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Messaggi del 25/07/2015

 

Magic in the moonlight

Post n°12464 pubblicato il 25 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

Locandina Magic in the Moonlight

Berlino, 1928. Wei Ling Soo è un celebre prestigiatore cinese in grado di fare sparire un elefante o di teletrasportarsi sotto gli occhi meravigliati di un pubblico acclamante. Ma dietro la maschera e dentro il suo camerino, Wei Ling Soo rivela Stanley Crawford, un gentiluomo inglese sentenzioso e insopportabile che accetta la proposta di un vecchio amico: smascherare una presunta medium, impegnata a circuire una ricchissima famiglia americana in vacanza sulla riviera francese. Ospite dei Catledge sulla Costa azzurra e sotto falsa identità, si fa passare per un uomo d'affari; Stanley incontra la giovane Sophie Baker ed è subito amore. Ma per un uomo cinico e sprezzante come lui è difficile leggere dietro alle vibrazioni di Sophie un sentimento sincero. Un temporale e il ricovero della zia adorata, faranno crollare il razionalismo e le resistenze di Stanley: il soprannaturale esiste eccome e si chiama amore. 
Non va mai preso alla leggera un film di Woody Allen, anche se si presenta fresco ed estivo come una promenade lungo la Costa Azzurra. Perché il gusto che avvertiamo dopo averne goduto è sempre più complesso di quello inizialmente percepito. Nel suo cinema sono sempre i dettagli o le presenze marginali ad aprire gli spiragli che fanno intravedere la profondità di senso. Dietro alle coppe di champagne e alle maniere sofisticate, dentro i vestiti bianchi e le automobili decappottabili, sotto i cappellini a cloche, i temporali estivi e la comédie au champagne, quella dove lui e lei si conoscono, si detestano e poi finiscono col capitolare l'uno nelle braccia dell'altro, si prepara in fondo il crepuscolo della Jazz Age fitzgeraldiana e il collasso della Germania sotto i colpi della crisi e del nazismo. E Magic in the Moonlight apre proprio sul 'palcoscenico' di Berlino e davanti a un pubblico che a breve non vedrà più l'elefante nella stanza perché sceglierà di ignorarlo, ignorando col pachiderma una tragedia evidente. Nemmeno la magia può volatilizzare un elefante e una verità, la sparizione è soltanto un'illusione prodotta da un prestigio, una rimozione dal campo visivo che prima o poi ricompare, proprio come la madre di Sheldon-Woody nell'Edipo derelitto. Lo sa bene il mago very british di Colin Firth, che come il film possiede tutta la malinconia e l'esotismo di una cartolina postale. 
Non è certo la prima volta che Allen ricorre alla magia, che ha giocato d'altra parte un ruolo rilevante nella sua filmografia. Magia (Stardust MemoriesNew York StoriesAliceOmbre e nebbiaLa maledizione dello scorpione di giadaScoop) e divinazione (Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni) si impongono in primo piano e dentro le sue commedie, sublimando la dimensione comica e rivelando uno dei temi principali della poetica alleniana: la scelta. Il cinema di Allen arriva sempre al vicolo cieco dell'alternativa tra "orribile o miserrimo" (Io e Annie) o come per Magic in the Moonlight tra la vita vera e la sua illusione. Come ogni altro personaggio alleniano nemmeno Stanley Crawford troverà una risposta perché per il regista è più importante continuare a porsi nuove domande. Il protagonista di Colin Firth, un'implosione raffinata di cinismo e arroganza, sceglie allora lo slancio vitale, l'impulso irrazionale di agire e reagire dentro l'universo, "un luogo assolutamente freddo". Come l'arroseur arrosè dei Lumière, il prestigiatore finisce annaffiato dal suo stesso annaffiatoio e da un'avventuriera americana che sembra barare meglio di lui, provando che la magia non si trova sempre dove noi pensiamo. Così il suo razionalismo implacabile capitolerà sotto la luce brillante di Darius Khondji e lo charme preveggente di Emma Stone che, come il mago cinese di Alice, lo stana dalla codardia e lo porta a consapevolezza. Se i pessimisti sostengono che il nostro passaggio sulla terra è un disastro, l'avvenire non può essere che funesto e "l'eternità troppo lunga, specialmente verso la fine", esibendo soltanto la loro insofferenza e il loro malessere scoraggiante e lamentoso, gli ottimisti da par loro sono dei cretini assoluti, totalmente irragionevoli e privi di logica e di buon senso, proprio come la vecchia coppia sulla panchina di Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni. Così non resta che gettare la maschera cartesiana e ammettere di essere proprio come Sophie, non un essere candido magari ma nemmeno infame, che esercita la suggestione per ingannare e proteggere, la magia per rendere più piacevole la vita degli altri, il potere mistificatorio per richiamare i morti in vita, non quelli seppelliti ma quelli che vivono temporaneamente fuori dalla partita. Non datevi pensiero perciò se vedrete l'impostore rivelato pregare e implorare addirittura la misericordia divina in un momento di sconforto, è solo una boutade. Woody Allen non accetta mai il soccorso della religione ma non smette mai di trovarlo nell'illusione. L'illusione delle immagini, dei vecchi giochi di prestigio, di una bolla di champagne e di qualche nota jazz sul nero.

