Creato da: Ladridicinema il 15/05/2007
Blog di cinema, cultura e comunicazione

sito   

 

Monicelli, senza cultura in Italia...

 
 

Area personale

 

Archivio messaggi

 
 << Ottobre 2016 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
          1 2
3 4 5 6 7 8 9
10 11 12 13 14 15 16
17 18 19 20 21 22 23
24 25 26 27 28 29 30
31            
 
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti possono pubblicare commenti.
I messaggi e i commenti sono moderati dall'autore del blog, verranno verificati e pubblicati a sua discrezione.
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

tutto il materiale di questo blog può essere liberamente preso, basta citarci nel momento in cui una parte del blog è stata usata.
Ladridicinema

 
 

Ultimi commenti

Contatta l'autore

Nickname: Ladridicinema
Se copi, violi le regole della Community Sesso: M
Età: 40
Prov: RM
 
Citazioni nei Blog Amici: 28
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 

FILM PREFERITI

Detenuto in attesa di giudizio, Il grande dittatore, Braveheart, Eyes wide shut, I cento passi, I diari della motocicletta, Il marchese del Grillo, Il miglio verde, Il piccolo diavolo, Il postino, Il regista di matrimoni, Il signore degli anelli, La grande guerra, La leggenda del pianista sull'oceano, La mala education, La vita è bella, Nuovo cinema paradiso, Quei bravi ragazzi, Roma città aperta, Romanzo criminale, Rugantino, Un borghese piccolo piccolo, Piano solo, Youth without Youth, Fantasia, Il re leone, Ratatouille, I vicerè, Saturno contro, Il padrino, Volver, Lupin e il castello di cagliostro, Il divo, Che - Guerrilla, Che-The Argentine, Milk, Nell'anno del signore, Ladri di biciclette, Le fate ignoranti, Milk, Alì, La meglio gioventù, C'era una volta in America, Il pianista, La caduta, Quando sei nato non puoi più nasconderti, Le vite degli altri, Baaria, Basta che funzioni, I vicerè, La tela animata, Il caso mattei, Salvatore Giuliano, La grande bellezza, Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Todo Modo, Z - L'orgia del potere

 

Ultime visite al Blog

ILARY.85JOM53vento_acquaalex.18trancoacer.250AVV_PORFIRIORUBIROSATEMPESTA_NELLA_MENTESense.8cassetta2surfinia60monellaccio19iltuocognatino1mario_fiyprefazione09LiledeLumiL
 

Tag

 
 

classifica 

 

Messaggi di Ottobre 2016

 

Vizio di forma

Post n°13456 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 


Doc Sportello, hippie suonato che ciondola sulla spiaggia di Gordita Beach e investigatore privato a tempo perso, è avvicinato dalla sua ex Shasta Fey, che gli affida un caso complicato. Insospettita dagli intrighi attorno al suo nuovo amante, il palazzinaro Wolfmann, vuole prevenire un suo ricovero coatto. Doc non fa in tempo a cominciare le indagini che finisce per essere accusato di omicidio dall'amico-nemico Bigfoot, ispettore della Omicidi. 
Sul titolo, a volte, è bene soffermarsi (oltre che sulla locandina, quando inarrivabile come quella di Vizio di forma). Al di là della libera traduzione e semplificazione italiana, che poco o nulla significa - e che, curiosamente, sia nel libro di Thomas Pynchon che nel film tratto da esso, non trova spazio all'interno dell'opera - è il letterale "vizio intrinseco" la chiave del mistero. Che, come tale, include tanto il MacGuffin del termine tecnico del ramo assicurativo che la reale sostanza dell'opera di Pynchon e Anderson, dove "vizio intrinseco" sta per incapacità per un sistema di reggere l'instabilità centrifuga delle sue componenti interne. 
Due piani di lettura per una molteplicità psichedelica di interpretazioni degli stessi: l'Uno e il Tutto, in ordine sparso, come vuole il cinema di Paul Thomas Anderson da Ubriaco d'amore in poi. Il noir e la sua lunga discendenza di riferimenti riflessivi (Chandler via Altman, Kem Nunn via Pynchon, con aggiunta di Hunter Thompson e Dude Lebowski) diviene così avvincente esca per catturare l'interesse e aiutare a immedesimarsi tanto in Doc Sportello che nella sua nemesi Bigfoot Bjornsen, nascondendo così, attraverso un sottile e caliginoso fumo di cannabis, la parabola della seconda caduta dall'Eden, quando l'ebbrezza utopistica dei '60 si è schiantata di fronte alla cruda realtà della natura umana ad Altamont e Bel Air. 
Gli Hell's Angels omicidi e la setta satanista di Manson diventano in Vizio di forma un'unica entità e si contrappongono, con logica speculare, all'amore, che muove (più che il cielo e l'altre stelle) le onde dell'oceano e il girovagare erratico, ma lucido e con uno scopo preciso, del protagonista. Un insieme di caratteri paradigmatici fa di Doc Sportello creatura andersoniana più che pynchoniana, pecorella smarrita che si oppone con radicale indolenza al traumatico passaggio di consegne tra un'epoca e un'altra, tra l'erba e la polvere d'angelo, tra Neil Young (il brano scelto per la più romantica delle sequenze si intitola "Journey through the Past") e il decennio dell'edonismo reaganiano che verrà, tra la pellicola che esibisce orgogliosamente la sua grana e il digitale che ci seppellirà. Mai come in Vizio di forma lo sconclusionato nonsense di una trama inafferrabile e involuta è mistificatore, come la retorica di un guru, rispetto alla geometrica precisione di un'opera che intensifica la separazione di Doc dal suo, o dai suoi, doppi. 
Dalla musa-spirito guida Sortilège, voice-over che si fa carne, all'illusorio oggetto d'amore Shasta, fino al Bigfoot di un eccellente Josh Brolin. La bromance tra questi e Doc, giocata costantemente sul filo della comicità, oltre a rivelare una matrice ben più tangibile del Lebowski coeniano nell'oscuro Cisco Pike (Per 100 chili di droga) di una ruggente New Hollywood, è la dinamica pseudo-amorosa di due opposti che si attraggono, due metà che si cercano e si sostituiscono: il primo detective sempre meno improbabile e il secondo cullato e confuso dai suoi sogni di attore. Scherzi del subconscio, forse, come una clinica criminale odontoiatrica o una nave all'orizzonte che non attracca mai, che disegnano la più difficile delle trasposizioni, libera dove appare didascalica, metaforica dove appare comica, prima di chiuderla sotto il sole elusivo di una California in chiaroscuro.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

La banda del trucido da cinemah

Post n°13455 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

La banda del trucido
Anno: 1977
Regista: Stelvio Massi
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: Italia
Data inserimento nel database: 04-12-2003


La banda del trucido. Stelvio Massi1977ITALIA.

AttoriTomas Milian, Luc Merenda, Elio Zambuto

Durata: 99’

 

 

Roma. Il commissario Ghini è alle prese con una dilagante violenza urbana. Per farsi aiutare è costretto a ricorrere a Monnezza, il gestore del ristorante La pernacchia che si cimenta anche come insegnate in una scuola per ladruncoli che rifiutano l’uso delle armi. Quando un suo uomo, Ranocchietta, è ucciso da uno al quale aveva offerto il suo servizio, il Monnezza si metterà sulle tracce dell’assassino con la stessa caparbietà del commissario Ghini.

Secondo appuntamento ufficiale con il personaggio di Monnezza (Tomas Milian autore anche dei suoi dialoghi) la cui presenza obbliga a dividere il film esattamente in due parti. Una vuole Luc Merenda (commissario Ghini) invischiato in scazzottate ed inseguimenti e l’altra Tomas Milian impastato tra parolacce e gigionerie (i due si dice non si potessero sopportare sul set). Passaggio ufficiale da un ruolo all’altro per l’attore cubano (dal cattivo sadico al delinquente buono che strappa la risata) che anche durante il film avverte lo spettatore della sua scelta (quando piange per la morte di Ranocchietto entra un suo studente che lo fa ridere e lui dice Io dovrei piagne e tu me fai ride, ho capito ho sbagliato tutto…). Nonostante le buone inquadrature e le sequenze d’azione, sembra il canto del cigno del genere, prossimo ormai anche questo alla contaminazione alla romanaccia. Sceneggiatura di Dardano Sacchetti, Elisa Briganti e Stelvio Massi; musiche riciclate dello stesso Bruno Canfora da Il trucido e lo sbirro (1976) di Umberto Lenzi, il film perde molto perché brutto in quasi tutte le volgarità di Mondezza, ma rimane interessante per molte altre sequenze ed inquadrature.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Squadra antiscippo

Post n°13454 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Lo scippatore Achille Bertinari detto il “Baronetto” (Guido Mannari) deruba per errore Norman Shelley (Jack Palance), diplomatico americano con l'hobby del riciclaggio di denaro sporco. La scottante refurtiva (cinque milioni di dollari) è fonte di grossi guai: il maresciallo Nico Giraldi (Tomas Milian) cercherà di evitare il peggio.

