Creato da: Ladridicinema il 15/05/2007
Blog di cinema, cultura e comunicazione

sito   

 

Monicelli, senza cultura in Italia...

 
 

Area personale

 

Archivio messaggi

 
 << Gennaio 2017 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
            1
2 3 4 5 6 7 8
9 10 11 12 13 14 15
16 17 18 19 20 21 22
23 24 25 26 27 28 29
30 31          
 
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti possono pubblicare commenti.
I messaggi e i commenti sono moderati dall'autore del blog, verranno verificati e pubblicati a sua discrezione.
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

tutto il materiale di questo blog può essere liberamente preso, basta citarci nel momento in cui una parte del blog è stata usata.
Ladridicinema

 
 

Ultimi commenti

Contatta l'autore

Nickname: Ladridicinema
Se copi, violi le regole della Community Sesso: M
Età: 40
Prov: RM
 
Citazioni nei Blog Amici: 28
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 

FILM PREFERITI

Detenuto in attesa di giudizio, Il grande dittatore, Braveheart, Eyes wide shut, I cento passi, I diari della motocicletta, Il marchese del Grillo, Il miglio verde, Il piccolo diavolo, Il postino, Il regista di matrimoni, Il signore degli anelli, La grande guerra, La leggenda del pianista sull'oceano, La mala education, La vita è bella, Nuovo cinema paradiso, Quei bravi ragazzi, Roma città aperta, Romanzo criminale, Rugantino, Un borghese piccolo piccolo, Piano solo, Youth without Youth, Fantasia, Il re leone, Ratatouille, I vicerè, Saturno contro, Il padrino, Volver, Lupin e il castello di cagliostro, Il divo, Che - Guerrilla, Che-The Argentine, Milk, Nell'anno del signore, Ladri di biciclette, Le fate ignoranti, Milk, Alì, La meglio gioventù, C'era una volta in America, Il pianista, La caduta, Quando sei nato non puoi più nasconderti, Le vite degli altri, Baaria, Basta che funzioni, I vicerè, La tela animata, Il caso mattei, Salvatore Giuliano, La grande bellezza, Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Todo Modo, Z - L'orgia del potere

 

Ultime visite al Blog

ILARY.85JOM53vento_acquaalex.18trancoacer.250AVV_PORFIRIORUBIROSATEMPESTA_NELLA_MENTESense.8cassetta2surfinia60monellaccio19iltuocognatino1mario_fiyprefazione09LiledeLumiL
 

Tag

 
 

classifica 

 

Messaggi del 14/01/2017

 

Joker wild card

Post n°13556 pubblicato il 14 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 


Nick Wild è un ex marine contagiato dalla passione per il gioco d'azzardo. Si dedica ora alla protezione di ricchi desiderosi di provare i brividi che può offrire Las Vegas, città che lui spera di lasciare al più presto. Quando una sua ex, la giovane Holly, viene massacrata di botte Nick accetta di sostenerla nel suo desiderio di vendetta nei confronti del boss Danny DeMarco.
Al suo terzo film per la regia di Simon West, Jason Statham affronta un personaggio che è la summa di altri che hanno affollato l'immaginario del cinema americano e non. Il Ben di Figgis voleva andare Via da Las Vegas. Il Burt Lancaster di Louis Malle si muoveva tra droga e mafia in quella che avrebbe potuto diventare una metropoli del tavolo verde: Atlantic City U.S.A. mentre i simpatici truffatori di Soderbergh sostenevano i progetti della loro guida Ocean. Questo solo per fare alcuni esempi della sterminata serie.
La Las Vegas soderberghiana ha pochi riscontri in questo film se non nella figura dell'impacciato figlio di papà che impara in presa diretta qualcosa su di sé che gli servirà per il futuro. Quello che emerge è invece un ruolo complesso per Statham che va dall'intimistico al violento sconcertando probabilmente chi in un film cerca la linearità narrativa. Perché il suo Nick è al contempo l'uomo che ha rinunciato a vivere, quello che ha un sogno che vorrebbe veder realizzato, quello disposto a rischiare la vita per aiutare chi un tempo gli è stato vicino e l'addicted al gioco d'azzardo. Perché il cinema è sempre stato attratto dal tappeto verde e dai gesti che accompagnano la salita all'empireo della vittoria o la discesa agli inferi della perdita di tutto. West riesce ad essere particolarmente concentrato nelle sequenze in materia e il contrasto con quelle di azione costituisce uno dei punti di forza di un film che è un remake di Black Jack (da un romanzo di William Goldman che firma anche in questo caso la sceneggiatura) che aveva come star Burt Reynolds. Statham non teme il confronto.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Un'occasione da dio

