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Messaggi del 09/01/2014

 

Grandmaster da mymovies

Post n°10907 pubblicato il 09 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Locandina The Grandmaster

Ip Man, colui che diventerà il maestro di Bruce Lee, vive a Fo Shan, nel sud della Cina dove pratica le arti marziali come personale passione. In seguito alla guerra cino-giapponese che sconvolge le province del nordest del Paese, il Grande Maestro Gong Baosen è costretto a trasferirsi a Fo Shan dove tiene la cerimonia del proprio addio alle arti marziali. Viene raggiunto da Gong Er, figlia a cui ha insegnato una tecnica letale. Ip Man e Gong Er si conoscono in questa occasione. La domanda che percorre il mondo del kung fu è: chi diverrà il successore di Gong Baosen?
La figura di Ip Man è già stata affrontata dal cinema anche con un buon esito come nel caso dei film di Wilson Yip che sta costruendo sul Maestro una sorta di saga. Si è però sempre rimasti nell'ambito della biografia fortemente romanzata in cui i combattimenti prevalevano su qualsiasi altra opzione. Wong Kar Wai (dopo 8 anni di preparazione, l'avvio delle riprese nel 2009 e il completamento della post produzione all'ínizio del 2013) trova invece in questa storia un'occasione per una sintesi del proprio modo di fare cinema. I suoi film elevano all'ennesima potenza il gioco di luci ed ombre che percorre le esistenze sia sul piano formale che su quello delle vicende portate sullo schermo. Il piacere (talvolta di un estetismo un po' fine a se stesso) che pervade ogni singola inquadratura trova ora nei gesti dell'arte marziale un universo da esplorare in cui la violenza si esprime attraverso l'arte, un'arte che è frutto di lungo tirocinio. L'avere scelto come coreografo dei combattimenti Yuen Wo Ping (MatrixKill Bill, tra gli altri) mette in evidenza quanta attenzione andasse offerta alla musicalita' del movimento. 
Sul piano della narrazione poi la vicenda di Ip Man e Gong Er si adatta alla perfezione a quell'universo di relazione tra i sessi che ha sempre affascinato il regista. Sono le storie 'impossibili' quelle che lo attraggono. Storie in cui è l'impedimento a dominare, in cui l'amore è incandescente ma costretto dagli stessi protagonisti a covare sotto uno strato di cenere che lo soffoca senza spegnerlo. Ecco allora che la superficie scabra ma colorata che apre il film viene progressivamente oscurata fino a divenire nel finale un magma in cui domina l'oscurità. Perché se nel kung fu, come diceva Ip Man, "esistono solo due parole: orizzontale e verticale. Commetti un errore-orizzontale. Sei l'ultimo che resta in piedi e vinci", nell'amore si fanno largo innumerevoli variazioni rispetto a questi due estremi. I protagonisti del cinema di Wong Kar Wai ne soffrono esistenzialmente la presenza, talvolta perdendosi per ritrovarsi e talaltra ritrovandosi per poi perdersi in un'inquietudine mai del tutto sopita.

 
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Planes

Post n°10906 pubblicato il 09 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Locandina Planes

Dusty è un piccolo aereo agricolo, costruito per irrorare i campi del Midwest americano, con un sogno più grande di lui: partecipare alle gare ad alta quota come aereo da competizione. Peccato che soffra di vertigini. Solo un veterano dell'aviazione militare come Skipper potrebbe aiutarlo ad affrontare una sfida tanto impervia. Così, quando Skipper, superate le prime resistenze, accetta di fargli da preparatore atletico, Dusty trova il coraggio di spiegare la ali e Ripslinger, il campione in carica, comincia a tremare. 
Due le precisazioni necessarie. Innanzitutto, gli aerei della Disney, come salta agli occhi, vengono dall'officina dalle macchine della Pixar, Cars e Cars 2, che non rappresentano esattamente il fiore all'occhiello della produzione, ma più sinceramente i capitoli meno ispirati. In secondo luogo, erano stati pensati per "volare" direttamente su dvd, ma poi qualcuno ha creduto in loro, dandogli la possibilità di librarsi più in alto, all'altezza delle sale cinematografiche. E tutto sommato è stato un bene, perché i pregi e i difetti del film si pareggiano, alla fine dei conti, in un esito non eccelso ma nemmeno deludente, anche se maggiormente attrezzato per soddisfare i piccoli sul momento che non per aspirare ad un posto nella videoteca dei genitori. 
In fondo, il difetto di fabbricazione di Planes è anche ciò che lo salva dallo schianto, e cioè l'estrema linearità della sua traiettoria. Nonostante il film ripeta e ribadisca il concetto per cui superare i propri limiti (soprattutto quelli che le etichette degli altri ci hanno cucito addosso) possa riservare grandi sorprese, e nonostante si disserti di vertigini e delle vette più alte del mondo, la storia di Dusty non riserva colpi di scena né mozza mai veramente il fiato: il piccolo aeromobile va dritto per la sua strada, lungo la pista della macrocategoria narrativa del "niente è impossibile, basta crederci". Orfani d'invenzioni originali, ci possiamo però rallegrare della leggerezza del film, che non esagera in preamboli (il sogno e l'handicap del protagonista sono dati per acquisiti nei primi minuti) né in retorica di alcun tipo, ma, appunto, conquista la meta con simpatia e insolita modestia. 
In tema di gare di corsa, le lumache della DreamWorks non hanno niente da invidiare a questo film, ma è probabile che il loro destino sarà accomunato da una scarsa memorabilità. Nei cieli animati, intanto, continuano a vincere "Dastardly, Muttley e le macchine volanti".