Prima apparizione sul grande schermo per l'ex galeotto Nico Giraldi, nato sulla scia del successo di “Monnezza” (protagonista di Il trucido e lo sbirro del 1976 e La banda del gobbo del 1977, diretti da Umberto Lenzi, e di La banda del trucido, 1977, di Stelvio Massi). La sceneggiatura evita gli eccessi che diventeranno in seguito il marchio di fabbrica del personaggio, limitando il turpiloquio e gli inserti da commedia per spingere il pedale sulle sequenze di azione e su una buona dose di violenza non troppo edulcorata (il pestaggio nella sala da biliardo). Il ritmo è buono, lo sviluppo narrativo decisamente meno e l'intreccio poliziesco è pretestuoso e puerile. Il verace Giraldi, comunque, rimane scolpito nella memoria con battute che fanno intuire gli sviluppi futuri («So' Sant'Antonio der Friuli, er protettore dei paraculi») e con il suo aspetto pittoresco. Imprescindibile il doppiaggio di Ferruccio Amendola, che sarà la voce di Tomas Milian in tutti gli undici episodi della serie. Assenti, per il momento, gli abituali compagni di avventure Bombolo (Venticello) e Massimo Vanni (Gargiulo, qui interpretato da Raf Luca). Maria Rosaria Omaggio è la signorina Cattani. Seguito da Squadra antifurto (1976), Squadra antitruffa (1977), Squadra antimafia (1978), Squadra antigangsters (1979), Assassinio sul Tevere (1979), Delitto a Porta Romana (1980), Delitto al ristorante cinese (1981), Delitto sull'autostrada (1982), Delitto in Formula Uno (1984) e Delitto al Blue Gay (1984).

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Il cinema dietro le quinte: Intervista di Federico Fellini da cinemamio

Post n°13453 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Un’intervista da parte di un gruppo di giornalisti giapponesi è il pretesto che permette a Fellini di far vedere il suo cinema da dietro la macchina da presa: questo è il fulcro centrale di quello che il regista appellò come un filmetto, ma che in realtà nasconde tutta la filosofia del grande maestro.

LA TRAMA

Tutto ha inizio di notte negli studi di Cinecittà: tra fumo finto e cineprese su carrelli elevatori, Fellini cerca di girare una scena nella quale rievoca un sogno. Intanto arriva una troupe di giapponesi che vogliono intervistarlo e grazie a loro iniziamo a scopriretrucchi e segreti del suo mestiere.

Il maestro ha in mente un film sul suo arrivo a Cinecittà nei primo anni ’40 per intervistare una famosa star e nella parte di se stesso da giovane ha chiamato un giovanissimo Sergio Rubini. Un salto in sala trucco e poi si gira. Più tardi ci porta alla ricerca dei personaggi per il suo prossimo film (America di Kafka): per i provini arrivano uomini e donne di tutte le età beccati per caso in metropolitana.

Nel frangente da una finestra spunta Marcello Mastroianni che nei panni di Mandrake sta girando una pubblicità. Quale migliore occasione per andare con Rubini e Mastroianni a trovare Anita Ekberg nella sua villa alla periferia di Roma?

INTERVISTA

Seguendo Fellini nelle sue attività, passiamo dai set cinematografici di Cinecittà a riprese in movimento tra paesaggi romani e bucoliche periferie, scoprendo tra attrezzi di scena e cartapesta, i retroscena della preparazione di un film. Ma questa è solo un’aspetto del film perchè Fellini, come un abile giocoliere ci fa passare dal mondo frivolo e spesso comico del cinema alla realtà: e allora ci ritroviamo con Mastroianni e Rubini a casa di Anita Ekberg e insieme a loro rivediamo alcune scene de La dolce vita.

LE DONNE FELLINIANE

In questi pochi minuti di film è secondo me lampante l’amore e la devozione che Fellini aveva per le donne (quelle che Rubini nel suo intervento ha chiamato le donne felliniane). Ritroviamo una Anita Ekberg ovviamente più invecchiata ed appesantita rispetto a quando ha girato il film che l’ha resa famosa: eppure, nonostante il confronto con se stessa trent’anni prima, Fellini riesce a darle un fascino ed una dolcezza incredibile:

 

IL SOGNO E IL SORRISO

Come è anche incredibile la visione onirica che Fellini sa mettere in ogni suo film: sia che ci troviamo sul set che fuori, la sensazione è sempre quella di vivere la scena come se fossimo in un sogno. Può quindi capitare per esempio di ritrovare la troupe improvvisamente sotto la pioggia costretta a montare un campo provvisorio dove dormire mentre fuori piove.

Non mancano poi le scene comiche, come quelle dei discorsi in macchina tra Fellini, Rubini e Mastroianni o dei due operai che stanno allestendo un set:

LE CRITICHE

Alcuni hanno voluto vedere nell’Intervista una forma di autocompiacimento del regista, quasi che, con narcisismo, avesse voluto trasportarci nella grandezza del suo mondo.
Altri hanno sottolineato la sua profetica visione del futuro della televisione: in una scena alcuni indiani con antenne televisive al posto delle lance attaccano la troupe, a voler significare l’attacco al cinema delle reti televisive.

CONCLUDENDO

Intervista è stato il penultimo film di Fellini (è del 1987), dalle sue parole un film

Anomalo, asistematico, irripetibile, girato in presa diretta, un film sul cinema, sulla sua magia, sui suoi incantesimi, sulle luci, sulle ombre, sull’illusione, sui sogni che sono il cinema. Non ha mai fatto film di ricordo (neppure Amarcord lo era) ma sempre di memoria e siccome il cinema si è preso tutta la mia vita, parlando di cinema, parlo di me. I miei sono film di memoria: i ricordi sono aneddoti e possono venire alterati a seconda dello stato d’animo del narratore, la memoria invece è come il sentimento, è te stesso, quello di cui sei fatto, lascia intravedere quel passato che porti sempre con te è come uno spessore, una profondità maggiore del presente.

Vorrei riprendere le parole che Sergio Rubini ha detto parlando dei film del Maestro: i film di Fellini sono sempre stati descritti come difficili, eppure rivedendoli ora sono di una semplicità incredibile.

Intervista è uno di questi: ti immerge in questo sogno che è la produzione di un film dandoti l’impressione di entrare ed uscire dal set, di guardare il film da spettatore e poi di entrarci da attore.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Predestination

Post n°13452 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 


Un agente della polizia temporale indaga su un caso di terrorismo. C'è una bomba pronta ad esplodere in un certo luogo e in un certo punto del tempo, eppure non riesce ad impedire la detonazione nonostante i tentativi che quasi gli costano la vita. I molti viaggi che deve compiere lo portano ad incontrare, reclutare e parlare con diverse persone che forse lo possono aiutare nella missione, tuttavia il continuo muoversi lungo la linea tempo sta cominciando a creare un po' di confusione nella sua testa.
Pensato come un rompicapo filmico, Predestination non nasconde fin dalla prima scena il meccanismo di svelamento parziale di ogni movimento su cui si basa. Per adattare "Tutti i miei fantasmi" di Robert Heinlein, i fratelli Spierig scelgono la strada impervia del gioco a nascondino con il pubblico. La medesima trama che su carta stampata si avvantaggia dell'impossibilità per il lettore di "vedere troppo", lasciando che descrizioni parziali creino quei buchi necessari allo svelamento che verrà, sullo schermo deve vivere di inganni continui. I volti, i fisici, le persone e i ritorni che lo spettatore potrebbe riconoscere da subito (di fatto rovinando il successivo effetto sorpresa), sono celati, mascherati, truccati o resi irriconoscibili con un armamentario di trucchi che vanno ai più poveri ai più ricchi.
C'è un'ambizione smisurata in quest'idea di cinema, quella di realizzare un'opera che sembra impossibile da mettere in scena mantenendo segreto il finale. Lo stesso i fratelli Spierig si imbarcano con ardimento nell'impresa di rendere semplice e diretta una trama che è esattamente il suo contrario, tentano di comunicare per immagini quel che sembra possa avere effetto solo a parole. Il risultato è ambiguo, vive di ottimi momenti e idee molto forti (il clichè del viaggio nel tempo è reso attraverso una suggestiva sparizione subitanea e potente, come se l'essere umano smettesse di esistere fragorosamente) ma anche di una certa fatica nelle lunghe spiegazioni e spesso di un po' di pigrizia, come nel caso del lungo racconto effettuato da uno dei personaggi, che di fatto abdica alla parola quel che spetterebbe alla messa in scena.
Il gioco del gatto col topo che Predestination conduce con lo spettatore forse necessitava di un minimalismo e una maestria più alte per raggiungere la perfezione, ma è indubbio che la coerenza con la quale Michael e Peter Spierig scrivono e dirigono questa piccola chicca di fantascienza travalichi i limiti del genere. Appassionati di labirinti mentali, ampi scenari fantastici in cui muovere i personaggi e piccoli mondi a parte come quello alternativo diDaybreakers, i due autori stavolta hanno animato un universo tra il noir e la fantascienza con la perizia degli ingegneri.
Il loro è cinema di architettura, film come cattedrali, apparentemente semplici ma sorretti da meccanismi complessi che la narrazione si sforza di rendere comprensibili. In questo caso la furia dei molti viaggi nel tempo del protagonista provoca un continuo spaesamento, che però suona corretto. Gli spettatori come il povero viaggiatore vivono spesso di una inconsapevolezza confusionaria, incapaci di comprendere al volo luogo e tempo dell'azione si trovano in una storia di cui comprendono solo piccoli pezzi, almeno fino al finale.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Leviathan