 
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Oldboy

Post n°12463 pubblicato il 25 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

 

Dae-su, sposato e con figlia piccola, è uomo dalle molte amanti e con il vizio dell'alcol. Una sera viene fermato dalla polizia per ubriachezza molesta. Non appena rilasciato, scompare nel nulla. Si risveglia in una squallida stanza, dove è tenuto prigioniero. Poco dopo, scopre che sua moglie è stata assassinata e lui è il principale sospettato. La sua prigionia dura quindici anni. Un tempo infinito, passato a covare un odio profondo verso il suo sconosciuto aguzzino e a prepararsi fisicamente alla vendetta. 
Benvenuti nell'incubo visionario di Chan-wook Park, regista di spicco, al fianco di Kim Ki-duk, della Nouvelle Vague del cinema coreano. Che non ha nulla da invidiare, quanto a tensione e suspense, al cinema di genere americano, ma spesso e volentieri lo supera in profondità e torbidezza psicologica e in crudezza del racconto. Un cinema di genere estremamente nero, quello firmato da Park, che sa farsi d'autore, seppur in maniera molto diversa dallo stile di Quentin Tarantino, che lo ha insignito a Cannes del Gran Premio della giuria da lui presieduta. È vero che il cuore di Oldboy è la vendetta, proprio come nella maggior parte dei film del regista di Pulp Fiction. Ma qui la violenza consumata nella corsa della vittima all'inseguimento del suo carnefice non lascia nessuna concessione al ludico. L'affannosa ricerca di Dae-su - interpretato dall'ottimo Choi Min-sik - a caccia della verità sul suo carceriere è faccenda estremamente seria per il regista, che ne lascia traboccare tutta la gravità, avvinghiando lo spettatore in un vortice di passioni malate sempre più livido e allucinato, con l'andamento lacerante di una tragedia greca alla "Edipo Re". Il salto nel vuoto dell'incubo torbido del protagonista - scandito da una musica che più adatta non poteva essere - toglie il fiato e lascia stremati. Sopraffatti da un mondo dominato dalla violenza e dalla follia di istinti bestiali, dove persino l'amore è sbagliato. Così, più Dae-su si avvicina al suo rapitore e alle ragioni delle sue azioni criminose, più la luce in fondo al tunnel si affievolisce. 
Lo stile di ripresa e montaggio accentuano il senso di angoscia claustrofobica e asfissiante provata da un protagonista che, tornato libero, si rende conto di essere ancora prigioniero, solo in una stanza più grande. La sua fuga di uomo braccato, spiato e controllato non può che esplodere in una memorabile rissa in piano sequenza, in cui Dae-su affronta da solo, a calci, pugni e martellate, un fitto branco di aggressori. Ma l'incubo non è finito, i colpi di scena sono dietro l'angolo e mozzano il fiato. L'unica concessione al colore, e alla vita, è quel rosso finale nel bianco della neve, simbolo di speranza e forse anche di riscatto, ma non di una nuova purezza, impossibile da raggiungere nel mondo sporco di Chan-wook Park. Autore di un cinema che si conficca nella pelle e nell'anima dei suoi protagonisti, come dei suoi spettatori.

 
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Miracolo a Milano da cineblog

Post n°12462 pubblicato il 25 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

Lunedì scorso, ossia il 14 Febbraio, noi di Cineblog abbia avuto l'onore, nonché il piacere, di assistere alla versione restaurata di una delle pellicole più importanti del cinema nostrano. L'allusione è aMiracolo a Milano, film di Vittorio De Sicarisalente al 1951, tratto dal libro di Cesare Zavattini - intitolato Totò il buono. Per l'occasione il nostro Vittorio apportò alcune modifiche in sede di trasposizione, specie in relazione al finale - ben diverso da quello pensato da Zavattini.

