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Messaggi del 30/08/2014

 

Francesco Munzi: l'anima nera dell'Aspromonte da cinecittà news

Post n°11683 pubblicato il 30 Agosto 2014 da Ladridicinema
 

Andrea Guglielmino29/08/2014
VENEZIA – Il Lido non è nuovo a Francesco Munzi, che era già approdato qui nel 2004, in Orizzonti, con il suo esordio 'Saimir'
Oggi torna, ma in concorso, con Anime nere, thriller a tema ‘Ndrangheta’ tratto dall’omonimo romanzo di Giocchino Criaco, edito da Rubbettino Editore, che tornerà in libreria il 17 settembre, un giorno prima dell’uscita della pellicola con Good Films. Nel cast Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Fabrizio Ferracane, Anna Ferruzzo, Barbora Bobulova e l’esordiente Giuseppe Fumo, che in conferenza invita i suoi coetanei calabresi a “non seguire la strada della malavita, anche se non si trova lavoro”. “Ma ogni volta – dice il regista circa il suo ritorno alla Mostra – è come la prima. Emozionalmente parlando fai sempre il primo film”. 

Ci parli del rapporto tra la pellicola e il romanzo… 


Il libro mi è stato consigliato da amici e mi ha sostanzialmente fatto innamorare, tanto che per trasporlo ho rinunciato a un progetto a cui stavo lavorando. Mi ha colpito la sua carica emozionale e il fatto che, a differenza di altre storie analoghe che abbiamo visto negli ultimi anni, non esaltava il crimine pur adottando uno sguardo interno. E’ molto chiara la differenza tra le cose giuste e quelle sbagliate. Inoltre è stata l’occasione per esplorare la Calabria e l’Aspromonte, mondi che non conoscevo. 

Come ha approcciato quei luoghi e le loro difficoltà intrinseche? Si dice che non si possa girare un film da quelle parti senza pagare il pizzo… 

Studiando e ispezionando, come un documentarista, ancora di iniziare a delineare la sceneggiatura. Ero ossessionato dall’idea di realizzare il film proprio in quel posto. Mi sono detto che se fossi riuscito a rispettare il libro e il territorio, e le persone con cui man mano venivo in contatto, sarei riuscito a fare qualcosa di buono. Il crimine era un mantello, quel che contava era il cuore dei personaggi. Inizialmente avevo paura ma ho vissuto il film come un laboratorio e un esperimento. Tutti dicevano che ad Africo non poteva succedere niente di buono, io ho visto i locali che non avevano mai approcciato il cinema diventare attori bravissimi e integrarsi nella troupe, come manovali, come autisti. Significa piantare un seme buono per il futuro. Non ho incontrato le difficoltà che temevo, non abbiamo avuto problemi o censure. Avevo dei pregiudizi, lo ammetto, ma alla fine abbiamo lavorato addirittura con più facilità che in altri luoghi d’Italia. 

Quanto si è attenuto alla trama del libro? 

Come spesso accade in questi casi, per rendere al meglio il senso bisogna un po’ tradire. Il romanzo era ambientato tra gli anni ’70 e i ’90, io volevo fare invece una storia contemporanea. Inoltre i protagonisti nel libro sono amici fraterni, mentre io li ho avvicinati rendendoli fratelli veri e propri. 

Perché la scelta di girare in dialetto stretto, con sottotitoli? 

Non per vezzo estetico, per moda o per velleità di realizzare cose estreme. Credo che il dialetto facesse parte della trama. I calabresi si sentono ‘altro’ rispetto al resto d’Italia e anche del mondo, c’è una grossa barriera tra loro e il resto del paese. Anche se il film, spero, diventa poi universale, non il racconto di una guerra criminale ma l’analisi di cosa accade in una famiglia messa alla prova con una faida. Si parte dalla lotta con un clan rivale ma si finisce ad analizzare le lacerazioni interne della famiglia protagonista, che implode di fronte alla possibilità che una faida sopita da anni possa ricominciare. Abbiamo cercato di evitare gli aspetti più epici e mitizzanti. Si è trattato di trovare la mediazione tra il giusto sguardo empatico verso i personaggi e la distanza critica. 

Cosa vince alla fine? Ineluttabilità del fato o redenzione? 

Abbiamo discusso molto del finale, che naturalmente non rivelo. Lo abbiamo un po’ cambiato rispetto al libro. Certamente è un finale cupo ma secondo me ha una carica eversiva, è catartico e rompe gli schemi. Racconto un dramma, e dopotutto lo scontro tra fratelli è un archetipo. 

Uno dei tanti di una cultura ancora misteriosa, arcaica… 

Il libro in questo senso è una miniera. Avevo l’imbarazzo della scelta su cosa raccontare. Il protagonista Luciano è un personaggio che tende a tornare al passato, vuole restare lontano, in montagna, tra le pecore, non vuole abbracciare la modernizzazione e tutto ciò che essa comporta. Cerca una Calabria che non c’è più, ma è contraddittorio. In una scena compie un rituale con potenziali poteri curativi, bevendo la polvere della statua di un santo. Ma non si fida del tutto, ci aggiunge anche delle gocce medicinali. Una cosa o l’altra, faranno effetto… antico e moderno si fondono. E’ una montagna che fatichi a definire ‘regione’, per raggiungerla ci voglione le Jeep. Eppure c’è anche una tendenza a un moderno forse un po’ fasullo. Il criminale che si sente realizzato come malavitoso ordina per sé e gli amici delle ballerine di Lap-dance. 