Post n°13451 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 


Kolia vive in una remota località rurale nel nord della Russia, vicino al mare. In quel piccolo paese un sindaco prepotente e corrotto ha deciso di volere per sè le terre di Kolia e cerca quindi di comprarle. Ex-militare e uomo dal temperamento violento e coriaceo, Kolia non solo non accetta ma si scaglia con violenza in una causa legale per mettere in mutande il sindaco stesso. Ad aiutarlo c'è un amico, avvocato di Mosca, con lui sotto le armi e molto determinato nel fermare quest'abuso.
Viene dritta dal libro di Giobbe questa parabola umana di disperazione ma è asciugata completamente da qualsiasi forma di speranza o fiducia in Dio (e figuriamoci nella Chiesa!). I disastri nella vita del protagonista infatti si susseguono uno dopo l'altro ma non è tanto la volontà di Satana a metterlo alla prova, quanto più prosaicamente l'accanimento del sindaco cioè della forma minore di potere statale che si possa incontrare. 
Dividendo con molta cura il film in due parti, una prima iniettata di pesanti dosi di ironia contro tutti (il popolo russo, le abitudini malsane legate al bere, la propria storia politica...) e una seconda in cui prende piede sempre di più il destino di sofferenza del protagonista, Zvyagintsev riesce a costruire un mondo al limite dell'umano in cui paesaggi desolati svelano con sempre maggiore decisione la totale solitudine umana. Quelle lande che Il ritorno aveva esplorato attraverso il viaggio qui appaiono statiche, immobili, ferme e proprio per questo agghiaccianti.
Tra relitti di un'altra epoca (case distrutte, imbarcazioni sventrate...) e relitti di esseri viventi (un gigantesco scheletro di Balena che non può non far pensare al Leviatano del titolo) si muovono uomini che lentamente perdono tutto ad opera proprio di quello stato del quale dovrebbero essere parte fondante, che dovrebbe garantire le loro libertà nella visione dell'altro Leviatano, quello di Hobbes. È infatti con un certo rigore e una chiarezza espositiva che non lascia dubbi che Zvyagintsev raduna intorno ad un tavolo i tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) nel momento in cui il sindaco pianifica il suo contrattacco. Didascalicamente mette lo stato nella forma più alta (c'è una geniale preponderanza nella fotografia della classica foto di Putin sul muro dell'ufficio del sindaco) a tramare, a braccetto con il potere ecclesiastico. Con equilibrismo invidiabile Leviathan riesce in questo modo a non dare mai l'impressione di accanirsi sui protagonisti ma semmai di condurli in un percorso di sofferenza imputabile ai personaggi e non al sadismo dell'autore. Nel clima desolato in cui è immersa la storia l'impressione è che quella sia l'unica possibile strada per tutti coloro i quali decidono di alzare la testa.
A chiudere la parabola c'è un finale di alto valore simbolico (specie se raffrontato a quello con cui nella Bibbia si chiudono le peripezie di Giobbe, cioè con la restituzione delle sue fortune raddoppiate) che fa piazza pulita di qualsiasi similitudine biblica e dimostra come il film abbia usato una parabola tra le più conosciute dall'uomo per svelare la mancanza di un senso superiore nelle vite individuali. La chiesa non è un conforto e in nessuno degli incredibili paesaggi che costellano tutto il film sembra di intuire una presenza superiore che regoli tutto, solo il silenzio del vento e il vuoto delle anime.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Zona d'ombra

Post n°13450 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Zona d'ombra - Una scomoda verità

Un giorno di settembre del 2002, l'anatomopatologo Bennet Omalu, nigeriano emigrato a Pittsburgh, ancora non perfettamente al passo con l'America e le sue passioni, si trova a dover indagare la causa della morte di Mike Webster, leggenda del football americano, finito in disgrazia a vivere in un pick-up, tormentato da spaventose emicranie. Omalu è uno che fa ridere i colleghi, perché parla con i morti, vive il suo lavoro come una missione e non lascia mai perdere. Per questo, paga di testa propria i costosi esami al cervello di Iron Mike e scopre una verità a dir poco scomoda, che mette in breve in pericolo la sua carriera e persino la sua famiglia. 
"Diciamo che possiedi una multibilionaria lega di football. E diciamo che la comunità scientifica - a cominciare da un giovane patologo di Pittsburgh per continuare con un coro di neuroscienziati da tutto il Paese- viene da te e ti dice che i traumi da scontro stanno facendo impazzire i giocatori, li stanno rendendo pazzi al punto da uccidersi, e lì, nei tessuti del cervello, c'è la prova di tutto questo. Ti unisci agli scienziati e provi a risolvere il problema, o usi il tuo potere per screditarli?" È questo il punto dell'articolo di Jeanne Marie Laskas, apparso su GQ, che per primo ha fatto conoscere al mondo il dottor Omalu e che ha ispirato il film di Peter Landesman, già autore di un accattivante per quanto televisivo dietro le quinte ospedaliero dell'assassinio di JFK (Parkland). 
Con Zona d'ombra Landesman non fuga le perplessità e anzi le nutre abbondantemente. Lo spettro di Insider di Michael Mann aleggia sull'intero concept del film, ovvero la lotta di Davide contro il Golia di uno sport che, a Pittsburgh in particolare, ha investito pesantemente nell'occupazione della popolazione e nella costruzione di uno stadio che è un vero e proprio elefante in salotto, e ogni qualvolta fa la sua apparizione, il film di Landesman impallidisce, incapace di reggere il confronto a qualsiasi livello. Anche senza scomodare termini di paragone, però, Zona d'ombra sembra impegnarsi nel rendersi la vita difficile la vita con le proprie mani: tarato da un'inspiegabile e poco funzionale linearità estrema del racconto, non potendo contare su un numero sufficiente di ostacoli (Omalu non ha avuto la strada spianata, ha sofferto e fatto soffrire, ma la fortuna ha anche girato non poco la ruota dalla sua parte) sposta il fuoco dalla battaglia legale, tutto sommato esterna al personaggio, alla sua lotta interiore per vedere riconosciuto il proprio valore in terra d'America, il paese che tramuta i sogni in realtà, il paradiso dei self-made men. 
È così che il neuropatologo interpretato da Will Smith con forte accento buonista, citando Dio ad ogni piè sospinto, confonde ricerca della verità e ambizione personale, probo idealismo e retorica superflua, lasciando più delusi che perplessi.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Left behind

Post n°13449 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Left Behind - La profezia

Ray Steele è un comandante dell'aviazione civile che ha ormai un difficile rapporto con la consorte Irene dedita in modo radicale alla lettura delle Sacre Scritture. Tanto che il giorno del suo compleanno preferisce accettare un volo per Londra piuttosto che rimanere a casa con la moglie e con la figlia Chloe, tornata per l'occasione. Ray ha anche una liaison con una hostess e Chloe se ne accorge proprio mentre in aeroporto conosce il giornalista televisivo Buck Williams di cui si innamora al primo sguardo. Il volo decolla e Chloe arriva a casa da mamma e fratellino ma, di lì a poco, succede qualcosa di sconvolgente: su tutto il pianeta milioni di persone scompaiono. Anche sull'aereo pilotato da Ray nonché tra i suoi cari.
Nicolas Cage si era già confrontato con tematiche relative alla religione. L'occasione migliore gli era stata offerta in Al di là della vita. Dietro alla macchina da presa c'era Martin Scorsese, qui invece c'è un certo Vic Armstrong più famoso come stuntman che come regista (questo è il suo secondo film e il primo risale a più di vent'anni fa). Ci si chiede perché Cage ogni tanto abbia il bisogno di affidarsi a mani inesperte e ad accettare remake di bassa qualità. Nel passato (tanto per fare un esempio) si andò a confrontare, in Il prescelto, con un cult movie che aveva come fulcro Christopher Lee, perdendo nel confronto. Qui ci si rifà a un film del 2001 con protagonista Kirk Cameron e quindi l'impresa poteva apparire più semplice. 
Il problema è che il plot di base vorrebbe entrare nel filone 'fine del mondo' ma lo fa con accenti talmente manichei da risultare risibile. I buoni si ritrovano tutti da una parte (allo spettatore spetta scoprire quale, facendo riferimento a un passo biblico che magari ricorda) mentre i 'cattivi' vengono caratterizzati con tipologie davvero monodimensionali: il fedifrago, il rancoroso, l'arabo (poteva mancare?), la tossicodipendente ecc. Non è possibile rivelare di più, pena l'anticipare quel poco di sorpresa che il film offre nel suo continuo alternarsi tra la situazione dell'aereo in volo e ciò che accade a terra. Tra le innumerevoli domande che ci si possono porre una nasce sul finale: perché compiere tutti quegli sforzi se... ?

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Selma

Post n°13448 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Selma - La strada per la libertà

