una storia insieme ideale e amara dell’Italia rurale, al tema (presente anche in Corpo celeste e Le meraviglie) delle persone che non si adattano, e fanno forse bene a non adattarsi. Cala un po’ nel finale, ma rimane uno dei film più fuori dagli schemi passati a Cannes quest’anno. Su Dogman aggiungo solo che, come Lazzaro felice, ambientato in una Sardegna divisa tra paesaggi arcaici e città anonime, usa la location in modo maestrale. In questo caso è il Parco del Saraceno a Pinetamare (già visto in Gomorra), frazione balneare di Castel Volturno di una bruttezza unica, il cui abusivismo percola come un veleno in una storia di abusi. Un ritorno pigro e compiacente La premessa è deliziosa e ci sono degli omaggi divertenti al genere blaxploitation degli anni settanta. Ma nel suo viaggio inesorabile verso la vittoria dei buoni sui cattivi, nelle macchiette che lo popolano, il film con cui Lee torna a Cannes ventinove anni dopo Do the right thing è anche un po’ troppo pigro e compiacente.
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Inviato da: Mr.Loto
il 28/03/2022 alle 11:57
Inviato da: Mr.Loto
il 15/10/2020 alle 16:34
Inviato da: RavvedutiIn2
il 13/11/2019 alle 16:33
Inviato da: surfinia60
il 11/07/2019 alle 16:27
Inviato da: Enrico Giammarco
il 02/04/2019 alle 14:45