Ha cercato di distanziarsi dall’”Effetto Gomorra”? 

Come riferimenti ho Rossellini e lo Scorsese di Mean Streets: anche le uccisioni e le scene forti le ho trattate in maniera sottile, cercando di limare il grado di spettacolarità. Però ha ambientato in una scuola una delle scene più toccanti. Mi piaceva il contrasto tra il dramma di ciò che stava accadendo e l’ambiente familiare e ‘materno’ che la scuole dovrebbe, in teoria, offrire. 

Cosa possiamo aspettarci dalla carriera di Munzi, a questo punto? Questo film è un punto di partenza o un punto di arrivo? 

Non so rispondere, non lo conosco ancora abbastanza, non ho preso le giuste distanze. Sono un istintivo e quando faccio un film non penso a un percorso. Posso dirle che l’ho molto sentito. Ha una natura di rottura, ma non è fasullo. 

Come ha lavorato sui personaggi, per renderli credibili? 

Una vecchia signora a cui è stato ucciso il figlio sputa in presenza dei carabinieri. Non è bello da vedere ma è quello che succede. C’è un sentimento anti-statale diffuso di diversi ceti della società meridionale. In realtà è una sorta di amore/odio, come un cugino da cui si cerca affetto che non si ottiene. Ma sentivo anche parlare di ‘colonia’ o di ‘invasione’. Non potevo falsare i personaggi. Siamo andati verso il realismo e una ‘normalizzazione’ dei personaggi. Non usano auto blindate come nei film americani. E’ tutto molto più semplice.
 

 
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Festival del Cinema di Venezia, la grande star è Al Pacino con due film da

Post n°11682 pubblicato il 30 Agosto 2014 da Ladridicinema
 

 

Pubblicato: 30/08/2014 16:33 CEST Aggiornato: 30/08/2014 16:33 CEST
AL PACINO

L'altro film in cui è impegnato Al Pacino è "The Humbling" in cui si racconta la parabola esistenziale di un attore sul viale del tramonto che trova consolazione esclusivamente nel desiderio erotico. Nel cast il protagonista è affiancato da Greta Gerwig, Nina Arianda, Barry Levinson e Dianne Wiest.

 

Tra i film in concorso, oltre a "Manglehorn", è stato presentato anche il francese "3 coeurs" di Benoît Jacquot sulla non facile storia d'amore tra Marc e Sylvie. Il regista ha spiegato così i temi della pellicola: "Si usa spesso la parola melodramma con un senso peggiorativo, ma è facile rendersi conto che dalle origini del cinema, molti grandi film sono dei melodrammi. La gente vuole piangere. I registi vogliono che il pubblico pianga sugli ostacoli, gli incidenti, le separazioni che fanno andare fuori fase l’armonia. Inconsapevolmente, la gente vuole versare lacrime di gratitudine... Dopo tutto il melodramma è contemporaneo".

Grande attenzione poi c'è stata per "Words with Gods", film presentato fuori concorso, composto da vari segmenti realizzati da un gruppo di registi, ciascuno dei quali racconta una storia sulla fragilità umana e sul rapporto di ognuno con le religioni. Nella sezione Orizzonti invece sono stati presentati il tedesco "Ich seh Ich seh (Goodnight Mommy)", lungometraggio firmato da Veronika Franz su due gemelli che mettono in dubbio l'identità della madre, e l'italiano "Senza nessuna pietà" che vanta tra i suoi protagonisti Pierfrancesco Favino, Greta Scarano, Claudio Gioè e Adriano Giannini.

Il trailer di "Senza nessuna pietà"

Il film, diretto dall'esordiente Michele Alhaique, racconta la storia di Mimmo (Pierfrancesco Favino), un muratore che viene risucchiato suo malgrado nel gorgo della criminalità della sua città. Una svolta avviene quando si innamora di Tania (Greta Scarano), una ragazza per cui vorrebbe mettersi alle spalle il suo passato e iniziare una nuova vita.

"Mi hanno sempre appassionato le storie di uomini che si battono contro le avversità per riscattarsi dalla loro condizione, e Senza nessuna pietà è una di queste storie", ha spiegato il regista Alhaigue. "Mimmo e Tania sono due individui solitari, due spiriti sconosciuti tra loro e a loro stessi, ma dall’incontro nasce qualcosa di unico. Il loro legame fuori dall’ordinario si svolge in una classica struttura noir, dove chi cerca non dà tregua a chi scappa. Ho lavorato per portare i personaggi ad avere un respiro ampio, con l’obiettivo di dare alla vicenda toni epici".