Nella primavera del 1965 un gruppo di manifestanti, guidati dal reverendo Martin Luther King, scelsero la cittadina di Selma in Alabama, nel profondo sud degli Stati Uniti, per manifestare pacificamente contro gli impedimenti opposti ai cittadini afroamericani nell'esercitare il proprio diritto di voto. 
L'afroamericana 42enne Ava DuVernay, miglior regista al Sundance Film Festival del 2012 per Middle of Nowhere, sceglie a sua volta quell'episodio storico come cartina di tornasole della battaglia per i diritti civili in America e offre un ritratto complesso e sfaccettato di una delle personalità più influenti e meno cinematograficamente documentate del passato americano. DuVernay realizza una serie di piccoli miracoli: primo fra tutti togliere MLK dall'agiografia per restituirci la sua umanità, comprensiva di dubbi, sconfitte e cedimenti, senza per questo (o anzi, proprio per questo) sminuire la sua statura etica e politica e la sua importanza nell'evoluzione di una coscienza civile collettiva. L'interpretazione di David Oyelowo (già protagonista di Middle of Nowhere), incomprensibilmente privata di una candidatura all'Oscar, è da brividi, soprattutto in lingua originale, durante la riproposizione dei discorsi pubblici del Dottor King che iniziano in tono sommesso e si gonfiano di travolgente potenza retorica, culminando nei toni trascinanti della predica che ricordano al pubblico la formazione religiosa del pastore protestante e la convinzione che ha sostenuto la sua capacità di resistere pacificamente a umiliazioni e violenze, spingendolo verso un traguardo alto e collettivo - una lezione quanto mai adatta ai nostri tempi su come un credo dovrebbe essere strumento di elevazione spirituale e di rifiuto della barbarie, non di aggressione e oppressione.
La storia raccontata da Selma restituisce alla politica il suo significato superiore. Le scelte di King sono dettate dal bene comune, il suo infallibile istinto gli fa compiere gesti anche impopolari ma di lungimiranza storica inconfutabile, e illustra la necessità (e fondamentale nobiltà) della negoziazione politica indirizzata verso un fine ultimo elevato. La capacità di King di non accontentarsi del successo temporaneo per tenere lo sguardo fisso sulla meta finale è un saggio narrativo (anche questo adatto ai nostri tempi) su ciò che differenzia un leader da un politicante. Parallela la sua determinazione a non sacrificare vite ed entusiasmi, da lui stesso suscitati, all'altare dell'opportunità politica, e la sua volontà, spesso impopolare fra i "fratelli neri", di cercare un consenso universalmente condiviso a sostegno dei diritti civili, componente imprescindibile della sua gestione illuminata. Tutto questo lavoro pedagogico sarebbe importante ma non cinematograficamente memorabile se DuVarnay non l'avesse veicolato attraverso una forma filmica che combina resoconto documentario (con commoventi spezzoni finali, anche della storica marcia su Washington del '63) e racconto intimo dei travagli personali dei personaggi, facendoci sentire fisicamente la loro paura nel farsi parte della storia e rendendo contemporanea, hic et nunc, una vicenda a noi cronologicamente lontana, le cui ricadute sono però assai visibili nel presente di tutti. La regista mette a nudo il cuore segreto dell'America, si infiltra dietro porte chiuse per riportare conversazioni segrete e dare contezza di confessioni sussurrate. Anche la scelta di mostrare il diverso peso che la protesta per i diritti civili ha rappresentato nella vita delle diverse generazioni, e del maschile e femminile, declina la storia (magistralmente articolata dallo sceneggiatore, Paul Webb), e la Storia, secondo coordinate anagrafiche e di genere, e delinea la capacità del movimento per i diritti civili di essere seminale per il futuro, ma anche determinante per il presente di chi era già adulto, o magari anziano, ai tempi di MLK.
La cifra artistica della DuVernay risiede nella sua capacità muscolare di attaccare frontalmente un mito, e una vicenda spartiacque, senza alcun timore reverenziale e con un profondo rispetto della complessità degli eventi e delle persone, senza lasciarsi spaventare dall'ampiezza dell'arazzo ma senza nemmeno perdere di vista la precisione del dettaglio, e nel conferire alla storia, all'interno di un impianto narrativo classico, una dimensione onirica e allucinata a metà fra l'orrore e la fiaba in alcuni passaggi-chiave, come l'omicidio delle quattro ragazzine nell'esplosione della chiesa di Birmingham o la confessione "metafisica" dei tradimenti fatta alla moglie dal reverendo. E nella sequenza finale la regista si concede lo sfizio di attingere al western, con il risultato di potenziare ulteriormente la statura mitologica dell'evento clou di Selma, codificato attraverso un genere che fa parte della costruzione dell'èposcinematografico yankee. La tecnica registica della DuVernay è, in un aggettivo, seduttiva, nel senso che attira gli spettatori dentro il racconto impedendo ogni distanza emotiva, e li affabula attraverso la potenza di immagini sensuali anche quando racconta episodi "di cronaca", per restituire a personaggi resi bidimensionali dai libri di Storia, come il presidente Lyndon Johnson, una terza dimensione fatta di umanità fragile e fallibile. Selma è genuinamente emozionante, non manipola né le coscienze né i sentimenti, ma li risveglia dallo stesso torpore di cui sono imbevute alcune scene del film, che ci ricordano come anche i grandi della Storia siano stati uomini spaventati dalla responsabilità delle loro decisioni. 
Selma ripassa l'abc di ciò che serve, a livello umano e politico, per scardinare un sistema, e quanto questo può costare, a livello individuale, ma anche quanto ne valga la pena, a livello collettivo e di "decisione del proprio destino come esseri umani".

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Left behind

Post n°13447 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Left Behind - La profezia

Ray Steele è un comandante dell'aviazione civile che ha ormai un difficile rapporto con la consorte Irene dedita in modo radicale alla lettura delle Sacre Scritture. Tanto che il giorno del suo compleanno preferisce accettare un volo per Londra piuttosto che rimanere a casa con la moglie e con la figlia Chloe, tornata per l'occasione. Ray ha anche una liaison con una hostess e Chloe se ne accorge proprio mentre in aeroporto conosce il giornalista televisivo Buck Williams di cui si innamora al primo sguardo. Il volo decolla e Chloe arriva a casa da mamma e fratellino ma, di lì a poco, succede qualcosa di sconvolgente: su tutto il pianeta milioni di persone scompaiono. Anche sull'aereo pilotato da Ray nonché tra i suoi cari.
Nicolas Cage si era già confrontato con tematiche relative alla religione. L'occasione migliore gli era stata offerta in Al di là della vita. Dietro alla macchina da presa c'era Martin Scorsese, qui invece c'è un certo Vic Armstrong più famoso come stuntman che come regista (questo è il suo secondo film e il primo risale a più di vent'anni fa). Ci si chiede perché Cage ogni tanto abbia il bisogno di affidarsi a mani inesperte e ad accettare remake di bassa qualità. Nel passato (tanto per fare un esempio) si andò a confrontare, in Il prescelto, con un cult movie che aveva come fulcro Christopher Lee, perdendo nel confronto. Qui ci si rifà a un film del 2001 con protagonista Kirk Cameron e quindi l'impresa poteva apparire più semplice. 
Il problema è che il plot di base vorrebbe entrare nel filone 'fine del mondo' ma lo fa con accenti talmente manichei da risultare risibile. I buoni si ritrovano tutti da una parte (allo spettatore spetta scoprire quale, facendo riferimento a un passo biblico che magari ricorda) mentre i 'cattivi' vengono caratterizzati con tipologie davvero monodimensionali: il fedifrago, il rancoroso, l'arabo (poteva mancare?), la tossicodipendente ecc. Non è possibile rivelare di più, pena l'anticipare quel poco di sorpresa che il film offre nel suo continuo alternarsi tra la situazione dell'aereo in volo e ciò che accade a terra. Tra le innumerevoli domande che ci si possono porre una nasce sul finale: perché compiere tutti quegli sforzi se... ?

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Left behind

Post n°13446 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Locandina Left Behind - La profezia

Ray Steele è un comandante dell'aviazione civile che ha ormai un difficile rapporto con la consorte Irene dedita in modo radicale alla lettura delle Sacre Scritture. Tanto che il giorno del suo compleanno preferisce accettare un volo per Londra piuttosto che rimanere a casa con la moglie e con la figlia Chloe, tornata per l'occasione. Ray ha anche una liaison con una hostess e Chloe se ne accorge proprio mentre in aeroporto conosce il giornalista televisivo Buck Williams di cui si innamora al primo sguardo. Il volo decolla e Chloe arriva a casa da mamma e fratellino ma, di lì a poco, succede qualcosa di sconvolgente: su tutto il pianeta milioni di persone scompaiono. Anche sull'aereo pilotato da Ray nonché tra i suoi cari.
Nicolas Cage si era già confrontato con tematiche relative alla religione. L'occasione migliore gli era stata offerta in Al di là della vita. Dietro alla macchina da presa c'era Martin Scorsese, qui invece c'è un certo Vic Armstrong più famoso come stuntman che come regista (questo è il suo secondo film e il primo risale a più di vent'anni fa). Ci si chiede perché Cage ogni tanto abbia il bisogno di affidarsi a mani inesperte e ad accettare remake di bassa qualità. Nel passato (tanto per fare un esempio) si andò a confrontare, in Il prescelto, con un cult movie che aveva come fulcro Christopher Lee, perdendo nel confronto. Qui ci si rifà a un film del 2001 con protagonista Kirk Cameron e quindi l'impresa poteva apparire più semplice. 
Il problema è che il plot di base vorrebbe entrare nel filone 'fine del mondo' ma lo fa con accenti talmente manichei da risultare risibile. I buoni si ritrovano tutti da una parte (allo spettatore spetta scoprire quale, facendo riferimento a un passo biblico che magari ricorda) mentre i 'cattivi' vengono caratterizzati con tipologie davvero monodimensionali: il fedifrago, il rancoroso, l'arabo (poteva mancare?), la tossicodipendente ecc. Non è possibile rivelare di più, pena l'anticipare quel poco di sorpresa che il film offre nel suo continuo alternarsi tra la situazione dell'aereo in volo e ciò che accade a terra. Tra le innumerevoli domande che ci si possono porre una nasce sul finale: perché compiere tutti quegli sforzi se... ?

