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Messaggi del 28/11/2015

 

La scelta

Post n°12787 pubblicato il 28 Novembre 2015 da Ladridicinema
 

 
Locandina La scelta

Una coppia che si ama e cerca da anni di mettere al mondo un figlio vede distrutta la propria intesa in seguito a un trauma: la donna subisce uno stupro e, qualche tempo dopo, scopre di essere incinta. È inevitabile entrare nel dettaglio degli eventi che accadono nella parte iniziale del film per approfondire i temi che verranno poi trattati, poiché il discorso da fare sull'undicesima regia di Michele Placido è complesso. 
Per molti versi La scelta è un film antistorico: basato sul testo teatrale "L'innesto", che Luigi Pirandello propose al pubblico nel 1919, il film parla di maternità e di paternità in termini più comprensibili all'inizio del secolo scorso che nella contemporaneità. Poiché il dilemma centrale della storia è la capacità (o meno) dell'uomo di accettare un figlio che potrebbe non essere suo, entrano in gioco dinamiche che hanno a che fare con un senso primordiale dell'appartenenza biologica di un neonato al padre - giacché la madre è sempre certa, e di solito priva di dubbi sul suo ruolo - che sembrano appartenere ad un passato remoto. 
Se da un lato Placido è coraggioso e provocatorio nel suggerire che queste dinamiche ataviche non sono poi molto cambiate dal 1919 (per non dire dalla notte dei tempi), dall'altro quasi nulla nella sceneggiatura (co-firmata dal regista insieme a Giulia Calenda) va ad aggiornare le tematiche alle sensibilità dei tempi che, anche quando ammantate di ipocrisia di facciata, impongono un trattamento nuovo, meno granitico e meno improntato a considerazioni pratiche che nel '900 erano fondamentali per la stabilità sociale, come la protezione dell'asse ereditario o l'accettazione sociale dello stupro.
Nessuno, nemmeno en passant, commenta invece sul fatto che il femminismo, il '68, le famiglie allargate (pur presenti nel film) e decenni di sitcom televisive hanno ridefinito (almeno formalmente) alcuni tabù, come la violenza carnale come vergogna per la vittima, o la paternità come demarcazione fisica del territorio maschile. Persino l'ipotesi, davvero postmoderna, insita nel titolo del testo teatrale originale, "L'innesto", che suggeriva la possibilità di interpretare il cross breeding anche nel suo valore evolutivo, viene colta da Placido, che preferisce per il suo film un titolo più neutro (e meno carico di esplosività sociale). 
Ben diversa era stata, a questo proposito, l'operazione fatta da Luchino Visconti con L'innocente che, trattando il tema dell'accettazione paterna di un figlio non proprio, stravolgeva il racconto di Gabriele D'Annunzio innestandovi elementi di modernità legati ad una sensibilità anni Settanta - sensibilità cheVisconti nemmeno condivideva, ma di cui teneva conto, almeno a livello formale. Resta da chiedersi se abbia più senso restituire al cinema una storia che contiene forti elementi di modernità come L'innesto al suo stato puro, ignorando deliberatamente le variazioni dettate dal presente, o aggiornare il passato al presente come faceva Visconti con il testo dannunziano.
Meno controverso e cinematograficamente molto interessante è il modo in cui Placido applica quelle tecniche da cinema di genere, inteso come cinema d'azione, che gli sono più consone, alla messa in scena di un melodramma (benché la definizione originaria de L'innesto fosse quella di "commedia drammatica"). Il risultato è un film sentimentale ma nerboruto, che sfida l'assunto (quello si, implicitamente sciovinista) che una storia d'amore il cui asse portante è la maternità sia "roba da donne" e dunque vada trattata in modo meno muscolare e sanguigno di un western o un poliziesco.
Anche la recitazione dei due protagonisti merita una riflessione che va al di là delle apparenze (a ben guardare, uno dei temi centrali del film): se Ambra Angiolini è molto più potente, profonda ed efficace di Raoul Bova, che recita sopra le righe con mimica facciale ridotta, ai fini della storia non è un male. Per fare un paragone altissimo, anche in Eyes Wide Shut il marito ottuso era interpretato da Tom Cruise con comica piattezza, ma questo serviva a dare la misura di quanto più sottile, e più in accordo con l'essenza della vita, fosse la moglie, abbastanza coraggiosa da inforcare gli occhiali, invece di chiudere gli occhi.