Post n°13555 pubblicato il 14 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 

Locandina Un'occasione da Dio

Il pianeta Terra sta per essere distrutto da un gruppo di alieni che si ritengono dotati di una moralità superiore. Come da prassi, prima di passare all'attacco mettono alla prova la specie che intendono estinguere, dandole un'ultima possibilità. Casualmente scelgono uno degli umani che, inconsapevole, sarà investito di un'enorme responsabilità: salvare la Terra. L'uomo pescato dal mazzo è Neil Clark, un insegnante inglese con ambizioni da scrittore frustrate. Gli alieni danno a Neil un'occasione da Dio: può realizzare tutto ciò che desidera. Gli basta dirlo e muovere la mano. Se il terrestre utilizzerà questo potere straordinario per fare qualcosa di buono, il pianeta verrà graziato. Altrimenti sarà raso al suolo.
Alzi la mano chi non ha mai sognato di poter realizzare tutti i suoi desideri con un solo cenno. Da non dover più svolgere le noiose incombenze domestiche a essere stimati dal proprio capo, da diventare milionari a ricoprire la carica di presidente degli Stati Uniti, ogni scusa è buona per agitare la lampada di Aladino. Oppure, molto più semplicemente, si può essere un po' sfigati e innamorarsi della bella vicina del piano di sotto, quella che non si sa proprio come fare a invitare a cena. È il caso del nostro protagonista, un affabile e disilluso insegnante, costruito apposta per suscitare empatia e per combinarne di tutti i colori alle prese con l'improvvido potere divino. Sempre bonariamente parlando, perché questa è una commedia dove trionfano i buoni sentimenti e dove i cattivi non fanno mai paura sul serio. Elegia dell'uomo qualunque e dell'amicizia uomo-cane, questo film ha il sapore di un'ingenuità vecchio stile, così lontana dalla sprezzante e corrosiva comicità in voga oggi. 
Scritta e diretta da Terry Jones - membro del gruppo comico inglese dei Monty Python - questa commedia sa far ridere in maniera spontanea, anche quando ci si vorrebbe trattenere di fronte al ridicolo poco sofisticato, seppur mai volgare, di certe scene. Trionfo di una leggerezza anni Novanta che appare ormai superata, questo film ha una sceneggiatura improbabile e un andamento prevedibile, ma punta sul candore stilistico e sulla capacità di un interprete rodato, Simon Pegg, che veste a pennello i panni dello sfigato professore innamorato e pasticcione, spalleggiato dal suo fedele cane che ha una voce di tutto rilievo, quella di Robin Williams nel suo ultimo lavoro cinematografico. Al contrario, Kate Beckinsale si prende fin troppo sul serio, in un film dove un uomo medio può resuscitare i morti o far sì che i bisogni del suo cane si auto-puliscano. Se quello che cercate è una comicità cattiva, avrete sempre la possibilità di provare ad agitare la mano per smaterializzarvi dalla sala.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Doppio delitto da filmtv.it

Post n°13554 pubblicato il 14 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 

Giallo annacquato firmato Steno, il cast è la sua sola attrattiva.

Il commissario Bruno Baldassare lavora all’Archivio dei corpi di reato per una stronzata compiuta per gioco e “guasconeria” agli occhi del figlio. Cinque anni dopo è separato e il figlio quasi non capisce l’insano gesto. Un doppio delitto, avvenuto in contemporanea nei pressi di un vecchio palazzo signorile del cuore di Roma, è occasione di riscatto. L’indolenza, il fare e le indagini sornione sono le caratteristiche di questo poliziotto molto umano e poco acuto. A furia di insistere e di ascoltare indizi e suggerimenti, prendersi qualche sbandata…sbagliata riesce a venirne a capo. Le vittime sono un principe proprietario dello stabile e il suo autista ed elettrotecnico. Gli inquilini i principali indiziati, tra gli altri: uno sceneggiatore americano molto fantasioso; la vedova del defunto, ex attrice ed amica di Henry; Teresa, avvenente attivista di sinistra con un segreto familiare; uno scultore eccentrico e il debosciato. Baldassare, armato di ombrello e Marlboro, indaga con discrezione aiutato dall’imbranato sottoposto Cantalamessa.