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

La vita oscena

Post n°13445 pubblicato il 13 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

 
Locandina La vita oscena

Andrea è un adolescente innamorato della poesia e della madre, giovane e gioiosa che vede spegnersi lentamente a causa del cancro. Ma prima di sua madre è il padre a congedarsi, stroncato da un ictus e dal male senza guarigione della sua compagna. Rimasto solo con le sue parole e l'ingestibile lutto materno, Andrea smette di 'funzionare' e interrompe ogni azione, ogni volontà di vita. Un incidente domestico 'deflagra' però la sua esistenza, costringendolo a lasciare il letto e a scivolare di nuovo sul suo skateboard e dentro la vita. Ottenuto un posto in un patronato scolastico con il suo talento e l'intervento del suo professore d'italiano, Andrea si trasferisce a Milano, dove medita il suicidio, perseguendolo con metodo, disciplina, psicofarmaci, cocaina e sesso bulimico. Ma diversamente dal suo ispiratore, il poeta austriaco Georg Trakl, Andrea non ha ancora finito con la vita.
Trasposizione del dolente e sovvertente romanzo di Aldo Nove, La vita oscena conferma l'interesse di Renato De Maria per i personaggi che vanno incontro al nulla avendo come unica colpa l'innocenza. Ma questa volta il protagonista, nonostante il divorante bisogno di sperimentazione e di ordalie iniziatiche, sopravvivrà, trascendendo l'aneddoto e muovendosi verso l'universale. Dopo aver messo in schermo la vita perfetta e al contempo inadeguata di Andrea Pazienza (Paz!), De Maria traduce in immagini trattenute e allentate la biografia di Antonio Centanin, in arte Aldo Nove. Scampato alla morte, ambita e lambita in seguito alla dipartita dei genitori, lo scrittore ha consegnato diversi anni dopo al linguaggio letterario la propria traiettoria esistenziale, ripatteggiando, ricucendo e riconciliandosi col presente. E il magma lavico dell'esperienza patita da Nove è quello che manca alla sua versione cinematografica, che si trattiene al di qua dell'osceno e dello scarto destabilizzante della parola scritta, capace di narrare ma soprattutto di aprire lo spazio di fronte a sé. 
Quella dimensione nel film di De Maria resta inesplorata e il feroce spasimo fuori scena, forse per non urtare lo spettatore, forse per scoraggiarne il voyeurismo, forse per non rischiare la pornografia del dolore. Gli 'effetti speciali', funzionali a interpretare i fantasmi di Andrea e a riprodurre il mondo allucinato dalla droga, impediscono al film di 'soffrire', di incarnare l'abuso di piacere e afflizione. Nondimeno La vita oscena diventa stimolo per una liberazione, un'occasione di fuga dal mondo uniformato e uniformante del cinema italiano, trovando un linguaggio instabile, uno sguardo eccitato e un protagonista ardente e credibile nel convertire la maledizione in elezione. 
Clément Métayer, giovanissimo fenomeno del cinema francese, dischiuso dal maggio di Olivier Assayas (Qualcosa nell'aria), incarna straordinariamente il pensiero autobiografico di Nove e le sue derive intimistiche, trasformando in corpo la dimensione informe del dolore. Se Andrea Pazienza trasfigurava vita e rifiuto col disegno, l'Andrea di De Maria lascia che la memoria di chi ha amato attraversi l'imbuto stretto del linguaggio, producendo pagine di poesia e una corsa febbrile, che è il grande motivo del film. Una corsa che dietro l'apparenza della resa urla (dentro) la volontà del protagonista di restare nel flusso della vita e nella sua circolarità (im)perfetta. 
Ipercinetico e avviato verso il consumo incontinente di oggetti perfetti e già morti il giorno dopo il loro trionfo, il film è ambientato nella Milano da bere e negli anni della Marlboro's way of life, La vita oscena è un 'romanzo' di formazione rincorso dal dolore di un lutto e alla ricerca di un confine con cui marcare la propria esperienza e il proprio mondo. Con cui testimoniare la vita, che è poi la vita (oscena) di tutti.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Immenso e fuggente, ilNeruda di Pablo Larraín da cameralook

Post n°13444 pubblicato il 12 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Domani arriva al cinema l’atteso Neruda, il sesto lungometraggio del regista cileno Pablo Larraín, che ha stregato pubblico e critica allo scorso Festival di Cannes nella sezione Quinzaine des Réalisateurs. Protagonisti della pellicola sono Luis Gnecco, Gael García Bernal, Mercedes Morán eAlfredo Castro.


É il 1948 e la Guerra Fredda è arrivata anche in Cile. Al congresso, il Senatore Pablo Neruda (Luis Gnecco) accusa il governo di tradire il Partito Comunista e rapidamente viene messo sotto accusa dal Presidente Gonzalez Videla (Alfredo Castro). Il Prefetto della Polizia, Oscar Peluchonneau (Gael García Bernal), viene incaricato di arrestare il poeta. Neruda tenta di scappare dal paese assieme alla moglie, la pittrice Delia del Carril (Mercedes Morán), e i due sono costretti a nascondersi. Traendo ispirazione dai drammatici eventi della sua vita di fuggitivo, Neruda scrive la sua epica raccolta di poesie, “Canto General”.

Nel frattempo, in Europa, cresce la leggenda del poeta inseguito dal poliziotto, e alcuni artisti capitanati da Pablo Picasso iniziano a invocare la libertà per Neruda. Ciononostante, Neruda vede questa battaglia contro la sua nemesi Peluchonneau come un’opportunità per reinventare se stesso. Gioca con l’ispettore, lasciandogli indizi architettati per rendere più pericoloso e intimo il loro gioco tra ‘gatto e topo’. In questa vicenda del poeta perseguitato e del suo avversario implacabile, Neruda intravede per se stesso dei risvolti eroici: la possibilità, cioè, di diventare un simbolo di libertà, oltre che una leggenda della letteratura.

Gael García Bernal

Gael García Bernal

Vi presentiamo ora la breve intervista rilasciata dal regista Pablo Larraín.

Perché Neruda?

Pablo Neruda è stato un creatore talmente complesso e vasto, praticamente infinito, che è quasi impossibile collocarlo in una singola categoria, o raccontarlo in un solo film, capace di capire e definire la sua personalità o la sua opera, in maniera immediata e rapida. È per questo che abbiamo scelto la storia della sua fuga, delle indagini e della leggenda letteraria. Per noi, Neruda è un falso biopic. È un biopic che non è veramente un biopic perché non ci siamo assunti il compito di fare un ritratto del poeta che fosse totalmente serio. Semplicemente perché ciò è impossibile. Piuttosto, abbiamo deciso di costruire un film mettendo assieme elementi inventati e giocosi. In questo modo, il pubblico potrà librarsi assieme a lui nella sua poesia, nella sua memoria, e nella sua ideologia comunista, tipica della Guerra Fredda.

Quali sono le esperienze che Neruda fa, come artista, degli eventi del Cile degli anni ’40, e come affronta lei questo aspetto?

Nel corso della sua fuga Neruda ha scritto una buona parte di “Canto General” che probabilmente è il suo libro più massiccio, completo e rischioso, ispirato da tutto quello che aveva visto e vissuto nel corso della sua fuga. I suoi scritti sono pieni di rabbia e di voli della fantasia, sono pieni di sogni terribili e di una descrizione cosmica dell’America Latina in stato di crisi – sono scritti furiosi e disperati. Mentre era in fuga Neruda ha costruito un tomo letterario che parla della guerra, della rabbia e della poesia, che ci ha aperto le porte su un’indagine selvaggiamente immaginaria, perché – come il poeta e la sua opera – il film crea una confluenza tra arte e politica, da un punto di vista cinematografico e letterario.

Luis Gnecco

Luis Gnecco

Come mai ha scelto la fuga di Neruda?

Neruda amava le storie poliziesche – è per questo che il film è un road movie arricchito dall’elemento delle indagini della polizia – un genere che implica cambiamenti e personaggi che si evolvono e, nel nostro caso, elementi della farsa e anche dell’assurdo. Vediamo il paesaggio, e tutto il movimento all’interno di esso, come un processo trasformativo e illuminante. Nessuno rimane esattamente com’era all’inizio, né il cacciatore, né la preda. Abbiamo inventato un mondo, esattamente come Neruda ha inventato il suo. Il film che abbiamo fatto è più un film “Nerudiano” che un film su Neruda; o forse è entrambe le cose. Abbiamo creato un romanzo che ci avrebbe fatto piacere che Neruda leggesse.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

quello che vedrete in bianconeri da tuttojuve

Post n°13443 pubblicato il 12 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

SOTTOBOSCO - Tutto quello che vedrete e non vedrete nel film "Bianconeri. Juventus Story". Calciopoli e la faccia di Elkann: non è finita. Ecco da chi doveva difendersi Moggi. Tavecchio può riaprire processo. Il sigillo di Allegra Agnelli

Andrea Bosco ha lavorato al “Guerin Sportivo“, alla “Gazzetta dello Sport“, al “Corriere d'Informazione”, ai Periodici Rizzoli, al “Giornale“, alla Rai e al Corriere della Sera.
10.10.2016 00:55 di Andrea Bosco  articolo letto 24893 volte
 SOTTOBOSCO - Tutto quello che vedrete e non vedrete nel film "Bianconeri. Juventus Story". Calciopoli e la faccia di Elkann: non è finita. Ecco da chi doveva difendersi Moggi. Tavecchio può riaprire processo. Il sigillo di Allegra Agnelli

L'incipit sullo schermo nero, più che una informazione, è una dichiarazione di guerra. La Juventus ha 300 milioni di tifosi nel mondo. !3 milioni in Italia. Con una società del genere, tutti devono fare i conti. Inevitabilmente.

Una scritta bianca su un fondale nero. 

 Un altro schermo nero e altre scritte, alla fine, immediatamente prima dei titoli di coda, concluderanno con orgoglio e una punta di ironia, una vicenda leggendaria. Quella di una società calcistica indissolubilmente legata ad una famiglia: gli Agnelli . 

Tredici milioni: un abitante su sei, in Italia, tifa per la Signora degli scudetti.