A presentare questa brillante "riesumazione", con annesso restauro, c'era Manuel De Sica (figlio di Vittorio), che tanto si è adoperato e continua ad adoperarsi per valorizzare certi film senza tempo. Ci soffermeremo a breve sulla valenza del meritorio impegno in cui si sta profondendo Manuel, non prima però di menzionare chi altri sono intervenuti in occasione del breve incontro che si è tenuto nella rinomata Terrazza Martini.

Tra i presenti c'è stata anche la figlia di Vittorio De Sica, ossia Emi, un'amabile e anziana donna con cui è stato davvero un piacere scambiare quattro chiacchiere. Inoltre, non poteva certo mancare il presidente di SEA - Aeroporti Milano, Giuseppe Bonomi, alla cui azienda si deve il finanziamento di questa felicissima operazione.

Poco sopra abbiamo accennato riguardo l'impegno di Manuel De Sica, a cui si deve già il restauro di un'altro immenso film di suo padre, ossia Ladri di Biciclette. Miracolo a Milano segna quindi la seconda parte di un percorso che ci auguriamo abbia davanti a sé ancora un lunghissimo cammino. Ma è lo stesso fautore a metterci in guardia riguardo il futuro: "non sempre la nostra sensibilità ha trovato, o trova tuttora, degli altrettanto appassionati interlocutori". Sono queste le parole, seppur tutt'altro che testuali, di Manuel, il quale da tempo va girando scuole medie e superiori al fine di sensibilizzare le generazioni più giovani circa il peso di questo tremendo patrimonio.

 

 

 

Non a caso sta già pensando, nonostante tutto, ai prossimi film che verranno sottoposti a restyling, ossia I bambini ci guardano (1943) e il ben più blasonatoSciuscià (1946), probabilmente in questo stesso ordine. Solo che in futuro, ci dice, spera di trovare favore presso lo Stato anziché cercare fondi da parte di privati. In ogni caso fa davvero piacere sapere che la promozione di pellicole così capitali proceda e non s'intenda arrestarlo proprio ora.

Tornando a Miracolo a Milano, è interessante riportare qualche aneddoto. Tanto per cominciare, in un primo momento il titolo sarebbe dovuto essere I poveri disturbano, che poi fu in secondo momento evidentemente accantonato. Non tutti, in un'epoca di neorealismo imperante, riuscirono a comprendere questo film, mentre altri fecero fatica a digerirlo. Da notare che si trattava del lavoro successivo di De Sica, nei panni di regista, dopo Ladri di biciclette, spaccato notoriamente celebre per la vena tristemente realista dell'Italia del dopoguerra.

Non volendo essere, per certi versi, "etichettato" come autore prevalentemente pessimista, Vittorio decise di lavorare su di una storia che si poneva agli antipodi rispetto al suo ultimo film. Optando per trama decisamente più edificante, come quella tratta dal libro dell'amico Zavattini, lasciò perplessi in molti. Alcuni arrivarono addirittura a credere, prima dell'uscita, che Miracolo a Milano fosse incentrato sulla figura di Sant'Ambrogio.

Tra qualche incertezza, però, il film uscì e, come spesso accaduto nella storia del nostro cinema, anche Miracolo a Milano riscosse molto più successo all'estero che qui da noi - nemo propheta in Patria, diceva Qualcuno. Tuttavia anche nel Bel Paese non mancarono coloro che ne rimasero piacevolmente colpiti, nonostante questi rappresentassero una minoranza, seppur incoraggiante.

Soffermiamoci un attimo, quindi, sulla trama - dato che a questo punto sembra correre l'obbligo per noi. Totò è un solare ragazzino rimasto orfano della madre/nonna adottiva, e che per questo motivo passa pressoché la sua intera adolescenza in un orfanotrofio. Cresciuto, si ritrova a dover affrontare il mondo senza conoscerne apparentemente le più basilari dinamiche. Il suo "spaesamento" è reso palese dai momenti immediatamente successivi alla sua uscita da quel luogo in cui ha trascorso buona parte della propria vita: saluta tutti; si comporta come se ognuno dei passanti fosse un suo amico.

In un modo o nell'altro, però, si troverà in un campo di senza-tetto. Lì comincerà a rimboccarsi le maniche, fino a dirigere (nel vero senso della parola) i lavori per la riqualificazione dell'area - come direbbero quelli che ne sanno in ambito edilizio. Ciò che colpisce, però, è sempre quel suo atteggiamento sognante, mai crucciato e costantemente disteso. Qualcosa che tende a superare l'umana concezione.