 

 

Locandina

Doppio delitto (1977): Locandina

 

 

Le cose più gustose di DOPPIO DELITTO sono i duetti di Mastroianni (un Santamaria di Fruttero & Lucentini meno grintoso) con l’istrione Peter Ustinov e il simpatico Gianfranco Barra. Non male anche i botta e risposta politici con Teresa, interpretata da Agostina Belli doppiata da Vittoria Febbi. Bravissimo Mario Scaccia nei panni di un libraio che risponde citando titoli di libri e che non sa tenersi er sorcio in bocca. Luciano Bonanni in versione gay. Giuseppe Calboni Anatrelli il capo di Bruno. La trama scritta da Age & Scarpelli con Steno svogliato regista (conservatore) non intriga mai. Decisamente migliori i successivi e similari gialli rivestiti di commedia diretti da Sergio Corbucci. Neanche le musiche di Riz Ortolani convincono in questo DOPPIO DELITTO, discreto e leggero leggero.

 

 

Ursula Andress, Marcello Mastroianni

Doppio delitto (1977): Ursula Andress, Marcello Mastroianni

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

La regola del gioco

Post n°13553 pubblicato il 14 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 

Locandina La regola del gioco

Quando l'avvenente pupa di un boss del narcotraffico avvicina il reporter Gary Webb, l'ultima cosa a cui questi pensa è di essere vicino a uno scoop sensazionale. E invece, risalendo la catena alimentari degli spacciatori nicaraguensi arriva a scoprire un verità che scotta: la CIA consentiva o agevolava lo spaccio negli Stati Uniti per finanziare i Contra in chiave anti-sandinista. Quando Webb pubblica il suo dossier il bubbone scoppia: prima piovono consensi ed elogi, ma ben presto la CIA passa al contrattacco e la vita privata e professionale di Webb diventa insostenibile.
Una storia molto più che interessante: una sferzata sull'addome di zio Sam, che colpisce là dove il dolore è maggiore. Una delle pagine più oscure della cosiddetta esportazione della libertà statunitense, che, di fronte al rischio tangibile di un Centro America sempre più comunista, ha fatto ricorso a ogni tipo di mezzo, legale o illegale, per arrestare l'ondata. Ma il risvolto più doloroso dell'inchiesta di Gary Webb riguarda le vittime sacrificali del meccanismo, le solite: i neri di South Central, L.A., i più disagiati e bisognosi in generale, offerti in pasto alla servitù della droga pur di ungere la macchina dell'anti-comunismo. Di fronte a una verità così scomoda non si fatica a comprendere le ragioni della persecuzione della CIA ai danni di Gary Webb. Ma è solo uno degli elementi su cui si concentra l'attenzione della trasposizione cinematografica del libro di Nick Schou, affidata alla regia di Michael Cuesta (Six Feet UnderHomeland): la pubblicazione di Dark Alliance, il casus belli giornalistico, avviene circa a metà film e pari attenzione viene dedicata allo sviluppo dell'indagine e alle conseguenze della pubblicazione del dossier. 
Purtroppo, nonostante un soggetto di ferro, puro materiale da cinema di denuncia della New Hollywood, e un cast memorabile, che affianca a Jeremy Renner caratteristi irriducibili come Ray Liotta, Andy Garcia e Oliver Platt, la trattazione della materia lascia a desiderare, principalmente a causa dell'adattamento di Peter Landesman (Parkland). La parte di reportage avvince, riuscendo a comunicare la necessaria tensione e compartecipazione emotiva - in primis il momento in cui Webb scende dall'auto a South Central, sfidando il pericolo per constatare fino in fondo gli effetti devastanti che derivano da una società divisa in caste, in cui i paria possono fungere da vittime sacrificali per un interesse più elevato. Ma è l'indagine nel privato di Webb a denotare una fragilità da racconto televisivo, un quasi-mélo di vita familiare che ricorre a semplificazioni e forzature evidenti, finendo per diluire la forza di un'indagine temeraria. Infine la rinuncia al racconto per immagini del tragico epilogo e della prosecuzione giudiziaria della vicenda, in cui il regista quasi sceglie di ritrarsi e di comportarsi come gli agenti segreti del film, che più volte avvertono Webb di non avvicinarsi a temi "troppo sensibili". Cuesta preferisce chiudere su una nota di speranza e di orgoglio residuo, contribuendo anche lui, a suo modo, a "insabbiare" i postumi dell'indagine, anziché denudarla nei suoi aspetti più sgradevoli e gridare al mondo che un uomo è morto nel tentativo di raccontare una verità sepolta da più di dieci anni. 
Se La regola del gioco (terribile traduzione italiana di Kill the Messenger, che rievoca in maniera insensata il capolavoro di Renoir) riesce a salvarsi e a mantenere il vigore di una denuncia fondamentale, lo si deve quasi interamente all'interpretazione di un attore sin qui sottoutilizzato come Jeremy Renner, credibile dalla prima all'ultima scena in un ruolo di ostinato autolesionista che richiama in parte l'indimenticabile William James di The Hurt Locker.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Predestination