 
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Riaffiora Memory of the Camps di Hitchcock da comingsoon

Post n°10905 pubblicato il 09 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 


Riaffiora Memory of the Camps di Hitchcock

Nel 1945 il "maestro del brivido" Alfred Hitchcock si misurò con un brivido ben diverso da quelli del suo intelligente ed irresistibile cinema. Il regista accettò infatti di confezionare un documentario utilizzando riprese effettuate dalle truppe inglesi e russe nei campi di concentramento nazisti, alla fine della II Guerra Mondiale.

Il documentario, che si sarebbe dovuto intitolare Memory of the Camps, causò a Hitchcock persino un trauma alla visione del materiale, tanto che l'autore chiese una pausa di una settimana. Lo scopo del progetto era sensibilizzare i Tedeschi sulle loro responsabilità, ma gli Alleati decisero poi che questo tipo di propaganda non avrebbe aiutato la ricostruzione. Il film non vide quindi mai la luce, se non quarant'anni dopo, in una versione pesantemente incompleta mandata in onda dalla PBS nel 1985.

Al momento Memory of the Camps è in corso di recupero nella sua versione originale, o per lo meno nella sua incarnazione più vicina a quella voluta da Alfred, grazie all'Imperial War Museum inglese che manteneva negli archivi il materiale.
L'uscita della nuova edizione è collocata nel 2015, a settant'anni di distanza esatti dalla fine del secondo conflitto mondiale.




Pubblicato il 09/01/2014 11:29:00

 
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Il capitale umano

Post n°10904 pubblicato il 09 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Il capitale umano - visualizza locandina ingrandita
TRAMA DEL FILM IL CAPITALE UMANO: 
I progetti faciloni di ascesa sociale di un immobiliarista, il sogno di una vita diversa di una donna ricca e infelice, il desiderio di un amore vero di una ragazza oppressa dalle ambizioni del padre. E poi un misterioso incidente, in una notte gelida alla vigilia delle feste di Natale, a complicare le cose e a infittire la trama corale di un film dall’umorismo nero che si compone come un mosaico. Paolo Virzì stavolta racconta splendore e miseria di una provincia del Nord Italia, per offrirci un affresco acuto e beffardo di questo nostro tempo.

USCITA CINEMA: 09/01/2014
GENERE: Drammatico, Thriller
REGIA: Paolo Virzì
SCENEGGIATURA: Paolo VirzìFrancesco BruniFrancesco Piccolo
ATTORI: 
Fabrizio BentivoglioValeria GolinoValeria Bruni TedeschiFabrizio GifuniVincent NemethLuigi Lo CascioGigio AlbertiBebo StortiPia EngleberthGiovanni AnzaldoGuglielmo PinelliMatilde Gioli
FOTOGRAFIA: Jérôme AlmérasSimon Beaufils
MONTAGGIO: Cecilia Zanuso
MUSICHE: Carlo Virzì
PRODUZIONE: Indiana Production, Rai Cinema
DISTRIBUZIONE: 01 Distribution
PAESE: Italia 2014
DURATA: 110 Min
FORMATO: Colore

 
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Disconnect

Post n°10903 pubblicato il 09 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

(Disconnect)

Disconnect - visualizza locandina ingrandita
TRAMA DEL FILM DISCONNECT: 
Un intreccio di storie sulla ricerca del contatto umano in un mondo dove ormai la realtà quotidiana creata da computer, video giochi, social network, sembra più vera del reale. Il film segue le vicende di personaggi imprigionati nella Rete e nelle trappole che si nascondono nelle chat, nei siti di incontro e nei social network. Una coppia di sposi in crisi vittima di un furto perpetrato da un hacker; un ex poliziotto in difficoltà con il figlio teenager che fa il bullo su Internet; una giornalista televisiva che cerca di convincere un ragazzo coinvolto in un losco giro di video chat per adulti a diventare il protagonista di un suo reportage. Sono loro i protagonisti di questa storia che mescola dramma, thriller e azione.