Trentadue per la pelosa contabilità della Federazione Italiana Gioco Calcio. Trentaquattro, stampati a caratteri cubitali all'ingresso dello Juventus Stadium, vinti sul campo. Rivendicati da quanti quegli scudetti conquistarono. Intangibili per la dirigenza e per la tifoseria. Concessi dagli avversari. Con una sola eccezione: l'Inter. La tenutaria dello “scudetto di cartone" .

 

DA BRADY A PIRLO

 

Comincia così il bellissimo film di  Marco e Mauro La Villa “Bianconeri: Juventus Story". Un lavoro a più mani. La “famiglia" (Lapo e Ginevra Elkann), la collaborazione di Ennio Moricone, le interviste ( Buffon, Mauro, Vialli, Vidal, Del Piero, Pirlo, Chiellini, Bonucci, Nedved, Andrea Agnelli e John Elkann). La voce fuori campo è quella di Giancarlo Giannini. Un “narratore” che emoziona. Che seguendo la trama che gli è stata consegnata, ci mette la sua arte: la sua capacità di recitare. Nelle pause, nel tono, nelle sospensioni che sottintendono molto di più di quanto le parole non dicano.

Due parole guida: Famiglia e Casa. La famiglia è quella degli Agnelli che dal 1923 è proprietaria della Juventus. Casa significa la villa avita di Villar Perosa. E significa Stadium:  la nuova dimora della Fidanzata d'Italia.

La scelta dei due registi, che vivono negli Stati Uniti è precisa:  si parte dal 1981 per arrivare al 2012. Dalla rete di Brady a Catanzaro che vale lo scudetto, fino allo scudetto numero 30, conquistato, con Conte in panchina, a Trieste .

Liam Brady quando colloca la palla sul dischetto a Catanzaro sa già che nella stagione successiva verrà rimpiazzato da Michel Platini. Liam Brady non è uno qualunque. In Italia il suo grande valore non è stato probabilmente del tutto percepito. Neppure dagli juventini. Ho avuto la fortuna di pranzare anni fa a Mantova al Festival della Letteratura, con Nick Horby, il romanziere inglese “malato“ di Arsenal. Uno uomo intelligente e spassoso con una grande passione per il calcio. Gli chiesi, quale a suo parere fosse il più grande giocatore del mondo. Pensavo mi avrebbe risposto che era Pelè, o Maradona, o Platini. Senza un secondo di esitazione, Horby mi disse: “Liam Brady : un genio del pallone, un giocatore dalle intuizioni e dalle giocate scientifiche".

Confesso che rimasi senza parole. Ma nel tempo mi sono rivisto alcuni match di Brady, nella Juventus e nell'Arsenal. Aveva ragione Nick: dare la palla a Liam Brady era metterla in banca. La “teneva” e la faceva “fruttare”. Gran giocatore, grande professionista, grande uomo.

La storia dei fratelli la Villa comincia da lì. Un poco, seguendo il film ci rimani male. Perché la Juventus del quinquennio anni Trenta è citata di sfuggita. Quella degli anni Cinquanta di Boniperti e John Hansen la intuisci. Quella di Umberto Agnelli con Sivori e Charles è ridotta a due fermo immagine. E quella coraggiosa e tenace di Heriberto Herrera, quella soffiò lo scudetto sul filo di lana all'Inter mondiale di Helenio Herrera:  beh di quella indimenticabile squadra operaia, proprio non c'è traccia.

Si parte da Brady che viene congedato e da Michel Platini che ancora non è Le Roi, ma che ha fatto invaghire l'Avvocato, per quei piedi divini che sanno far gol, che aprono il campo anche da quaranta metri, per quell'attitudine del francese di origini piemontesi ad esserci quando serve.

 

GIANNI AGNELLI: L'ULTIMO PRINCIPE

 

Si parte da Michel Platini e dal protagonista dominante di questa storia: Gianni Agnelli che tutti chiamano l'Avvocato. E' un uomo speciale, dal fascino, dal carisma speciali. L'ultimo principe d'Italia. A lungo vero ministro degli esteri italiano nel mondo. L'uomo che siede - rispettato ed ascoltato - al tavolo dei Kennedy e di Henry Kissinger. L'uomo che frequenta le donne più affascinanti del pianeta ma sulle quali non ha mai detto una sillaba. L'uomo che ha imparato il mestiere da Vittorio Valletta e che ha la responsabilità di guidare la Fiat, l'azienda più importante del Paese. E contemporaneamente anche  la società calcistica  più amata e più detestata d' Italia: la  Juventus .

Spiega efficacemente Lapo Elkann in un insert del film: “La Juventus è amata ed odiata come i Lakers o gli Yankees“ .

Gianni Agnelli, la famiglia, la Fiat, la Juventus: storie indissolubili. Legate. Storie di grandi successi sportivi. E insieme di grandi dolori. Storie di gioie e di tragedie. Gli scudetti, le coppe, i giocatori forniti alla Nazionale. E i lutti: Edoardo il patriarca fondatore, morto in un incidente aereo. Le vittime dell'Heysel, la malattia devastante di Giovannino, l'erede designato, il suicidio di Edoardo, figlio di Gianni. La scomparsa prima di Gianni e poi di Umberto, il tornado Calciopoli.

Si chiese un giorno l'Avvocato. “Sono curioso di vedere se arriveremo prima noi a trenta scudetti o gli altri a venti“. Terza stella: ci hanno pensato gli eredi, Andrea Agnelli e John Elkan a soddisfare la curiosità di quel grande tifoso che un giorno confessò “di emozionarsi, ogni volta, leggendo una parola che cominciasse con la J" .

 

TRENTA E PIU' SCUDETTI

 

Trenta e più scudetti: per come stanno messe le cose, la curiosità dell'Avvocato andrebbe aggiornata. Prima la Juventus a quaranta (4 stelle) o gli altri a venti?

Già, gli “altri“. Che  il film dei  La Villa riduce a due:  Milan (Berlusconi) e Inter (Massimo Moratti). Non c'è traccia né della Roma, né del Napoli. Ma c'è traccia della Lazio, il cui ultimo scudetto coincise anche con la più grottesca delle gare mai disputate in Italia. Un Perugia – Juventus, sospesa per diluvio dopo il primo tempo per 71 minuti. E ripresa con modalità da pallanuoto sotto la direzione di Pierluigi Collina. Una sconfitta che ancora fa discutere.

Già, la Lazio. Responsabile anche di quella atroce beffa, all'ultima di campionato, ai danni dell'Inter.  Un 4-2 che consegnò lo scudetto alla Juventus contemporaneamente vittoriosa ad Udine. Era un 5 di maggio. “Ei fu" recitano i versi del poeta. Morte sportiva. Spiega Nedved chiamato a raccontare quella domenica: “Avevamo rapidamente vinto la nostra gara ad Udine. Ma in classifica l'Inter ci sopravanzava. Dalle radioline non si capiva alla fine cosa stesse succedendo. Mi dissero chi aveva segnato. E io chiesi: Poborsky? Gioca con me in nazionale e non segna mai. Non ci posso credere che ne ha fatti due“ .

 

BERLUSCONI E MORATTI

 

Già, Poborsky: quelle due clamorose reti, una alla Garrincha, in una difesa interista molle come il burro, non gli evitarono a fine stagione la cessione. Chissà mai perché. O forse, probabilmente  per un perché.

La disamina del film è corretta. Berlusconi: denaro (tanto) , campioni e idee innovative. L'Avvocato aveva capito che quell'imprenditore lombardo avrebbe cambiato il mondo del calcio. Ma  la grande differenza tra produrre automobili e fare l'editore televisivo con il supporto di immensi proventi pubblicitari è che (se contemporaneamente possiedi anche una società di calcio) prima viene la catena di montaggio e poi l'asso del pallone. Ci fu una stagione nella quale la Juve fece il “mercato” acquistando i modesti Traspedini e Volpi: con gli operai della Fiat  in cassa integrazione, investire nel calcio sarebbe stata cosa (per il Paese) inaccettabile.

“Noi non facciamo come Berlusconi – dice l'Avvocato , nel film – non spendiamo tanto. Piuttosto diamo fiducia ai giovani".

Il Cavaliere spendeva e spandeva. Voleva il tetto del mondo e l'ottenne: arando in Italia, in Europa e nel mondo, ogni terreno altrui.

Poi arrivò Massimo Moratti, figlio di Angelo, l'uomo che aveva costruito la famosa Inter che anche i non interisti snocciolavano a memoria: Sarti, Burgnich, Facchetti ecc.“.  Moratti junior: un petroliere che ha la medesima disponibilità economica di Berlusconi, qualcuno sostiene, persino maggiore. Moratti tritura giocatori e allenatori come un macinino tritura la carne per le polpette. Spende moltissimo, Moratti: compra i migliori, una stagione “il migliore“ dell'epoca. Ronaldo il Fenomeno. Spende ma non vince. Comincia ad avere cattivi pensieri. E qualche giornale comincia  a pensarla come lui.

La Famiglia da tempo ha messo la Juventus nella mani di due manager: Antonio Giraudo (amministratore delegato) e Luciano Moggi (direttore generale). Li affianca una bandiera della Juventus: Roberto Bettega. La triade si autofinanzia: ha idee, potere, arroganza. Moggi, soprattutto è il mago del mercato che controlla giocatori, allenatori e ha confidenza con i designatori.

Dice nel film John Elkann: “Moggi si era montato la testa: quando si vince bisogna restare calmi. Quando si perde non ci si deve disperare".

