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Messaggi del 04/01/2014

 

Nuovo Kindle PaperWhite edizione 2013 acquistabile in Italia da ebookreaderitalia.com

Post n°10878 pubblicato il 04 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Amazon ha ufficialmente rilasciato il nuovo Kindle PaperWhite che non è stato preceduto da alcuna conferenza stampa né presentazione ufficiale ma solo dalla più classica delle newsletter.

Il nome rispetto al modello precedente non cambia. Parliamo sempre di Kindle PaperWhite nelle due versioni WiFi e WiFi+3G (con la connessione telefonica gratuita offerta da Amazon).

Il telaio non varia e infatti le dimensioni geometriche (169 x 117 x 9,1 mm) sono le stesse del modello precedente, come pure il peso è praticamente inalterato (diminuisce di 7 grammi).
Le novità sono nello schermo, sempre da 6 pollici ma – a detta di Amazon – con un contrasto migliorato, non solo rispetto al PaperWhite precedente, ma anche nei confronti di tutti gli altriebook reader concorrenti. Un contrasto migliore potrebbe significare che l’inchiostro nero dei caratteri è più intenso e/o che lo sfondo della pagina è più bianco (o meno grigio). Amazon ovviamente non ha rilasciato alcun dettaglio tecnico su come sia stato possibile raggiungere un maggior contrasto con quello che – apparentemente – è lo stesso pannello a inchiostro elettronico (E-Ink da 1024×758 pixel – 221 ppi) del modello precedente.

Le principali novità del Kindle PaperWhite (ed. 2013)

Le principali novità del Kindle PaperWhite (ed. 2013)

La luce integrata dello schermo, che consente la lettura in condizioni di scarsa illuminazione ambientale circostante, dovrebbe essere più uniforme (e forse – aggiungiamo noi – centra qualcosa nell’aumentato contrasto). La funzionalità tattile migliora grazie a una griglia capacitiva più fitta del 19%. Tradotto significa che il touchscreen è più sensibile rispetto al modello 2012 e dato che monta un processore ancora più veloce (del 25%) il nuovo Kindle PaperWhite dovrebbe essere davvero reattivo.

Come vedete sembra si tratti di piccoli correttivi e perfezionamenti tecnici di quello che già era un buon lettore di ebook a inchiostro elettronico, invece che di un vero e proprio scatto in avanti nell’evoluzione tecnologica di questo genere di dispositivi. Amazon si è concentrata nelmigliorare il confort della lettura e il fatto che sulla pagina ufficiale del Kindle PaperWhite si ponga ancora l’accento sulle differenze con iPad Mini (e in generale con i tablet) dimostra che l’azienda è sempre impegnata ad attirare su di sé l’attenzione degli appassionati della lettura. E l’integrazione nel modello in vendita negli Stati Uniti di Goodreads - che è la più grande comunità di book lovers al mondo – ne è una ulteriore dimostrazione.
Chi volesse consultare i dati tecnici del vecchio Kindle PaperWhite la pagina ufficiale è questa.

iPad Mini e Kindle PaperWhite a confronto

Lo schermo dell'iPad alla luce del sole si riempie di riflessi

Dal punto di vista funzionale le novità più rilevanti sono tre:
- un cambio pagina (flippage) che permette di sfogliare e spostarsi tra i capitoli o andare direttamente alla fine del libro (per vedere come finisce) senza mai perdere il segno

Kindle PaperWhite - cambio pagina

Cambio pagina migliorato, si ha un preview delle altre pagine senza perdere il segno

- un vero e proprio vocabolario personale. E’ possibile arricchire vocabolario aggiungendo automaticamente le parole cercate durante la lettura dell’ebook

Kindle PaperWhite - vocabolario

E' possibile creare un vocabolario personale

consultazione rapida di Wikipedia (sull’interfaccia utente accanto alla definizione del vocabolario) senza abbandonare la pagina

Kindle PaperWhite - consultazione rapida

Consultazione rapida di Wikipedia (e in futuro di altre fonti?)

C’è da aspettarsi che queste e altre migliorie funzionali (come il nuovo parental control) arriveranno prima o poi anche sui Kindle PaperWhite precedenti con un semplice aggiornamento software.

Il nuovo Kindle PaperWhite è in prenotazione sul sito Amazon Italia con prezzi invariati rispetto al precedente. Il costo è di 129 euro per il Kindle PaperWhite WiFi e 189 euro per il Kindle PaperWhite WiFi + 3G. Le spedizioni inizieranno il 9 ottobre.