USCITA CINEMA: 09/01/2014
GENERE: Drammatico, Thriller
REGIA: Henry Alex Rubin
SCENEGGIATURA: Andrew Stern
ATTORI: 
Jason BatemanHope DavisFrank GrilloMichael NyqvistPaula PattonAndrea RiseboroughAlexander SkarsgårdMax ThieriotJonah BoboColin FordHaley RammKasi Lemmons
FOTOGRAFIA: Ken Seng
MONTAGGIO: Lee Percy
MUSICHE: Max Richter
PRODUZIONE: LD Entertainment, Wonderful Films
DISTRIBUZIONE: Filmauro
PAESE: USA 2012
DURATA: 115 Min
FORMATO: Colore

NOTE: 
Presentato fuori concorso al Festival di Venezia 2012

 
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Gli anni spezzati, la frase che manca da Il manifesto

Post n°10902 pubblicato il 09 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 


Televisione. Il film-tv di Graziano Diana, dedicato al commissario Calabresi, riscrive un periodo del nostro paese senza né storia né verità. Le bugie dello Stato, le montature contro gli anarchici, il buio che ancora avvolge la morte di Pinelli, scompaiono come in una foto sbianchettata

↳ Emidio Solfrizzi in Gli anni spezzati

La sto­ria la scri­vono i vin­ci­tori, e la tor­cono a pro­prio uso e pia­ci­mento. Il fat­tac­cio è noto, non c’è da sbi­got­tire o fin­gere scan­da­liz­zata sor­presa. Ai vinti, fin­ché non sono afoni, spetta il com­pito, sovente ingrato, di con­fu­tare e cor­reg­gere e ten­tare di impe­dire che le ver­sioni addo­me­sti­cate del pas­sato s’impongano come senso comune per i posteri. A volte gli riesce.

Gli anni spez­zati, il brutto film-tv dedi­cato da Raiuno al com­mis­sa­rio Luigi Cala­bresi stu­pra la sto­ria recente di que­sto Paese. Occorre segna­larlo senza strilli, senza fin­ger­sene stu­piti e, pos­si­bil­mente, senza attac­carsi a par­ti­co­lari in que­sto caso irri­le­vanti come «lo spe­ci­fico fil­mico» o lo scarso spes­sore psi­co­lo­gico dei per­so­naggi. Non è di Re Lear che qui si tratta né del Cit­ta­dino Kane, ma di un com­mis­sa­rio ammaz­zato per strada, san­gui­noso epi­logo di una sto­riac­cia che più tor­bida non si poteva e, allo stesso tempo, alba tra­gica di una fase sto­rica che di tra­ge­die ne avrebbe con­tate a mazzi.

Lo scopo del regi­sta Gra­ziano Diana non era pro­ble­ma­tiz­zare la figura della vit­tima: era san­ti­fi­care il mar­tire. Nulla di strano, dun­que, se il com­mis­sa­rio Cala­bresi appare il primo, se non l’unico, ad annu­sare il mar­cio, a subo­do­rare la mano fasci­sta die­tro la mat­tanza, se arriva addi­rit­tura a indi­vi­duare un pro­get­tato golpe e per­sino indica le respon­sa­bi­lità (peral­tro tutt’altro che accer­tate) dell’allora pre­si­dente del con­si­glio Rumor Mariano. Non si può chie­dere obiet­ti­vità a un san­tino in forma di filmetto.

Da una pro­du­zione sov­ven­zio­nata in parte dalle forze di poli­zia non si può nep­pure pre­ten­dere che dipinga le mede­sime come gente abi­tuata a usare la mano pesante, spesso a spro­po­sito. Giu­sto nella fase che nella fic­tion occu­pava quasi per intero la pun­tata ini­ziale, pri­ma­vera 1969, quella delle prime bombe, capitò ai ragazzi in gri­gio­verde di stec­chire due mani­fe­stanti a Bat­ti­pa­glia, e pochi mesi prima era stato il turno di due brac­cianti ad Avola. Particolari.