 

IL POTERE DI MOGGI

 

Luciano Moggi gode in quel periodo di un grande potere. Più che averlo, il mondo del calcio reputa ce l'abbia. E lui fa di tutto per dare corpo a questa convinzione metropolitana.  L'uomo è simpatico, ma duro. Il mestiere lo ha imparato da Italo Allodi, direttore generale prima nell'Inter di Angelo Moratti e poi nella Juventus di Boniperti e infine a Napoli con Ferlaino. A Napoli, quello di Maradona, c'è anche lui : quello che tutta Italia chiama Lucianone.

Luciano Moggi è uno che “sa come si fa“ . E visto che ha cominciato a guadagnarsi il pane facendo il casellante in un piccolo scalo ferroviario,  sa come conservarselo, il pane.

Moggi è abile, furbo, spietato in un mondo dove abbondano i lupi. C'è una cosa che il film omette: dopo Calciopoli, dopo che nel 2006 la Juventus ha pagato per tutti, quando,nel 2010 si scopre (il film fa sentire le telefonate di Bergamo con Moratti e Facchetti)  che tutti parlavano con il designatore, Moggi (radiato dalla giustizia sportiva, condannato in tre gradi di giudizio per associazione per delinquere, reato prescritto) rivela che lui “quelle cose“ (le telefonate ai designatori n.d.r) ha dovuto farle per difendersi".

Parlare con i designatori, allora, non era vietato: tutti lo facevano.

E dunque da cosa doveva difendersi Moggi? Il film non ne fa menzione. Lo ipotizzo io. Da un arbitro (Pierluigi Collina, quello della pallanuoto di Perugia) che all'una di notte incontrava nel parcheggio della trattoria dell'addetto agli arbitri del Milan,  dentro ad un'auto, il deus ex machina rossonero, Adriano Galliani. Immagino non per parlare di olio e salumi. Si doveva difendere, Moggi, da chi  (Inter) tesserava giocatori (Recoba) con passaporti falsi, li faceva giocare, ma per il reato non subiva sanzioni dalla giustizia sportiva. Da chi presentava fidejussioni false (Roma) ma non subiva sanzioni, sempre dall'ineffabile giustizia sportiva. Da chi si iscriveva al campionato fuori tempo massimo (Roma) ma egualmente veniva fatto partecipare. Da chi mandava a Natale agli arbitri e agli assistenti (Roma) Rolex d'oro ma egualmente veniva perdonato dalla giustizia  sportiva. Da chi (Genoa) veniva beccato con una valigia di dobloni per truccare una partita, ma (incredibilmente?) non veniva radiato. Da chi presenziava con i propri ultras (Lazio) in rivolta (con sassi, biglie, spranghe, molotv e razzi)  davanti alla Federazione ed egualmente dalla giustizia sportiva non veniva punito. Mi fermo qui: ci vorrebbe la guida telefonica.

I comportamenti di Moggi punibili al massimo - data l'impossibilità di leggere  rapidamente la montagna  di carte processuali  (lo afferma Giannini nel racconto del film ) con qualche punto di penalizzazione e con una sanzione pecuniaria - fanno viceversa precipitare la Juventus in serie B con penalizzazione.

Quel processo dura solo due  settimane senza possibilità di difesa alcuna. La giustizia sportiva non lo prevede. Non siamo nell'Urss di Stalin, siamo in Italia. Ma così vanno le cose per quanto attiene alla giustizia sportiva: il procuratore espone, accusa, chiede le pene. E l'accusato non può difendersi. La sua difesa è irrilevante. Il tribunale sportivo giudica e raramente disattende le richieste del procuratore. Per la cronaca, in quel processo, uno dei componenti il collegio giudicante (Sandulli) affermerà, successivamente: “Giudicammo sull'onda del sentire popolare" .

 

PALAZZI: PERCHE'?

 

Il film di questo non fa menzione. Al pari dell'immonda canea montata dai giornali, una idrovora nella quale finì persino l'accorato appello di un monsignore  a Moggi, in favore di due cittadine  moldave che cercavano lavoro come  donne delle pulizie.

Senza il livore di troppi media ascari di questa o quella società sportiva, Calciopoli avrebbe avuto un altro indirizzo. Senza i media amici dell'Inter, il tribunale ( penale)  di Napoli non avrebbe potuto costruire un castello di teoremi. Non avrebbe potuto permettere al capo investigatore Auricchio, capitano dei Carabinieri, di trincerarsi dietro a tanti “non ricordo“ quando gli fu chiesto conto di come le intercettazioni telefoniche fossero state selezionate. Del perché ce ne fossero 40 di Moggi e non ci fossero quelle relative all'Inter, pur segnalate come rilevanti dai suoi aiutanti con tanto di baffi rossi. Senza la connivenza dei media che misero il silenziatore alla notizia, le telefonate incriminanti dell'Inter (che avrebbero potuto portare  alla retrocessione della società milanese), avrebbero avuto ben altro risalto. Senza l'affetto dei mille comici interisti, quelli che raccontavano che “perdere è bello“, i media nazionali avrebbero chiesto la testa del procuratore Stefano Palazzi. Il procuratore che incredibilmente presentò una relazione che ipotizzava per l'Inter la violazione dell'articolo uno del regolamento sportivo, punibile con la retrocessione. Si fosse trattato di un'altra società, (una che non avesse ricevuto scudetti a tavolino da un commissario straordinario ex  consigliere di amministrazione dell'Inter, una che non si autodefinisse “onesta”)  giornali e troupe televisive si sarebbero accampati per un mese fuori dalla casa di Palazzi per chiedergli conto di quel documento presentato un paio di giorni dopo che il reato era caduto in prescrizione. Media degni di questo nome avrebbero chiesto a Palazzi  conto dei suoi incomprensibili ritardi nelle indagini. Relativamente al dossier sul quale  il suo predecessore, Saverio Borrelli, ex Capo del pool “Mani Pulite“ lo aveva pubblicamente invitato “a continuare ad indagare e ad andare a fondo".

Argomenti che il film tocca di striscio. Ma che Calciopoli sia una ferita ancora aperta lo dimostrano le parole di John Elkann: “Ero molto giovane all'epoca e non riuscivo a valutare a pieno la situazione. Fu una enorme guerra contro la Juventus: soffrimmo le pene dell'inferno".

La faccia di Elkann nel film non è la faccia di uno che che considera chiusa la vicenda. Carlo Tavecchio si faccia proiettare in sala riservata la pellicola: Tar o non Tar trarrà dalla visione del film, elementi istruttivi.

Perché, a Torino hanno la memoria lunga. Ricordano chi è restato nel momento più terribile della storia della società (Buffon, Del Piero, Nedved,  Chiellini, Trezeguet ) e chi invece se ne andò nottetempo: da Ibra ,a Cannavaro, a Zambrotta. Alcuni pur avendo (Capello) ancora un anno di contratto.

Hanno la memoria lunga a Torino. Rammentano chi aveva predetto che la Juventus dopo Calciopoli non avrebbe mai più vinto.  Rammentano gli errori societari e i settimi posti. Fino al Rinascimento: la Juventus che da società familiare e padronale, diventa una vera società per azioni. Una azienda che sa produrre trofei assieme ad utili finanziari. Una mosca bianca in un mondo dove è normale chiudere i bilanci con il segno meno. E dove - senza sanzioni - è possibile continuare a partecipare senza pagare a fine mese gli stipendi ai giocatori .

E' in questo modo che arriva  (grazie al  lavoro di Agnelli, Marotta, Paratici, Nedved e alle decine di persone sconosciute al grande pubblico che quotidianamente lavorano per la Juventius), grazie ad un programma e a un progetto lo scudetto della terza stella: quello di Trieste.

Grazie a questi uomini e alla disponibilità dell'azionista di maggioranza Elkann, la Juventus sta diventando un colosso di dimensioni mondiali. Quanto a organizzazione, risorse, fatturato, qualità.

Questa Juventus ha eguagliato con un quinquennio di scudetti quella mitica degli anni Trenta. Ma visto che anche nel film , Giampiero Boniperti, dalla panchina degli studenti fondatori rammenta che “vincere non è importante, ma che alla Juventus è l'unica cosa che conta" ha messo le basi per diventare la migliore. Non solo in Italia. Con idee, conti in ordine, impianti ed iniziative di altissima qualità, staff selezionatissimo, giocatori di assoluta affidabilità, un vivaio che è in crescita.

Oltre al film visibile il 10-11-12 ottobre nelle sale italiane, presto i tifosi avranno a disposizione anche un libro sulla  leggenda della Vecchia Signora.

 

TAVECCHIO BATTA UN COLPO

 

Mentre chiudo queste note, Madama ha allungato in classifica sul Napoli. Io lo so cosa frulla nella testa di quelli di Torino. Li conosco. Credo lo sappia anche Tavecchio. Rivogliono gli scudetti.

La loro bulimia rappresenta un manifesto: vincere sempre per costringere la Federazione a riaprire il processo sportivo. Tantissimi anni fa Alfredo Binda fu pagato per non partecipare al Giro d'Italia. Carlo Tavecchio non ha le risorse per indurre la Juventus a non partecipare al campionato. E quand'anche le avesse, la Juventus rifiuterebbe. Ma ha la possibilità, Tavecchio, di riaprire il processo sportivo, agendo finalmente con equanimità. Rendendo giustizia a chi fu a suo tempo condannato con pene esorbitanti, rispetto al reato commesso.

Si faccia Tavecchio, una domanda: c'è il pericolo di una dittatura bianconera?

Si dia una onesta risposta. E poi si chieda: vale la pena essere tanto “sordi”  per un cartone ?

Il peso di Tavecchio nel Consiglio Federale va oltre la sua carica di presidente . 

Si faccia proiettare il film, Tavecchio.  E legga cosa propone prima dei titoli di coda. Sul  fondo nero scorrono tre blocchi di parole in bianco..