 
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Le due vie del destino

Post n°12786 pubblicato il 28 Novembre 2015 da Ladridicinema
 

 
Locandina Le due vie del destino - The Railway Man

Inghilterra, 1980. Eric Lomax, uno strano tipo ossessionato dagli orari ferroviari, incontra in treno la bella Patti. È amore a prima vista, e poi matrimonio. Ma la prima notte di nozze iniziano i guai: Eric è in preda agli incubi, e rifiuta di raccontarne a Patti il contenuto. Singapore, 1942. Winston Churchill dichiara la resa della città-stato ai giapponesi. Migliaia di soldati britannici vengono fatti prigionieri e costretti a lavorare come schiavi (insieme ai più poveri abitanti locali) alla costruzione della ferrovia che dovrà collegare Bangkok a Rangoon. La chiameranno la Ferrovia della morte per le condizioni di lavoro, climatiche e geografiche in cui è stata costruita e perché vi sono effettivamente periti metà di coloro che vi hanno lavorato.
Fra i prigionieri addetti alla costruzione della ferrovia ci sono anche Eric e i suoi compagni, e il trattamento loro riservato è dei più crudeli, sfociando per Eric in una detenzione nella caserma della polizia segreta, la temutissima Kempeitai, ove il giovane soldato subirà ogni sorta di torture. Inghilterra. 1980. A popolare gli incubi di Eric è soprattutto il poliziotto giapponese che è stato il suo aguzzino alla Kempeitai. La moglie Patti, con l'aiuto del compagno di disavventura Finley, spingerà Eric a ricollegare i fili spezzati del proprio passato, con esiti del tutto imprevisti.
Le due vie del destino è basato sul romanzo autobiografico The Railway Man scritto dallo stesso Eric Lomax e diventato un best seller internazionale. Colin Firth si cala con totale partecipazione emotiva nel ruolo del protagonista, mettendo a buon frutto la scorta di umanità che caratterizza da sempre la sua recitazione, e Nicole Kidman mette la sua professionalità (ma poco di più) al servizio del suo cammeo nel ruolo della moglie Patti.
Il film procede secondo una narrazione classica da grande cinema di guerra, alternando gli anni Ottanta agli anni Quaranta e immergendoci profondamente nell'atmosfera allucinata vissuta dai prigionieri di guerra durante il conflitto mondiale. I punti di riferimento cinematografici sono Il ponte sul fiume Kwai diDavid Lean - per difetto, perché quello raccontava una favoletta consolatoria, elduendo la realtà terribile del conflitto - e Furyo di Nagisa Oshima, assai simile invece nel raccontare il rapporto fra prigionieri inglesi e soldati giapponesi, nonché la crudeltà della detenzione. 
La posta in gioco è la dignità umana, i temi sono il senso dell'onore, la fedeltà al proprio ruolo, l'orrore della guerra, il potere salvifico dell'amore. E la storia è raccontata in toni melodrammatici sottesi da una grande tensione morale e dotati di una forte capacità evocativa - della paura e dell'umiliazione - nella costruzione delle immagini di prigionia. Le scene di tortura sono quasi insopportabili, non in quanto eccessivamente esplicite, ma in quanto emotivamente dirompenti. Alla narrazione contribuisce in modo significativo l'accompagnamento sonoro, uno dei migliori visti nel cinema recente: mix suggestivo di rumori, silenzi, respiri, musiche, graffi radiofonici, fischi, sussurri e grida in lingue straniere, terrorizzanti nella loro indecifrabilità. Girato in gran parte nei luoghi in cui si è svolta la storia, e che trasudano ancora orrore e sofferenza, Le due vie del destino è una denuncia esplicita dell'inutilità crudele delle guerre e una parabola edificante (detto in senso non denigratorio) sulla capacità umana di resistere all'irresistibile e sulla volontà di rompere il silenzio su ciò di cui "nessuno parla".

 
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La luna su Torino

Post n°12785 pubblicato il 28 Novembre 2015 da Ladridicinema
 

Locandina La luna su Torino

A Torino, città che ci viene ricordato essere sul 45° parallelo, ovvero equidistante dal Polo Nord e l'Equatore, un universitario che lavora al bioparco e l'impiegata di un'agenzia di viaggi dalla vita sentimentale incerta, abitano nella grande casa di un amico 40enne che non ha lavorato un giorno in vita sua e campa di rendita. Insoddisfatti da ciò che hanno ma anche incapaci di immaginare una vita diversa i tre cercano di barcamenarsi.
C'è un'innegabile eco di Dopo mezzanotte in La Luna su Torino, in cui di nuovo le coordinate geografiche (stavolta non la Mole ma la linea del 45° parallelo), il cinema muto e i sogni di un domani sentimentale e umano migliore di tre giovani sono gli elementi che, mescolati anarchicamente, danno vita a un film che cerca di tradurre nella modernità il cinema in cui la trama è funzionale ai personaggi e non viceversa. Quel che ha di originale la nuova opera di Davide Ferrario è invece la scelta di separare i tre personaggi, coinvolgendoli in storie diverse ma contigue, in cui manifestare tre facce diverse di un'inspiegabile insoddisfazione e una sempre più urgente esigenza di cambiamento. 
Ma è con pochissima ispirazione che il regista di Torino gioca su terreni a lui congeniali (di nuovo la propria città, di nuovo temi di uno dei suoi film più noti), aspirando a raccontare l'inesprimibile, il sublime scrutare in quella parte dell'animo che il cervello non riesce a leggere chiaramente e che il cinema ambisce a comunicare senza passare per la logica. Il mondo di La Luna su Torino è luddista, altero, lontanissimo dalla realtà ma nemmeno così significativo da riuscire a parlarne per metafora (il riferimento molto sbandierato dell'equidistanza tra Polo Nord e Equatore in primis è un accostamento dal senso quasi nullo). Una dimensione, quella in cui si muovono i personaggi, non diversa dal casale ricco e in rovina in cui abitano, isolato e gestito con implausibile allegra opulenza che non necessita di lavoro.
Qualunque altra storia di scollamento dalla realtà, di ansia per il mancato raggiungimento di aspirazioni cui non si sa dare un nome sarebbe risultata più accettabile delle tirate passatiste con cui Ferrario condisce il film. Citazioni letterarie di spessore, dimostrazioni intellettuali, disprezzo manifesto per ciò che è lontano dal raffinato e un abuso continuo di tutte le armi stereotipiche della cultura cinefila, ridotta ai suoi elementi più di nicchia, alteri e snob (dal cinema muto alla francofonia) sono la coperta di un film che sotto nasconde pochissimo e pare essere fatto per conquistare solo con la sua superficie colorata, fatta di inquadrature sghembe, dipinta per rappresentare le aspirazioni del proprio pubblico d'elezione, tenendo a distanza ogni possibile ingerenza della cultura più dinamica e moderna ben simboleggiata dagli anime giapponesi che Ferrario chiama manga e fa identificare a personaggi che dicono d'amarli unicamente con il sonoro gaudente dell'animazione erotica.

 
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