È già grasso che cola se almeno gli api­cali, al secolo i dot­tori Guida e Alle­gra, ci fanno la figura dei pesci in barile e di chi serra gli occhi per non vedere. C’è per­sino il caso che qual­che imberbe, alle prese per la prima volta con quella non lon­ta­nis­sima epoca, si fac­cia l’idea che ai tempi la poli­zia demo­cra­tica, almeno nei suoi ver­tici, forse tanto demo­cra­tica non era. Anche se non era certo que­sto il con­cla­mato intento degli autori-apologeti.

Tutto ciò andava messo nel conto già in par­tenza. La fal­si­fi­ca­zione gros­so­lana della verità sto­rica va rin­trac­ciata altrove, non nell’aura sacrale che cir­conda la poli­zia in genere e il pro­ta­go­ni­sta in par­ti­co­lare. La strage del 12 dicem­bre 1969 lacerò le coscienze più di qua­lun­que altra tra­ge­dia della sto­ria repub­bli­cana non tanto per l’enormità del delitto quanto per il ruolo di coper­tura, com­pli­cità, con­ni­venza e depi­stag­gio che gio­ca­rono subito dopo, e poi per anni, le isti­tu­zioni dello Stato: tutte e cia­scuna. La mon­ta­tura a freddo con­tro gli anar­chici. La morte in que­stura di un pove­rac­cio che non c’entrava niente e che era a tutti gli effetti dete­nuto ille­gal­mente, Pino Pinelli, pre­ci­pi­tato dalla fine­stra dell’ufficio del dot­tor Cala­bresi in corso d’interrogatorio. Le igno­bili men­zo­gne con cui la poli­zia, com­mis­sa­rio incluso, spiegò il fat­tac­cio: quel «balzo felino» verso il vuoto con tanto di elo­quente urlo, «È la fine dell’anarchia», che dalla sce­neg­gia­tura sono scom­parsi come da una foto sbian­chet­tata. Le con­clu­sioni della magi­stra­tura su quel miste­rioso decesso: deru­bri­cato da sui­ci­dio a non meglio spie­gato «malore attivo», e se qual­cuno capi­sce cosa signi­fi­chi è un cam­pione. Le impli­ca­zioni del ser­vi­zio segreto e l’aiuto offerto dallo Stato all’agente Gian­net­tini per­ché fug­gisse all’estero. Lo spo­sta­mento del pro­cesso dalla sua sede natu­rale a un porto delle neb­bie calabrese.

Tutto que­sto non venne fuori gra­zie alle intui­zioni di qual­che one­sto com­mis­sa­rio, ma sulla base di una con­tro­in­chie­sta svolta dal movi­mento di que­gli anni. Le innu­me­re­voli bugie non furono sma­sche­rate da qual­che inec­ce­pi­bile ser­vi­tore dello Stato ma da chi lo Stato com­bat­teva. La mon­ta­tura crollò sotto i colpi di un’opinione pub­blica che, per la prima volta, si armava degli stru­menti della con­tro­in­for­ma­zione e della mobi­li­ta­zione dif­fusa. La stessa cam­pa­gna con­tro il com­mis­sa­rio Cala­bresi non fu il frutto di una can­ni­ba­le­sca sete di lin­ciag­gio, fu il ten­ta­tivo di otte­nere una verità che il potere, futura vit­tima inclusa, inten­deva a ogni costo celare. Di tutto que­sto nel film dell’Istituto Luce andato in onda su Raiuno non c’era trac­cia. Per que­sto non c’erano tracce né di sto­ria né di verità.

Passi. La pro­pa­ganda è pro­pa­ganda: non le si chie­derà di essere altro. Ma nelle scritte finali, quelle che ricor­dano gli esiti di quelle vicende, i pro­cessi in cui sono stati con­dan­nati i lea­der di Lotta con­ti­nua per l’omicidio Cala­bresi, quelli nei quali non è mai stato con­dan­nato nes­suno per la strage, non c’è nep­pure una fra­setta scarna per segna­lare che con­ti­nua a cam­peg­giare il buio anche sulla morte di Pino Pinelli, fer­ro­viere anar­chico e galan­tuomo, arri­vato in que­stura sul pro­prio moto­rino, dete­nuto oltre i limiti di tempo con­sen­titi dalla legge, pre­ci­pi­tato chissà come, vili­peso e offeso nella sua memo­ria a suon di bugie immonde da chi era depu­tato a cer­care la verità. È l’assenza di quella frase a essere dav­vero imperdonabile.