Non è un caso, infatti, se da molti verrà successivamente scambiato per un santo, anche in virtù dell'improvviso dono di elargire miracoli. E' chiaro che di mezzo c'è molto altro, su cui non vogliamo soffermarci proprio per invogliare coloro che non avessero ancora visto questo film a rimediare quanto prima. Miracolo a Milano, di primo acchito, ha tante facce: quella religiosa, quella politica, quella sociale e via discorrendo. Ma se sul piano politico non mise d'accordo quelle che all'epoca erano le compagini principali, e su quello sociale poneva una questione di cui malvolentieri si voleva discutere, è sotto il primo aspetto che ci sembra di cogliere la chiave di lettura più corretta e appagante.

La refrattarietà nascente verso simili messaggi era ancora in fase embrionale probabilmente, ma già abbastanza solida da bollare e rigettare certe opere. Alludere ad episodi così "straordinari" come miracoli, promesse di Regni venturi et similia, era davvero troppo per un'impostazione che tendeva ad esaltare l'ordinarietà di tempi che, piaccia o meno, non raccontavano nulla di buono.

Eppure quella di Miracolo a Milano, a tutt'oggi, ci pare una sfida vinta sotto ogni aspetto. Nel suo mescolare realtà ed immaginazione riesce a vincere i pregiudizi di chi si sente troppo ancorato alla prima o alla seconda, fuggendo la banalità e quanto di smielato possa evocare uno scenario come quello proposto. Non ingenuo ma semplice; non ottimista ma speranzoso: questo è ciò a cui riuscì a dare vita il grande Vittorio. Ed in fondo il suo messaggio, preso certamente in prestito, sta tutto in quella sfilza di scope che svolazzano attorno ad un Duomo così fortemente reale, per poi scomparire dietro quelle nuvole. Ed ecco apparire una frase, la calligrafia tipica di un bambino (non a caso scritta dalla figlia Emi, allora alunna delle elementari): "verso un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno!".

E se per le orecchie dell'epoca tutto ciò era troppo, figurarsi per quelle con cui ci troviamo a convivere ai giorni nostri...

 
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Jimmy's Hall

Post n°12461 pubblicato il 25 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

Locandina Jimmy's Hall - Una storia d'amore e libertà

Nel 1921, un'Irlanda sull'orlo della guerra civile, Jimmy Gralton aveva costruito nel suo paese di campagna un locale dove si poteva danzare, fare pugilato, imparare il disegno e partecipare ad altre attività culturali. Tacciato di comunismo era stato costretto a lasciare la propria terra per raggiungere gli Stati Uniti. Dieci anni dopo Jimmy vi fa ritorno e sono i giovani a spingerlo a riaprire il locale. Gralton è inizialmente indeciso ma ben presto cede alle richieste. Chi gli era stato ostile in passato torna a contrastarlo. 
Ken Loach torna nell'Irlanda che aveva messo al centro del suo cinema ne Il vento che accarezza l'erba e lo fa in modo apparentemente inusuale. Perché al centro di questa storia ci sono uomini e donne che difendono quello che un tempo avremmo definito un dancing. La musica che accompagna le dure immagini della Depressione americana potrebbe aprire un film di Woody Allen ma il contesto è e resta quello più amato dal regista inglese: la vita di uomini e donne che cercano nella condivisione di idee e di spazi quel senso della socialità che altri vorrebbero irregimentare per poterlo controllare il più possibile. Quello che Jimmy Granton (attivista socialista realmente esistito) edifica per due volte è di fatto un centro sociale ante litteram in cui si possono condividere saperi ma anche la gioia dello stare insieme. Definire 'peccaminose' le danze che vi si praticano è, per la chiesa locale e per gli esponenti della destra, solo un pretesto per impedire la circolazione di idee ritenute pericolose. Chi frequenta la Pearse-Connolly Hall è spesso anche un buon cristiano che partecipa alla messa domenicale. È proprio questo che va colpito e debellato da quel potere ecclesiastico che però, a differenza dei reazionari più retrivi, è ancora capace di comprendere l'onestà degli intenti dell'avversario. Il film esce in un tempo in cui a Roma siede un pontefice che ha dichiarato di saper ballare la milonga e di non sostenere ovviamente il comunismo ma anche di aver conosciuto tante brave persone che erano comuniste.Jimmy's Hall potrebbe piacergli.

 
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