Nuovo Kindle PaperWhite

 

 
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Domenico Laudadio presenta la mostra: “Settanta Angeli in un unico cielo Heysel e Superga, tragedie sorelle” da tuttojuve

Post n°10877 pubblicato il 04 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 
Tag: eventi, news

ESCLUSIVA TJ - Domenico Laudadio presenta la mostra: “Settanta Angeli in un unico cielo Heysel e Superga, tragedie sorelle” in programma a Grugliasco

04.01.2014 10:50 di Christian Pravatà  articolo letto 3388 volte

Il 16 febbraio verrà inaugurata a Grugliasco una mostra speciale sulle tragedie di Superga e dell'Heysel. I microfoni dituttojuve.com hanno raggiunto l'organizzatore dell'evento, Domenico Laudadio che ci ha spiegato questo emozionante progetto

Dott. Laudadio, può illustrarci il programma della Mostra ?

E’ intitolata “Settanta Angeli in un unico cielo Heysel e Superga, tragedie sorelle” e si svolgerà a Grugliasco dal 16 febbraio al 20 aprile 2014 nelle sale di Villa “Claretta Alessandri” dove è ospitato dal 2008 il “Museo del Grande Torino”. L’allestimento sarà a cura dell’ “Associazione memoria storica granata”, presieduta da Domenico Beccaria. Il fotografo Salvatore Giglio, storico e valente professionista al seguito della Juventus, documenterà eccezionalmente la strage dell’Heysel con il suo materiale di repertorio, oscurando i volti delle vittime. Come dice il suo direttore, Giampaolo Muliari: “Il Museo di Grugliasco è una entità a parte. E’ un luogo di memoria, di cultura, di fratellanza sportiva”.  Superga e l’Heysel sono virtualmente luoghi sacri e inviolabili nella memoria di tutti e abbiamo, quindi, pensato ad un gesto “forte”, rivolgendoci alla comunità di tutti gli sportivi, rispondendo a quanti stuprano da tempo bestialmente la pietà e la dignità umana fuori e dentro gli stadi italiani.  Questa mostra non è un gemellaggio sportivo. L’intento del progetto multimediale è raccontare le 2 tragedie più grandi del calcio torinese fraternizzandone fra terra e cielo la memoria dei 70 caduti, pur riconoscendo immutabili e sacrosante le dinamiche antagonistiche e la rivalità dei rispettivi club. La mostra avrà accesso gratuito e sarà inaugurata da un convegno nella sala consiliare del Comune di Grugliasco con la speciale partecipazione del giornalista Francesco Caremani, autore del libro “HEYSEL - Le verità di una strage annunciata”.

Da chi è partita l'idea di organizzare l'evento e quali sono stati i principali enti coinvolti ?

Giampaolo Muliari, direttore del Museo del Grande Torino, qualche mese fa si è molto commosso visitando le pagine del mio www.saladellamemoriaheysel.it e mi ha scritto una lettera molto toccante e vera. In estate mi ha proposto l’idea di questa mostra condivisa fra i nostri musei, con il benestare del Presidente Domenico Beccaria e dei soci dell’Associazione. Abbiamo pensato innanzitutto ai familiari delle vittime di Superga e di Bruxelles, invitandoli per iscritto con il dovuto tatto e pudore. Preventivamente sono state coinvolte anche le due società di calcio, ma soltanto il Torino si è reso disponibile al patrocinio mentre la Juventus si è limitata formalmente alla partecipazione se “invitata”. Il Sindaco di Grugliasco ci ha offerto per il convegno ospitalità nella sala del consiglio comunale. Alla mostra sono invitati tutti, indistintamente e senza alcuna preclusione tutti saranno accolti e benvenuti.

Pensa che la Memoria di questi tragici eventi Oggi sia ancora viva o la società odierna cerca sempre di lasciare le tragedie alle spalle ?

Viviamo questo tempo che non privilegia in nessun modo l’etica, figuriamoci la memoria storica. Non è un problema di “lasciarsi alle spalle”, ma di sensibilità diffusa. Le persone non imparano più nulla dal passato, perché troppo concentrate a godere esasperatamente del profitto materiale del presente, ignorando anche ciò che potrebbero costruire per il loro futuro e quello dei figli. La società è fatta soprattutto di queste persone a cui manca un movente ideologico che trasfiguri moralmente la percezione della realtà, il senso ultimo delle cose e il valore della storia.

Giovedì 2 gennaio alcuni teppisti hanno preso di mira la sede dello Juve Club di Prato, scrivendo frasi ingiuriose : Le scritte variano da '-39', a 'Gobbi maiali', da 'Auguri Merdosi' a 'Gobbi Sudici', cosa pensa di queste persone e dei tifosi che alcune volte intonano allo stadio cori contro la strage dell'Heysel ?