 
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Pinelli, la Rai falsifica la storia

Post n°10901 pubblicato il 09 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

“Gli anni spezzati”, la peggio fiction

da Micromega


di Christian Raimo, da minimaetmoralia.it

La sera di martedì 7 gennaio su Rai Uno è andato in onda uno scempio, di cui la Rai dovrebbe chiedere scusa, e i politici o chiunque approvi sul servizio pubblico operazioni di questo tipo dovrebbe chiedere il conto. Insegno storia da cinque anni nei licei, e tutto il lavoro che io, come centinaia di migliaia di insegnanti di liceo e università, faccio per cercare di raccontare, far conoscere, semplificare, provare a condividere e indagare insieme, gli anni Settanta viene smerdato da una roba coma la trilogia-fiction intitolata “Anni spezzati”. Uno dei prodotti peggiori realizzati in Italia negli ultimi anni: un film non solo pessimo da un punto visto artistico e anche tecnico, ma risibile da quello documentario e storico. Un prodotto nocivo, venefico, viscidamente diseducativo.

Chi l’ha scritto, Graziano Diana (anche regista) con due autori alle prime armi – Stefano Marcocci e Domenico Tomassetti – ha evidentemente ritenuto opportuno prescindere da qualunque serietà di documentazione storica, appoggiandosi a riduzioni da sussidiario copiato male – non dico Wikipedia (che in molti casi è fatta molto meglio). Nei titoli d’apertura non dichiara nemmeno un nome di un consulente storico, nei titoli di coda ne cita tre, nessuno dei quali storico di professione (Adalberto Baldoni, Sandro Provvisionato e Luciano Garibaldi – la cui bibliografia è pubblicata da piccolissimi editori in odore di post-fascismo tipo Nuove Idee o Ares). 

Nelle interviste Diana dice che ha ascoltato le voci dei parenti delle vittime della violenza politica anni ’70: non so chi abbia ascoltato né come l’abbia fatto, ma quello che ne ha tratto sono degli sloganucci stereotipati che farebbero passare un bignami per un saggio storico complesso. Nelle interviste Diana dice di aver voluto raccontare quella storia dalla parte di chi, le istituzioni incarnate nelle forze dell’ordine, cercava il dialogo tra rossi e neri: non so che libri abbia letto sulle forze dell’ordine e le istituzioni italiane di quegli anni, non so su quali testi si sia formato la sua idea sugli apparati dello Stato, i politici, i partiti, i vari movimenti, ma se l’avesse scritta Cossiga nel sonno o Claudio Cecchetto, per dire, questa fiction, ci avrebbe messo più complessità.

L’idea di Alessandro Jacchia di raccontare attraverso lo sguardo di un poliziotto romano (la sua voce off!) le vicende complicate che girano intorno a Piazza Fontana, l’autunno del ’69, e la vicenda di Calabresi e Pinelli non è nemmeno revisionista: non è un’idea. È la suggestione di poter prendere la poesia di Pasolini su Valle Giulia, ricavarne un’interpretazione puerile, e pensare di applicarla, a mo’ di pomata, agli eventi di quegli anni: come se fosse una scelta narrativa, fino a realizzare una specie di spottone con toni da soap-opera, colletti larghi, sguardi fissi in camera.

La voce off nasale come una ciancicata tipo un personaggio di Verdone che ti commenta in modo situazionista le immagini di repertorio di una puntata de La storia siamo noi; i riassunti della macrostoria in cui non una sola parola si sottrae dai luoghi comuni (di pensiero e di linguaggio), dai peggiori luoghi comuni; i personaggi ridotti a figurine da vignette dellaSettimana Enigmistica; le discussioni politiche che sembrano parodie di uno sketch di Guzzanti o dei Gatti di Vicolo dei Miracoli; gli spiegoni (approssimativi, scritti malissimo, errati) ogni 30 secondi; le ragioni delle proteste azzerate a una forma di iperattività giovanile – gli anarchici sembrano gente affetta da sindrome da deficit di attenzione da curare col Ritalin; attori anche bravi come Solfrizzi, Bruschetta, Trabacchi, Calabresi costretti a pronunciare battute che sembrano dei verbali di polizia (Paolo Calabresi e Ninni Bruschetta in certi momenti – poveri! – sembrano dover espiare la loro protervia iconoclasta di Boris), ma anche attori molto meno bravi come il protagonista Emanuele Bosi – con una faccia da pubblicità di un dopobarba che deve dare corpo a un poliziotto di Primavalle nel 1969!; personaggi-cameo come Feltrinelli (vi prego guardate la scena con Feltrinelli e Calabresi…) che hanno la stessa intensità di Gigi Proietti-vigile quando fa lo spot di Vat 69 inFebbre da cavallo.