Il primo: Berlusconi sta cedendo il Milan ad investitori cinesi

Il secondo: Moratti ha ceduto l'Inter ad investitori indonesiani e cinesi

Il terzo: La famiglia Agnelli è sempre proprietaria della Juventus e continua a guidarla.

 

ALLEGRA: LA SIGNORA

 

Tutto all'americana, con grandi documenti, grandi fotografie, grandi interviste (la maggior parte in inglese), grandi momenti di calcio. Il titolo bellissimo di un giornale dopo il suicidio di Edoardo, “E' morto un uomo buono". E un pre-finale che a me è parso anche il sigillo della storia: la signora Allegra (mamma di Andrea) che onora il suo nome, regale nella sua matura bellezza, jeans e maglietta, che balla e canta allo Stadium insieme ad una nipotina l'inno della Juventus.

Chi conosce il peso di Allegra Agnelli nella famiglia sa che nessuno più di lei incarna i tratti della Signora.

“Storia di un grande amore"  recita il titolo dell'inno della Juve. E per amore si è disposti a fare qualsiasi cosa.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Giannini la voce del film Juventus Story racconta la sua esperienza

Post n°13442 pubblicato il 12 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Juventus Story al cinema dal 10 al 12 ottobre
09.10.2016 13:00 di TuttoJuve Redazione2  articolo letto 6797 volte
Giannini la voce del film Juventus Story racconta la sua esperienza

Giancarlo Giannini, attore, doppiatore, regista e sceneggiatore italiano ha presto la sua voce e interpretazione nelfilm sui 120 anni della formazione bianconera. Lui stesso racconta l'interesse nel narrare la storia della Famiglia Agnelli che va di pari passo con la storia della Juventus.

Juventus Story, il film in arrivo nelle sale italiane solo per tre giorni, dal 10 al 12 ottobre, distribuito da Nexo Digital e Good Films. Si tratta di un docu-film sulla Juventus e sul legame con la famiglia Agnelli, con interviste a Gianluigi Buffon, Alessandro del Piero, Andrea Pirlo, Giorgio Chiellini, Leonardo Bonucci, Andrea Agnelli, John, Lapo e Ginevra Elkann. Attraverso un sapiente mix di immagini esclusive, interviste ai nomi più illustri del calcio mondiale, video di repertorio e materiali inediti provenienti dagli archivi privati della società, si raccontano i 120 anni di leggenda a strisce bianconere.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Lo "stile Juve" in un libro: Bettega e Furino presentano "Io e la Juve" di Pasquale Gallo

Post n°13441 pubblicato il 12 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Lo "stile Juve" in un libro: Bettega e Furino presentano "Io e la Juve" di Pasquale Gallo

Un amore profondo per una squadra di calcio. E una serie di avvenimenti rimasti nella storia del pallone e nella vita di Pasquale Gallo, autore di "Io e la Juve", libro oggi presentato al Circolo dei Lettori di Torino. Il compito accogliere il testo (edito da Tullio Pironti) è stato affidato a Roberto Bettega, in compagnia diBeppe Furino, del giornalista Gianni Firera e dello storico Gianni Oliva. Durante la presentazione si è parlato della Juventus degli anni '70, ricordando aneddoti e curiosità legati a un glorioso periodo di successi sportivi. Non solo trionfi ma anche contrarietà e sfortune: dalla malattia di Bettega (lontano a lungo dai campi per una tcb) fino al doloroso capitolo di Calciopoli. Qualche difficoltà ma tante gioie, avvolte tutte dallo "stile Juventus", spiegato e raccontato dai suoi protagonisti insie

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Cafè Society

Post n°13440 pubblicato il 12 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Non c'è niente da fare... Woody Allen è sempre Woody Allen? Cosa dobbiamo sottolineare ancora? Di cosa dobbiamo stupirci? Ci possiamo ancora sorprendere per la sua creatività e il suo genio? Direi proprio di si... cafè society è l'ennesimo viaggio nelle caratterizzazioni della vita con la solita ironia alleniana pungente e sarcastica; cronaca di un amore mancato e dell'amarezza dei personaggi. Il tutto viene creato analizzando i temi preferiti del regista newyorkese, ovvero il cinema, lui stesso e le donne. A cui si aggiunge una fotografia magnifica opera di un grande come Storaro e un lavoro sui dettagli praticamente perfetto. La parte più geniale è il finale del sogno, ovvero l’idea che l'amore può essere sognato e che possa continuare ad esistere come qualcosa di puramente mentale pur se non possibile da vivere nel reale

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

La verità sta in cielo

Post n°13439 pubblicato il 12 Ottobre 2016 da Ladridicinema
 

Il 22 giugno 1983 avviene uno degli eventi più oscuri e ancora irrisolti della storia italiana del '900, ovvero il rapimento di Emanuela Orlandi, una cittadina vaticana figlia di un messo pontificio. Dopo trent'anni non si sa ancora quale sia la verità, tranne che la ragazza non ha fatto più ritorno a casa. In questi anni sono state fatte tantissime ipotesi, ma forse bisogna indagare proprio nell'Italia di quegli anni per capire quello che succede nel presente e soprattutto capire lo scandalo "Roma capitale".

Sollecitata da questo scandalo, una rete televisiva inglese decide di inviare a Roma una giornalista di origine italiana per indagare proprio sul mistero della Orlandi. Così con l'aiuto di un'altra giornalista che ha spesso intervistato Sabrina Minardi, amante di Enrico De Pedis, si prova a risolvere l'enigma non capendo però di stare scoperchiando il vaso di Pandora. Perchè oltre alla domanda di chi ha rapito la quindicenne, il perchè e che fine ha fatto si intrecciano anche i rapporti che "Renatino" aveva con i servizi segreti, il Vaticano, la politica e le mafie.

"La verità sta in cielo" di Faenza, tratto dal romanzo di Vito Bruschini “La verità sul caso Orlandi”; quindi è, se non la parola fine alla questione Emanuela Orlandi, comunque e soprattutto un riassunto delle inchieste degli ultimi 30 anni; di come ci sia un filone che lega le vicende di mafia capitale agli eventi criminal-finanziari degli anni'80 come detto prima e soprattuto il racconto di tutte le piste studiate e un approfondimento sul personaggio di DePedis (senza i romanzismi costruiti da romanzo criminale e soprattutto dai giornalisti).

Il tutto viene realizzato in maniera eccelsa, con lo stile di Rosi e Petri, ma anche dello stesso Bellocchio e sostenendo la lezione di Leonardo Sciascia che ogni storia, anche la più complicata, può diventare semplice se si è in grado di evidenziare le dinamiche che raccontano la vicenda dove l'interesse di pochi vale su quello di molti. Attraverso un dettagliato lavoro di ricerca basato su materiali di archivio e contatti con la famiglia Orlandi, Roberto Faenza tenta di ricostruire il mistero.

È da oltre 30 anni che questa storia attende di essere portata all’attenzione del pubblico internazionale. Trattandosi di una vicenda con scabrose ramificazioni ancora attuali in un tessuto che coinvolge la politica, la criminalità organizzata e una parte della Chiesa, si può capire il perché di tanto ritardo. Sinora nessun pontefice ha preso la decisione di aprire le carte del caso Orlandi, che pure si sanno secretate in Vaticano. Papa Bergoglio ha mosso i primi passi ed è probabile che altri seguiranno”.

Ma la risposta principale alla domanda non è stata svelata, come sembrava annunciare Faenza; non siamo di fronte a "Il caso Mattei" dove Rosi ci dava la sua teoria che poi si è dimostrata esatta. Viene solamente fatta una teoria su quello che ci hanno raccontato sulla trafugazione del corpo di DePedis e sul dossier che il Vaticano avrebbe promesso alla magistratura italiana senza ancora averlo pubblicato.

Quindi, se sappiamo chi l'ha rapita e forse anche che fine ha fatto, chi ha dato l'ordine? L'unico che ha probabilmente la risposta in parte l'ha già svelata con quelle poche parole al fratello della ragazza, "lei è in cielo" ed è per questo che la Verità sta in Cielo. Manca solo un metro da percorrere per arrivare alla verità, non so se ci arriveremo, ma con il mio film sollecito a compiere quest’ultimo sforzo per raccontare finalmente alla famiglia e all’Italia cosa è successo davvero a Emanuela Orlandi” spiega Faenza.

Il Vaticano però perchè non racconta tutto? Perchè c'è un intrigo spionistico da guerra fredda in cui sarebbero stati coinvolti alte sfere del Vaticano, malavita organizzata, politici e affaristi della capitale, servizi segreti italiani e stranieri? Questo film non farà certo piacere a certi ambiente anche perchè come hanno sottolineato in molti, nelle scene finali del film si va a intendere che esista una Chiesa "pre" e una Chiesa "post" Bergoglio, una rigorosamente opaca, torbida e corrotta, l'altra carica di attese e speranza. 

Voto finale: 4/5

Poster

Il 22 giugno 1983 una ragazza di 15 anni, Emanuela Orlandi, sparisce dal centro di Roma e non farà più ritorno. E' figlia di un commesso pontificio e ben presto si capisce che la sparizione coinvolge diversi poteri forti, dal Vaticano alla Banda della Magliana fino a Mafia Capitale. La sua scomparsa è l'occasione per raccontare la piramide omertosa che da quel momento metterà in ginocchio la capitale. Una vicenda con scabrose ramificazioni ancora attuali in un tessuto tipicamente italiano che coinvolge politica, criminalità organizzata e una parte della Chiesa. E' da 30 anni che questa storia attende di essere raccontata.

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963