Ciò che penso io non conta assolutamente niente rispetto a quello che può addolorare i familiari di quelle povere vittime innocenti. Sono quasi 29 anni che prosegue imperterrito questo ignobile vilipendio, sistematicamente ignorato e impunito dalle istituzioni del calcio. Non credo assolutamente in questa giustizia del mondo del pallone, ma nella vita, una ruota che gira vorticosamente per tutti… Alle superstars dell’infamia, dò un consiglio: quando sputate in cielo ricordatevi che prima o dopo tutto ritorna, ma è molto più pesante…

 
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La Rai non è più maestra per tutti Va rinnovata senza nostalgie da il corriere della sera

Post n°10876 pubblicato il 04 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Dal dopoguerra all’era digitale: il rischio di guardare solo ai modelli vincenti del passato

 

Fulvia Colombo, prima annunciatrice televisivaFulvia Colombo, prima annunciatrice televisiva

 

La Rai, Radiotelevisione italiana, compie oggi , venerdì 3 gennaio, 60 anni, avendo inaugurato ufficialmente le trasmissioni il 3 gennaio 1954. Sessanta sono tanti, tantissimi se rapportati al calendario della tecnologia. In poco meno di un decennio, grazie ai media digitali, a Internet, la tv ha subito un cambiamento radicale: il passaggio dal tradizionale segnale analogico a quello digitale, per esempio, ha generato nuove dinamiche di fruizione e l’emersione di nuovi immaginari sospesi, come sempre accade, tra l’euforia della scoperta «magica» e il terrore di possibili effetti negativi. 
Ma per oltre mezzo secolo, la tv è stata il medium egemone del ‘900 e ha svolto un preciso ruolo sociale, alimentando un’esperienza tanto diffusa quanto condivisa per gli spettatori, riassumibile nella semplice espressione: «guardare la tv». Per molto tempo, dunque, guardare la tv è stato come guardare un nuovo mondo, una scoperta di inestimabile valore.

 

L’immagine dello spettatore 
Lo scenario attuale di trasformazione e convergenza tecnologica comporta anche una mutazione nell’identità di chi guarda, lo coinvolge fisicamente, anche se l’immagine dello spettatore della «multitelevisione» appare ancora sfuggente perché il «nuovo» cerca di rendersi più accettabile assumendo alcune forme tipiche del «vecchio», e viceversa queste ultime reagiscono alla competizione, ricavandosi nicchie di sopravvivenza. 
Se vogliamo capire cosa rappresentino 60 anni di tv, la prima cosa da fare è smetterla con il rimpianto. Basta con la nostalgia del monoscopio, del maestro Manzi, delle annunciatrici, di Calimero, degli sceneggiati in bianco e nero. Quel che è stato è stato. L’archeologia della tv deve solo farci capire le cose essenziali senza mai tramutarsi in uno stato d’animo malinconico. 
Due sono le funzioni fondamentali ascrivibili alla tv delle origini: da una parte, costruire la «visibilità degli italiani», nella tradizionale funzione di rappresentazione e autorappresentazione già assolta precedentemente dal cinema (si pensi al Neorealismo); dall’altra, sincronizzare i ritmi di una comunità e renderla perciò più consapevole di se stessa, in grado di riconoscersi e immaginarsi come un insieme, come un «noi» che affronta un destino comune (quello della definitiva ricostruzione, del boom economico, dell’avvento della società dei consumi, opportunamente mediata dalla spettacolarità rassicurante di Carosello). 
Nessuno storico può scrivere la storia degli ultimi 60 anni del nostro Paese senza l’aiuto della tv, del suo patrimonio simbolico, delle ritualità radicate in una «comunità immaginata»: da «Lascia o raddoppia?» al Festival di Sanremo, dallo sport a tutti i grandi eventi mediatici. 
Proprio per questo, rispetto alla propria audience, si possono dividere i primi 60 anni della Rai, e più in generale della tv generalista, in tre grandi periodi: quello in cui la Rai era più avanti del suo pubblico (l’analfabetismo riguardava metà della popolazione italiana), quello in cui l’offerta televisiva era in sincronia con il «sapere» del pubblico, quello in cui, stiamo parlando dell’attuale, la tv generalista si rivolge principalmente a un pubblico ancora molto vasto ma «residuale» (per età, istruzione e censo) rispetto ai cambiamenti del Paese. Come in tutte le periodizzazioni, i rischi delle sintesi sono presenti anche qui. Non solo: i media hanno un andamento ciclico e i loro rapporti sono determinati dalle fasi del ciclo; ora, per esempio, l’egemonia sta passando a quel vasto sistema dei media convergenti di cui il computer è il terminale più rappresentativo.