Confusione, una continua confusione, una virtuosistica confusione nella struttura narrativa; un montaggio da Chiquito e Paquito; un’eterna luce laterale per cui tutti gli attori vivono con metà faccia tagliata da un’ombra plumbea (volutamente omomorfica e omocromatica a quegli anni, spezzati e di piombo?); una ostentata misconoscenza di qualunque modello filmico che si è confrontato con la Storia della contestazione, del terrorismo, etc… – che siano quelli studiati da Cristian Uva o da Demetrio Paolin o da Vanessa Roghi & Luca Peretti, che siano film seminali come Anni di piombodi Margaret Von Trotta o prodotti derivativi come Romanzo di una strage (che avevo stroncato senza appello, ma che nel confronto riluce dello splendore di un Griffith); e la musica onnipresente più di quella che uno si ciuccia da Zara durante i saldi – una musica sempre enfatica, che vorrebbe inquietare, intervallata da pezzi dell’epoca scelti con il criterio di un jukebok andato in corto; e le basette collose, i capelli di Calabresi disegnati che manco Big Jim, il trucco, le parrucche, le scenografie… 

(Ditemi! Vi prego ditemi perché nei film italiani degli anni ’70 sembra che il mondo sia una specie di fondale in cui sono stati appiccicati un po’ di poster di Lotta Continua al muro e buttati qua e là nelle stanze dei libretti rossi! Perché in film iperglamour ipercitazionisti degli anni ’70 americani – andate a vedere quel capolavoro di American Hustle – nonostante l’omaggio enfatico all’epoca la scenografia risulta sempre credibile? Forse perché gli scenografi statunitensi non pensano che se uno mette in scena gli anni Settanta deve mostrare che Tutto è anni Settanta, ma ci saranno anche mobili anni Sessanta, anni Cinquanta, anni Venti?!); 

Più di tutto, è clamorosa la mancanza di visione politica nel fare un film del genere: paragonatelo con qualunque sceneggiato Rai degli anni ’70, lì ci troverete un’intelligenza, un coraggio, un desiderio civile, una volontà di indagare, di spiegare, una capacità di essere problematici, di avere una prospettiva sociologica – a tutto questo viene ipocritamente e colpevolmente sostituita una sorta di réclame analfabetizzata per la polizia che è tanto brutta da essere mortificante per chiunque abbia fatto politica attiva in quegli anni, ma persino umiliante per la polizia stessa e per chi viene raccontato in modo elogiativo (mi piacerebbe sapere il parere di Mario Calabresi che, pur raccontando come una specie di diario personale, da figlio, la vicenda del padre commissario, in Spingendo la notte più in là , riusciva a essere meno agiografico)…

Potrei anche continuare, ve lo assicuro. E questo scempio storico, artistico, cinematografico, narrativo, ce n’est qu’un debut, come mi verrebbe da dire: ci sono altre quattro puntate, due sul sequestro Sossi, due su Giorgio Venuti e la marcia dei quarantamila. Si può peggiorare, si può raccontare che le Brigate Rosse sparassero per provare le pistole, che Moro e Nathan Never sono la stessa persona e che il sogno dei dirigenti DC era quello di diventare anchor-man della tv per governare l’Italia con i messaggi subliminali delPranzo è servito, e che la marcia dei quarantamila era la prima vera manifestazione di fitness di massa che ha attraversato l’Italia. Sono pronto a tutto. A scuola, ai miei ragazzi, farò studiare la rivoluzione francese a partire da mie interviste-lampo fatte nel reparto surgelati del Todis su Robespierre e Danton e gli dirò che la Resistenza era un’associazione che faceva trekking sulle montagne per tenersi in forma dopo la guerra.

