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Il signor diavolo

Post n°15271 pubblicato il 24 Agosto 2019 da Ladridicinema
 

Il signor Diavolo, ultimo film di Pupi Avati, tratto dal suo omonimo romanzo; segna forse il declino di un grande regista che alla soglia degli 81 anni, realizza un film che ha tantissime pecche, pur se la storia risulta molto interessante così come l'ambientazione gotica in cui si svolgono i fatti; o forse abituati troppo bene a gran parte del suo cinema e ricordando alcuni suoi horror del passato la delusione è inevitabilmente dietro l'angolo.

Roma, 1952. L'ispettore del ministero della giustizia Furio Momenté viene convocato per una questione delicatissima dal sottosegretario alla giustizia. In Veneto, un minore ha ucciso un coetaneo convinto che fosse il diavolo, a quanto pare istigato da una suora e un sacrestano. Viene inviato perchè deve fare in modo che nessun uomo di chiesa vada a processo ma si trova invischiato in una realtà più complessa del previsto e alquanto sinistra, dove sono in gioco molto di più che la politica e la fede.

Questo film è un ritorno alle sue origini e alle radici del suo stesso cinema. A differenza della campagna ferrarese dove si svolse "La casa dalle finestre che ridono", l'ambientazione come detto prima è il Veneto dei primi anni Cinquanta. 

E' un horror molto più psicologico che di immagini, con una storia che scorre bene ma con un finale che si lascia andare un pò troppo, ma che ha il merito però della semplicità, come veniva fatto una volta nell'horror italiano. E' un horror sui generi quindi che non ha alcuna scena realmente spaventosa, ma che vuole far capire che l'orrore, e il male è in ogni cosa.

Il diavolo del titolo è infatti il diavolo combattuto dalla Chiesa cattolica e che probabilmente è ovunque; quasi sempre è superstizione popolare, che non guarda dove questo si annida realmente, ma lo vede nel diverso, nel deforme.

Il vero male invece è nascosto bene, in persone che non ti aspetti, e si realizza nei fatti. Del resto lo stesso autore afferma a proposito che “Era quel male che volevo raccontare, quel male che muore e si rigenera in una infinità di vite nuove e imprevedibili”.

Avati ha deciso di chiamare a lavorare con se molti artisti con cui aveva già collaborato nei suoi film horror passati; su tutti spiccano i nomi di Lino Capolicchio, Massimo Bonetti e Alessandro Haber. A livello facciale poco da dire. Tutto perfetto e questo rende ancora più verosimile la storia, cosa diversa i dialoghi spesso forzati e il doppiaggio.

Se la fotografia è molto interessante con quel color seppia che è presente in gran parte del film che da un so che di vintage; un pò meno la regia, quasi sembra di vedere un film amatoriale.

Se dobbiamo trovare un merito ad Avati è il tentativo con questo film, o meglio con l'orrore e il male espresso in chiave psicologica in questo film, di aver tentato di riscoprire il genere dell'horror d'autore. Vedremo con quali risultati...

 
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