     

    Gli esordi e la borghesia 
    Quando in Italia è nata, la tv era in mano a una élite, prima di stampo liberale e poi cattolico. Era una tv che rispecchiava lo spirito di una borghesia medio-alta e si rivolgeva a quella stessa borghesia, la sola in grado di acquistare il costoso apparecchio (di lì a pochissimo, però, lo strepitoso successo di «Lascia o raddoppia?» negli spazi pubblici, nei bar, negli oratori, nei cinema avrebbe fatto capire come la tv fosse lo strumento principe della cultura popolare). Per intanto, la fascinazione del mezzo attirava le menti migliori e dava inizio a quella fase aurorale in cui il nuovo strumento è in grado di stimolare nuovi immaginari. Tre esempi per spiegare meglio la tesi. Nel 1957 Mario Soldati realizza una formidabile inchiesta, «Viaggio nella Valle del Po alla ricerca dei cibi genuini»; l’aspetto curioso è che Soldati s’interroga sulla cultura enogastronomica dell’Italia in un momento in cui, per buona parte degli italiani, l’idea del cibo è legata ancora alla mera sopravvivenza, alla fame patita durante la guerra e nel primo dopoguerra. Più interessante ancora l’inchiesta del 1959 di Salvi e Zatterin «La donna che lavora», indagine sull’evoluzione del lavoro femminile in Italia: allora pareva rivoluzionaria ma era perfettamente in linea con le direttive ministeriali (come se oggi Milena Gabanelli facesse un’inchiesta delle sue, sponsorizzata però da qualche ministero). Nel 1961 Sacerdote e Falqui danno vita allo show «Studio Uno», di rara eleganza espressiva, quando il varietà era un genere pressoché sconosciuto alla quasi totalità degli spettatori. Altri esempi si potrebbero fare con i «romanzi sceneggiati» (il tentativo di portare i grandi libri nelle case degli italiani) o con «Il processo alla tappa». Servirebbero solo a rafforzare la tesi: la tv era più avanti del suo pubblico. I dirigenti dell’epoca vengono spesso ricordati circonfusi di un’aura di grande santità e professionalità. Santi non erano (basti ricordare come i telegiornali d’allora non avessero nulla da spartire con l’indipendenza dell’informazione), ma hanno avuto la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto, quando la tv stessa guidava chi voleva lasciarsi guidare e trascinava i nolenti.

    La seconda fase 
    Il secondo periodo può partire simbolicamente dal 1967, anno di messa in onda dei «Promessi sposi» (la Rai, ormai pienamente consapevole del proprio ruolo centrale nell’universo cultural-spettacolare nazionale, celebra con Manzoni il senso della sua missione educativa) e finire con «Blob», un montaggio di citazioni prese a prestito da altri programmi, un espediente critico per analizzare la tv, il trionfo dell’autoreferenzialità (la tv che parla di tv). In mezzo ci sono programmi che tutti vedevano, di cui tutti parlavano, da cui tutti erano influenzati, compresi gli altri media: «90° minuto», «Canzonissima», «Bontà loro», «Portobello», «Quelli della notte», «Quark», «Domenica in», «Mixer», «Samarcanda», «La Piovra» (ma l’apporto viene anche dalle tv commerciali, come nel caso di «Drive in»). Si potrebbero citare tanti altri programmi, ma l’importante è ribadire il concetto: la Rai assorbiva e insieme dettava i tempi di una nazione. 
    La tv contava su vantaggi consistenti: sia per la sua capacità di articolare il pubblico nel privato, sia ovviamente per la sua accessibilità e popolarità, per quella sua caratteristica complementare, integrativa (contrapposta alla settorializzazione della cultura a stampa), sia, infine, per la sua specificità di «medium generalista di flusso» che tendeva a sincronizzare i ritmi di una comunità. 