 
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Festival di Venezia, Sanguineti: “Andreotti, salvatore e censore del cinema italiano” da il fattoquotidiano

Post n°11681 pubblicato il 30 Agosto 2014 da Ladridicinema
 

Il critico porta al Lido il documentario sull'ex Dc "visto da vicino". Ha salvato l'Istituto Luce e riaperto Cinecittà quando "le produzioni americane avrebbero potuto spazzarci via". Ma ha formulato anche la morale sessuale, rivedendo alcune scene di nudo e di sesso
Festival di Venezia, Sanguineti: “Andreotti, salvatore e censore del cinema italiano”

Di Giulio Andreotti non avete capito nulla. Parola del critico, storico del cinema e della tv, Tatti Sanguineti che porta al 71esimo Festival del Cinema, nella sezione Venezia Classici, il documentario “Giulio Andreotti – Visto da vicino”. Una lunga carrellata di tantissimi ‘campi’, con il viso del celebre senatore a vita deceduto nel maggio 2013 nel salotto di casa, e non pochi ‘controcampi’ con immagini d’archivio tra Settimane Incom, film tagliati e foto d’epoca tra anni ’50 e ’60 che vedono Andreotti coinvolto in prima persona.

“Qualche giorno fa un importante quotidiano italiano ha parlato dei film di Pasolini. E nel pezzo citava le parole dette da Andreotti su Umberto D. ‘I panni sporchi si lavano in famiglia’”, quasi urla Sanguineti durante la conferenza stampa del film al Lido. “La frase si usa sempre in modo generico ma chi lo fa non sa davvero cosa successe in quel periodo”.

Correva l’anno 1947 e Giulio Andreotti diventava sottosegretario alla presidenza del Consiglio, governo De Gasperi, con delega allo spettacolo. L’incarico dura fino al 1953 e, secondo Sanguineti e il fido cointervistatore Pier Luigi Raffaelli, l’ex Dc dovrebbe essere ricordato per parecchie cose ‘buone’ regalate all’Italia e ancora di più al cinema italiano. Salva subito l’Istituto Luce e il suo archivio; riapre gli studi di Cinecittà (“senza manganellare i profughi istriani lì rifugiati”, spiega Sanguineti), riporta la Mostra del Cinema al Lido di Venezia. Ma soprattutto nel 1949 emana la legge di sostegno al cinema di casa nostra imponendo una tassa sul doppiaggiodei film americani e creando le premesse di una nuova classe di produttori e produzioni italiane.

“Mentre lavoravo ad un libro sull’ex comandante partigiano e comunista Rodolfo Sonego, lo sceneggiatore per eccellenza del democristiano Alberto Sordi, lo stesso Sonego mi disse: ‘Se vuoi capire cosa è successo nei primi anni del dopoguerra devi andare da Andreotti. Lui ha ammazzato cinque film, ma ne ha fatti nascere 5mila’”. Ecco allora 95 minuti di final cut – al montaggio l’attore e regista bolognese Germano Maccioni – dopo oltre 300 ore di girato tra il 2003 e il 2005, 21 sedute con domande e risposte.

“Tra il ’45 e il ’47 le produzioni americane avrebbero potuto spazzarci via – continua Tatti – Andreotti ci ha salvati e io gli ho reso giustizia. Non come Sorrentino che l’ha ritratto come Topo Gigio ne Il Divo, o Pif come plurimandatario degli omicidi di mafia ne La mafia uccide solo d’estate”. Così Andreotti rinasce a nuova vita da salvatore dell’industria patria e cinefilo appassionato: prima l’elogio al Dottor Jekyll e Mr. Hyde di Victor Fleming (“Mi ha sempre incuriosito nei film e nella vita la persona che è sia angioletto che demonio”, dice), la nascita della foglia di fico a coprire le pudenda del David fiorentino icona dei servizi ‘taroccati’ della Settimana Incom, le singole parole indesiderate scomparse dai film di TotòSordi e Raf Vallone, fino alla frase su De Sica – di cui però diventerà amico, come con la Magnani – e alla censura di Anni Facili “tra burocrazia corrotta e bustarelle era diffamatorio verso il nostro paese”.

Capitolo a parte la morale sessuale formulata dalla poltrona mentre Andreotti rivede alcune scene di nudo e di sesso: la passione per la Pampanini (“meglio dell’anoressica Isa Barzizza”), la censura de Il Diavolo in Corpo di Autant-Lara, fino all’“accoppiamento tra cavalli” di Ultimo Tango a Parigi e “alla monta taurina” del Grande Fratello (“Una cosa che contesto a Berlusconi è aver portato quel programma in Italia”). “Andreotti era del ’19, una generazione diventata adulta con i film fiammeggianti come Duello al sole ed era quindi attratto dai film con donne procaci”, chiosa Sanguineti. “Dopo di lui venne Oscar Luigi Scalfaro e fu più cattivo nel censurare”. Prodotto dall’Istituto Luce, il film è sostenuto e accompagnato a Venezia dal Comitato Giulio Andreottiche promuove immagine e storia del politico democristiano “tentando di divulgarne gli aspetti meno conosciuti”.

 
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