(9 gennaio 2014)

 
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Il Capitale Umano, Paolo Virzì risponde a Libero: “Farsa di basso conio”

Post n°10900 pubblicato il 09 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Da il fatto quotidianoUn paio di mezze frasi estrapolate da un’intervista di Natalia Aspesi per Repubblica e la storia raccontata dal regista livornese - tratta da un notevole romanzo americano di Stephen Amidon e impreziosita da un cast adeguato con Golino, Gifuni, Bruni Tedeschi, Bentivoglio e Lo Cascio - è immediatamente precipitata nel pantano della polemica localistica
Il Capitale Umano, Paolo Virzì risponde a Libero: “Farsa di basso conio”

Confessioni di un regista al bivio tra masochismo e paradosso: “Dopo 25 anni di cinema e undici film mi ero illuso di meritarmi una polemica seria. Volevo essere maltrattato sul contenuto, rispondere a un tema documentato, affrontare una critica oggettiva. Invece, niente. Mi ritrovo con farsa di basso conio una sbattuta su un orribile giornalaccio e una discussione grottesca sulle offese che una storia ambientata in una località immaginaria e inesistente avrebbe recato alla Brianza”. Pausa. Risata: “Siamo messi molto male, altro non riesco a dire se non che più che con me, forse al tempo se la sarebbero dovuta prendere con Mogol. Non era stato lui, scrivendo per Battisti, a sognare di fuggire dalla Brianza velenosa?”.

Un paio di mezze frasi estrapolate da un’intervista di Natalia Aspesi per Repubblica e la storia raccontata da Paolo Virzì ne Il capitale umano (tratta da un notevole romanzo americano diStephen Amidon e impreziosita da un cast adeguato con Golino, Gifuni, Bruni Tedeschi, Bentivoglio e Lo Cascio) è immediatamente precipitata nel pantano della polemica localistica. Virulente reazioni dagli assessori del centrosinistra comaschi, piccati controcanti polifonici dal leghismo monzese: “Non siamo così, basta con gli stereotipi”, un trasversale comizio regionalistico baciato dalla solita insperata coda di pubblicità occulta che Libero ama offrire agli avversari ideologici quando si entra, per usare le parole di Virzì: “In una zona oscura in cui il ragionamento è sopraffatto dai fantasmi della politica, del pregiudizio e del dipinto fantasioso delle presunte lobby che dominerebbero la vita pubblica. Non so in base a quale calcolo delirante ne farei parte, ma per quanto mi riguarda possono continuare a definirmi come vogliono”. Traslare con l’aiuto di Francesco Piccolo e di Francesco Bruni il Connecticut di Amidon in un’indefinita terra del profitto simile alle mille Lombardie del nostro Nord non gli è servito a evitare gli anatemi. Libero come di consueto ha lavorato di ellissi.

Occhiello in prima pagina: “Presunti intellettuali”. Titolo: “Soldi pubblici al film che insulta chi lavora”. Duro editoriale di Belpietro. All’interno (ridondanti) delizie per tutti i palati. Pagina 2: “Settecentomila euro a Virzì per insultare chi lavora”. Pagina tre: “Ci fanno la morale con i soldi nostri”. Pagina 5, sotto l’indicazione per i meno accorti: “Ciak si mangia”, il soave: “Ozpetek, Celestini e Pif, l’esercito dei mantenuti”. Virzì vorrebbe rimanere serio, si sforza: “Mi danno dell’intellettuale mantenuto, ma in verità, pur sentendomi un cinematografaro e tutt’al più un artistoide, devo dire che mi sbatto con alterne fortune da quando ho i calzoni corti e ho saputo dalla produzione senza emozionarmi particolarmente che avremmo fruito di un finanziamento pubblico che, come sa chiunque non faccia propaganda, deve essere restituito e può rivelarsi persino un affare per lo Stato che anticipa parte dei soldi”.

Detto questo, nell’eterna rivisitazione dei panni sporchi da lavare in famiglia, delle comunità che prendono cappello in presenza di uno specchio e del cinema cattivo maestro, Virzì ha una certezza: “Stiamo parlando di persone che non hanno visto il film e in definitiva, di nulla. Cercavo un posto che restituisse una bellezza inquietante, l’ho trovato, ho girato. Como non è davvero Como, laBrianza ovviamente non è la Brianza e il campanile in questa pseudo tavola rotonda non c’entra niente. Ho preso ispirazione dal luogo, nulla di più, come del resto mi è capitato di fare spesso proprio nel posto in cui sono cresciuto, Livorno”. Non risulta che gli abitanti dell’Ovosodo e della Corea abbiano mai protestato per come Virzì raccontasse con gusto per l’eccesso i talenti di certi abitanti dei due quartieri. “I personaggi assolutamente irragionevoli” della sua provincia. I Furio Brondi poi finiti “in comunità a intrecciare cesti di giunco” che nell’età ribalda si divertivano a staccare con i denti la testa alle lucertole e poi taglieggiavano “i bimbetti” nel cortile costringendoli a tradire il patto filiale: “Come sono le vostre mamme?”, “Troie”. O i Silvano Ciriello “chiamato Wyoming per una sua particolare abilità”. Ripetere ruttando il nome del meno popoloso tra tutti gli States, senza dimenticare di annoverare nell’arte già descritta da Omero anche “Aurelia, aiuola, aureola e Palaia che era il paese della sù mamma”.