    Il periodo che viviamo 
    Il terzo periodo (massì, facciamolo partire dal «Grande Fratello», anche se la Rai non c’entra) è quello che stiamo vivendo. Di fronte alle sfide lanciate dalle tecnologie digitali, il Servizio pubblico ha reagito come ha potuto, spesso prigioniero della politica. La Rai raggiunge una platea potenziale che copre l’intera popolazione, perché, molto banalmente, c’è almeno un televisore (e spesso più d’uno) per ogni famiglia. Il vero problema è che solo una parte - una minoranza, e non certo la maggioranza - della popolazione vive la tv come unica interfaccia col vasto mondo. Si tratta, in sostanza, di spicchi della popolazione doppiamente svantaggiati: per livelli d’istruzione (medio-bassi) e fasce d’età (avanzate, le più consistenti in Europa); ma soprattutto per il tenore dei consumi culturali, che non vanno al di là della tv generalista. Sta di fatto che i giovani non guardano più la tv (se non per frammenti, su YouTube) e chi può si abbona alla Pay-tv. A parte gli eventi mediatici (le partite della Nazionale, in primis), i grandi successi di audience sono rappresentati ormai da varietà e fiction fortemente nostalgici, come se la Rai avesse costantemente lo sguardo rivolto al passato. E i talk show hanno ridotto la politica a mera chiacchiera. Insomma, quella che pomposamente è stata definita «la più grande industria culturale» del paese rischia ora la marginalità. 

    La ricerca del nuovo 
    È vero che la Rai sta cercando di adeguarsi al nuovo, si è espansa al di fuori del proprio guscio (ha moltiplicato i suoi canali sul digitale terrestre), ha messo in atto un movimento di trasformazione, ma il suo «core business» e la sua missione restano ancora il modello generalista. La Rai è vittima di molti fattori: l’ingerenza della politica, soprattutto, il mancato ripensamento della nozione di Servizio pubblico, il condizionamento della concorrenza (è stata una scelta giusta quella del digitale terrestre? Non era meglio puntare al cavo o al satellite?), la mancanza di una rigida policy aziendale (ognuno fa quello che vuole, con la complicità dei giudici del lavoro), l’«entropia della dirigenza» (se alla guida di un sistema così complesso vengono preferite non le persone più capaci, come da curriculum, ma soltanto quelle che hanno giurato fedeltà a un partito, finisce che il numero di incapaci aumenta). 
    Il 60esimo compleanno della Rai dovrebbe perciò servire a riservare più spazio ai ripensamenti che alle celebrazioni, più attenzione ai prodotti che ai dibattiti, altrimenti il declino sarà inevitabile. E la perdita, purtroppo, irrimediabile.

    03 gennaio 2014

     
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    La piccola Eline sorride all’amore «Un inno alla vita dopo il lager» da Il corriere della sera

    Post n°10875 pubblicato il 04 Gennaio 2014 da Ladridicinema
     

    È l’adolescente protagonista del film di Faenza «Anita B.»

    Eline PowellEline PowellLOS ANGELES — Roberto Faenza ha scelto la 23enne londinese Eline Powell come protagonista del suo film Anita B., tratto dal romanzo di Edith Bruck Quanta stella c’è nel cielo(Garzanti), dopo averla vista inQuartet di Dustin Hoffman.

    Il libro, che vinse nel 2009 il Premo Viareggio, è stato sceneggiato dall’autrice con Faenza e Nelo Risi in collaborazione con Iole Masucci: ha come protagonista un’adolescente ebrea sopravvissuta ai lager nazisti («Prima di interpretare Anita — ha raccontato Eline — sono andata in un campo di concentramento ed ero spaventata, disperata nell’anima»). I suoi genitori, deportati, sono stati mandati alle camere a gas. Internata in un orfanotrofio di Budapest, Anita sarà liberata da una sorella di suo padre, che ha un figlio poco più che ventenne, Eli, del quale la fanciulla si innamora.

    Prodotto da Elda Ferri e Luigi Musini, Anita B. ha ottenuto il patrocinio del comitato di coordinamento per le celebrazioni in ricordo della Shoah e il prossimo 27 gennaio, per la Giornata della memoria, al Museo Yad Vashem di Gerusalemme, avrà luogo una tavola rotonda sul tema «Ricordare, come ricordare».

    Spiega l’attrice, che ha studiato e approfondito la materia del libro per il suo primo ruolo da protagonista: «La mia generazione non ha piena consapevolezza di quanto ho rivissuto nel film. Tutto si svolge in un Dopoguerra in cui l’unica cosa che contava era la voglia di rinascere». Osserva, determinata: «Non è giusto raccontare i film prima che il pubblico li veda e provi emozione. Anita è sensibile, nessuno intende più sentire parlare del dramma dei campi di concentramento, tutti desiderano solo cancellare la memoria. Lei vuole trovare l’amore, guardare al futuro».