Virzì ammette che per Livorno ha usato termini “sanguinosi”, ma a più di mezzo secolo da Il vedovoe dalla sua fotografia della società infestata da piccoli arrivisti e industriali lombardi travestiti da squali con villa in Brianza, aereo personale e panfilo, probabilmente non si aspettava un’aggressione da commedia all’italiana. Una diatriba “buffa e scomposta” che come già in occasione di Draquila di Sabina Guzzanti (all’epoca del capolavoro si occupò Sandro Bondi) offre al più credibile erede di Monicelli e Risi un tuffo involontario nel paradosso, un trampolino di luce gratuita sull’opera e un alterco da cui trarre prossima ispirazione. In un domani di reciproca comprensione Virzì crede il giusto: “A Belpietro vorrei dire: ‘Ti prego, fatti avanti, proponi una riforma culturale credibile e luminosa per il futuro e ti verremo incontro a braccia aperte’. Invece il livello della riflessione proposto da Libero è desolante, trionfa la demagogia e al bar sotto casa mia, con tutto il rispetto per baristi e avventori altrimenti si offendono anche loro, si vola molto, ma molto più in alto”.

Dal Fatto Quotidiano del 9 gennaio 2014

 
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USCITE DEL 09/01/2014

Post n°10899 pubblicato il 09 Gennaio 2014 da Ladridicinema
 

Locandina: 2 giorni a New York
2 giorni a New York(2 Days in New York)GENERE: Commedia
ANNO: 2012  DATA: 09/01/2014
NAZIONALITA': Belgio, Germania, Francia
REGIA: Julie Delpy
CAST: Julie Delpy, Chris Rock, Albert Delpy, Alexandre Nahon, Kate Burton, Dylan Baker
Locandina: Disconnect
Disconnect(Disconnect)GENERE: Drammatico, Thriller
ANNO: 2012  DATA: 09/01/2014
NAZIONALITA': USA
REGIA: Henry Alex Rubin
CAST: Jason Bateman, Hope Davis, Frank Grillo, Michael Nyqvist, Paula Patton, Andrea Riseborough
Locandina: Il capitale umano
Il capitale umano(Il capitale umano)GENERE: Drammatico, Thriller
ANNO: 2014  DATA: 09/01/2014
NAZIONALITA': Italia
REGIA: Paolo Virzì
CAST: Fabrizio Bentivoglio, Valeria Golino, Valeria Bruni Tedeschi, Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio, Vincent Nemeth
Locandina: Il Grande Match
Il Grande Match(Grudge Match)GENERE: Commedia
ANNO: 2013  DATA: 09/01/2014
NAZIONALITA': USA
REGIA: Peter Segal
CAST: Robert De Niro, Sylvester Stallone, Kim Basinger, Alan Arkin, Jon Bernthal, Kevin Hart
Locandina: Sapore di te
Sapore di te(Sapore di te)GENERE: Commedia
ANNO: 2014  DATA: 09/01/2014
NAZIONALITA': Italia
REGIA: Carlo Vanzina
CAST: Vincenzo Salemme, Giorgio Pasotti, Serena Autieri, Nancy Brilli, Eugenio Franceschini, Maurizio Mattioli
Locandina: Un compleanno da leoni
Un compleanno da leoni(21 and Over)GENERE: Commedia
ANNO: 2013  DATA: 09/01/2014
NAZIONALITA': USA
REGIA: Jon Lucas, Scott Moore
CAST: Miles Teller, Justin Chon, Sarah Wright, Daniel Booko, Jonathan Keltz, Samantha Futerman
Locandina: Peppa Pig, vacanze al sole e altre storie
Peppa Pig, vacanze al sole e altre storie(Peppa Pig, vacanze al sole e altre storie)GENERE: Animazione
ANNO: 2014  DATA: 11/01/2014
NAZIONALITA': Gran Bretagna

 
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