    Dichiara Faenza: «Sono stati necessari due anni per trovare i finanziamenti. Sono stati realizzati tanti film sulla Shoah, ma pochissimi sono stati prodotti sul “dopo”, sulla volontà di affrontare la vita dopo la distruzione».

    Osserva Eline: «Ho approfondito con passione la materia insieme a Dopotutto il cast, da Robert Sheehan/Eli, famoso in Usa e Gran Bretagna per la serie “Misfits”, all’attrice ungherese Andrea Osvart, a Moni Ovadia, Jane Alexander... Produttori e distributori stanno organizzando una serie di proiezioni per le scuole in Italia e nel mondo. Girare a Bolzano e Praga è stata un’iniezione di energia e cultura, così come capire nel profondo, attraverso il suo coraggio, un altro personaggio, quello di Sarah, la traghettatrice, che organizza esodi verso la Palestina».

    Com’è nata la passione per la recitazione in quest’attrice dai lineamenti delicati e volitivi al tempo stesso, che ammira Marion Cotillard e Ann Margret, vede e rivede i film di Woody Allen e di Hitchcock, e cita le ballate di Sàndor Petofi? «Ho sempre desiderato recitare e sono grata a Dustin Hoffman che mi ha offerto la possibilità di farlo con attori come Maggie Smith e Tom Courtenay. Con loro sono andata al Festival di Toronto ed ero emozionata sul mio primo tappeto rosso perché il lavoro sulla recitazione è il baricentro della mia vita. Avere la possibilità di lavorare su un personaggio complesso e coraggioso quale è Anita, è stato come impossessarsi della sua e della mia identità, un modo per maturare. Spero che il film sia visto dai miei coetanei che, lontanissimi dall’orrore di Auschwitz, dovranno scavare nel passato, porsi domande e cercare risposte andando controcorrente in tempi di commedie a tutti i costi».

    28 dicembre 2013

     
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    Ricordando Renato Rascel, il piccoletto nazionale da globalist

    Post n°10874 pubblicato il 04 Gennaio 2014 da Ladridicinema
     
    Tag: news

    È morto il 2 gennaio 1991. Protagonista straordinario del teatro, del cinema, della musica e della televisione italiana. Giancarlo Governi ricorda il suo talento.

    venerdì 3 gennaio 2014 18:15

    di Giancarlo Governi

    Il 2 gennaio del 1991 moriva Renato Rascel, un personaggio straordinario che ha calcato le scene italiane del teatro, del cinema, della musica e della televisione per oltre 50 anni. Rascel era conosciuto come il "Piccoletto nazionale", per via della sua altezza che forse lo aiutò nella sua carriera. Sarebbe diventato comunque un grande attore perché aveva passione e talento da vendere. Ma forse non sarebbe diventato un personaggio, il Piccoletto nazionale, se fosse stato alto un metro e settanta.

    Fu, invece, un personaggio 'piccolo' in tutto ma grande, grandissimo nel talento. Perché Renato Rascel è stato un personaggio unico nel panorama teatrale italiano che ha avuto tanti comici (alcuni, come Totò, di dimensione stratosferica) ma non ha avuto un altro attore completo come lui. Rascel era comico (ma negli anni della maturità si cimentò con successo in parti drammatiche: come dimenticare Il cappotto, il film che Alberto Lattuada trasse da una novella di Gogol?), era comico, dicevo, ma era anche musicista e ballerino.  Quella sua voce sottile e leggermente nasale, modulata sullo swing del jazz, arrivava a note imprendibili per gli altri cantanti e poi fin da piccolo era stato folgo¬rato dal ballo, dal tango argentino prima, quando furoreggiò in Italia nei primi anni Trenta, e dal tip tap di cui fu straordinario interprete poi. In tutte le discipline Rascel portava una buona dose di ironia, che spesso sfociava in comicità irresistibile, e una certa levità, coerente con il suo fisico leggero di bambino mai cresciuto.

    Fu soprattutto il suo non-sense a imporlo come comico originale, con quel suo modo strampalato di raccontare la vita di tutti i giorni senza una apparente logica, secondo un procedimento spiazzante che consisteva nel condurre lo spettatore verso l'assurdo. Per esempio, ecco una tipica frase di Rascel: «Eravamo a Caianello che facevamo i cadetti quando arriva uno che dice: "scusino, loro fanno i cadetti? Be', me ne facciano due...". Non l'avesse mai detto! Non l'avrebbe sentito nessuno. ». Possiamo tranquillamente dire che Rascel anticipa di un decennio, in chiave comica, il teatro dell'assurdo di Jonesco e dello stesso Becket.

    Certo, non fu facile affermare questo tipo di comicità, ma alla fine Rascel riuscì nell'impresa, disegnandosi addosso un personaggio quasi lunare, fiabesco, improbabile che restò in scena per oltre mezzo secolo. E sempre all'apice del successo.

      Un altro merito di Rascel è l'aver inventato, insieme a Garinei e Giovannini, la commedia musicale, un genere teatrale affermato a Broadway ma sconosciuto in Europa, e l'aver composto e cantato con la sua voce particolare e impareggiabile decine e decine di canzoni di grande successo, tra cui spicca la famosissima Arrivederci Roma.

     
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    Così la legge di stabilità finanzia l'orchestra fantasma da l'espresso

    Post n°10873 pubblicato il 04 Gennaio 2014 da Ladridicinema
     

    Grazie a due emendamenti, il parlamento ha devoluto un contributo straordinario di un milione di euro a un'orchestra esistente solo sulla carta senza nessuna valutazione tecnica preliminare. "Mai visto niente di simile neanche nella prima Repubblica" ha commentato Paolo Cirino Pomicino

    "Dire che siamo indignati, è dire poco: è un'indecenza”. Marco Parri, direttore generale della fondazione Orchestra della Toscana, una delle più prestigiose in Italia, testimonia la rabbia che sembra pervadere, in questi giorni, tutto il comparto della musica classica.

    E d'altro canto, la vicenda è di quelle che dimostrano come alcuni dei princìpi sanciti dai padri costituenti – l'uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge (articolo 3), o il dovere di imparzialità della pubblica amministrazione (articolo 97) - nel Belpaese contino ancora poco o nulla rispetto alla regola aurea canonizzata dal vecchio George Orwell: “Tutti gli animali sono uguali. Ma alcuni sono più uguali degli altri”.

    Questi i fatti. Con due distinti emendamenti alla legge di stabilità approvata lo scorso 27 dicembre, il parlamento ha devoluto un contributo straordinario a favore di altrettante orchestre: 300 mila euro, per I virtuosi italiani di Verona; e 1 milione di euro per l'Orchestra del Mediterraneo presso il San Carlo, che per inciso non esiste ancora (dovrebbe essere costituita nei prossimi mesi con un bando rivolto ai “giovani musicisti del bacino del Mediterraneo”).

    A guardarla con gli occhi del profano, l'iniziativa potrebbe apparire addirittura meritevole, visto che si parla sempre dell'esigenza di sostenere maggiormente la cultura. In realtà, per scoprire le magagne, basta andare appena sotto la superficie.

    In primo luogo, una considerazione preliminare. La legge di stabilità serve a regolare la vita economica del Paese: è lo strumento di attuazione degli obiettivi programmatici, non certo il bilancio di un piccolo Comune, con cui si assegnano finanziamenti straordinari a bande musicali o sagre di paese.

    Inoltre, come evidenziano molti autorevoli rappresentanti del settore che abbiamo interpellato, aggirando le leggi vigenti, si crea una situazione di privilegio che penalizza i diritti di altre orchestre, mortificando il merito e la trasparenza.

    Da circa 20 anni, infatti - e cioè da quando è stato istituito il Fus (Fondo unico per lo spettacolo), per “fornire sostegno finanziario a enti, istituzioni, associazioni, organismi e imprese operanti in cinema, musica, danza, teatro, circo e spettacolo viaggiante” - ogni contributo viene erogato dal ministero esclusivamente previa valutazione dei progetti da parte di un'apposita commissione consultiva, che giudica sulla base di parametri oggettivi.

    Criteri che, a seguito delle polemiche degli anni scorsi sulla gestione clientelare dei fondi, a partire dal 2007 (decreto Rutelli), si sono fatti sempre più stringenti e selettivi.

    E nel caso di specie, i contributi destinati a I virtuosi italiani e all'Orchestra del Mediterraneo non scaturiscono da alcuna valutazione tecnica di un progetto: rappresentano un riconoscimento dovuto alla “benevolenza” di singoli parlamentari.

    In particolare, a perorare la causa dell'orchestra veronese sarebbe stata la senatrice di Forza Italia, Cinzia Bonfrisco (anche se la firma sull'emendamento è del deputato del Nuovo Centro Destra, Antonio Leone). Mentre, a dar credito alle voci di corridoio, per il milione di euro a favore di quella del Mediterraneo, si sarebbe speso direttamente il ministro della Difesa Mario Mauro, amico personale della soprintendente del San Carlo, Rosanna Purchia (che ha lavorato per trent’anni al Piccolo di Milano).

    Ed oltretutto, la copertura finanziaria non è avvenuta con risorse aggiuntive: bensì, tagliando al Fus i soldi necessari.

    "Prima dell'approvazione della legge di stabilità – racconta Parri – abbiamo provato a spiegare, attraverso la mediazione di qualche deputato amico, che si trattava di uno schiaffo dato a tutte le altre orchestre italiane, che rispettano le norme vigenti e che hanno regolarmente partecipato al bando. Ci hanno risposto che, essendo stata posta la questione di fiducia, non si poteva fare più nulla. Certo, mi piacerebbe sapere cosa ne pensa il ministro Bray, considerato che la vicenda vanifica tutti i suoi sforzi, concretizzati col cosiddetto 'decreto Valore', per porre fine ad un utilizzo del Fus improntato alla logica della sovvenzione, vincolando i finanziamenti alle reali esigenze produttive. Alla base di tutto dovrebbe esserci il valore effettivo degli artisti, non le logiche clientelari. Ma sarebbe interessante anche capire in che modo saranno utilizzati i fondi destinati all'orchestra del San Carlo, sulla quale non si possiede alcun elemento di valutazione: anche perché nella maggior parte dei casi la creazione di nuove orchestre serve solo a finanziare contratti integrativi”.

    Paolo Maluberti, presidente delle Ico (Istituzioni concertistico-orchestrali), ricorda che “da anni il Fus è oggetto di continui tagli. E quest'anno – sottolinea - alle Ico sono stati sottratti ulteriori 500 mila euro. Ma, paradossalmente, si spendono 1 milione e 300 mila per finanziare extra-budget un'orchestra privata ed un'altra che non esiste ”.

    Per Franco Petracchi, uno dei più grandi musicisti italiani viventi (accademico di Santa Cecilia, caposcuola del contrabbasso, cofondatore con Accardo, Giuranna e Filippini dell'Accademia per archi "Walter Stauffer"), il problema è alla radice: “Il settore vive una fase difficilissima. Anche orchestre e kermesse che possono vantare una storia e un prestigio consolidati da anni, e universalmente riconosciuti, rischiano di scomparire per le difficoltà finanziarie. Si sa già, ad esempio, che quest'anno chiuderà i battenti l'attività concertistica Chigiana: resteranno solo i corsi. E forse anche il Maggio Musicale Fiorentino, che probabilmente, se si fosse visto riconosciuto il milione di euro concesso all'orchestra del Mediterraneo, sarebbe riuscito a salvarsi. In questa situazione già drammatica, è evidente che la politica dovrebbe evitare le ingerenze indebite, che ci riportano a 40 anni indietro”.


    Ma è davvero così? Accadevano cose del genere nella Prima Repubblica? Abbiamo provato a chiederlo a un esperto come Paolo Cirino Pomicino: “Ma scherza? Ai miei tempi non s'è mai visto nulla di simile: un contributo a un'associazione o ad una manifestazione stanziato direttamente in Finanziaria, come spesa corrente. Certo, poteva capitare di dover sostenere un progetto, un'iniziativa: ma lo si faceva in conto capitale, stanziando i fondi nel bilancio del ministero di riferimento, che poi provvedeva a girarli a chi di dovere. Mi domando perché abbiano commesso un errore così marchiano: forse non si fidano del ministero?”.

    In realtà, la ragione è più semplice: in base ai criteri stabiliti dalla normativa vigente, le due orchestre di cui sopra non avrebbero potuto beneficiare del sostegno ministeriale. Non solo, infatti, “nessun soggetto può essere ammesso a contributo se non ha svolto almeno tre anni di attività nel settore musicale”. Ma una delle precondizioni dell'ammissibilità dei progetti è rappresentata dall'avere entrate proprie “non inferiori al 50 per cento del contributo richiesto”. In pratica, come si diceva, si finanzia solo chi è in grado di stare davvero sul mercato.

    Ma Pomicino va oltre: “Quello della 'legge mancia', cioè dell'obolo concesso a fine anno ai singoli parlamentari, che poi lo gestiscono a piacimento, è un malcostume introdotto da Tremonti. L'ho scoperto quando sono rientrato in parlamento, nel 2006. Ma oltre ad essere eticamente discutibile, un vero segno di degrado, è economicamente insostenibile coi tempi che corrono. E credo che la responsabilità di quanto avvenuto vada attribuita anche e soprattutto ai presidenti delle commissioni Bilancio delle due Camere, che avrebbero dovuto garantire un filtro alle proposte insensate: così, almeno, accadeva ai miei tempi”.
    02 gennaio 2014
     
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