Post n°13552 pubblicato il 14 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 

Locandina Predestination

Un agente della polizia temporale indaga su un caso di terrorismo. C'è una bomba pronta ad esplodere in un certo luogo e in un certo punto del tempo, eppure non riesce ad impedire la detonazione nonostante i tentativi che quasi gli costano la vita. I molti viaggi che deve compiere lo portano ad incontrare, reclutare e parlare con diverse persone che forse lo possono aiutare nella missione, tuttavia il continuo muoversi lungo la linea tempo sta cominciando a creare un po' di confusione nella sua testa.
Pensato come un rompicapo filmico, Predestination non nasconde fin dalla prima scena il meccanismo di svelamento parziale di ogni movimento su cui si basa. Per adattare "Tutti i miei fantasmi" di Robert Heinlein, i fratelli Spierig scelgono la strada impervia del gioco a nascondino con il pubblico. La medesima trama che su carta stampata si avvantaggia dell'impossibilità per il lettore di "vedere troppo", lasciando che descrizioni parziali creino quei buchi necessari allo svelamento che verrà, sullo schermo deve vivere di inganni continui. I volti, i fisici, le persone e i ritorni che lo spettatore potrebbe riconoscere da subito (di fatto rovinando il successivo effetto sorpresa), sono celati, mascherati, truccati o resi irriconoscibili con un armamentario di trucchi che vanno ai più poveri ai più ricchi.
C'è un'ambizione smisurata in quest'idea di cinema, quella di realizzare un'opera che sembra impossibile da mettere in scena mantenendo segreto il finale. Lo stesso i fratelli Spierig si imbarcano con ardimento nell'impresa di rendere semplice e diretta una trama che è esattamente il suo contrario, tentano di comunicare per immagini quel che sembra possa avere effetto solo a parole. Il risultato è ambiguo, vive di ottimi momenti e idee molto forti (il clichè del viaggio nel tempo è reso attraverso una suggestiva sparizione subitanea e potente, come se l'essere umano smettesse di esistere fragorosamente) ma anche di una certa fatica nelle lunghe spiegazioni e spesso di un po' di pigrizia, come nel caso del lungo racconto effettuato da uno dei personaggi, che di fatto abdica alla parola quel che spetterebbe alla messa in scena.
Il gioco del gatto col topo che Predestination conduce con lo spettatore forse necessitava di un minimalismo e una maestria più alte per raggiungere la perfezione, ma è indubbio che la coerenza con la quale Michael e Peter Spierig scrivono e dirigono questa piccola chicca di fantascienza travalichi i limiti del genere. Appassionati di labirinti mentali, ampi scenari fantastici in cui muovere i personaggi e piccoli mondi a parte come quello alternativo di Daybreakers, i due autori stavolta hanno animato un universo tra il noir e la fantascienza con la perizia degli ingegneri.
Il loro è cinema di architettura, film come cattedrali, apparentemente semplici ma sorretti da meccanismi complessi che la narrazione si sforza di rendere comprensibili. In questo caso la furia dei molti viaggi nel tempo del protagonista provoca un continuo spaesamento, che però suona corretto. Gli spettatori come il povero viaggiatore vivono spesso di una inconsapevolezza confusionaria, incapaci di comprendere al volo luogo e tempo dell'azione si trovano in una storia di cui comprendono solo piccoli pezzi, almeno fino al finale.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

san andreas

Post n°13551 pubblicato il 14 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 

Locandina San Andreas

La faglia di Sant'Andrea si sta animando e il terremoto previsto è il più disastroso di sempre. Un gruppo di sismologi è riuscito a prevederlo e annunciarlo in televisione ma manca troppo poco. Mentre tutta San Francisco cerca di scappare dalla città una famiglia spezzata (genitori divorziati, una figlia deceduta sulle spalle e un'altra in giro per la città) cerca di ricongiungersi all'interno della tragedia, tra scosse, palazzi che crollano e uno tsunami.
Gloriosissima distruzione in computer grafica di buona parte della costa Ovest degli Stati Uniti d'America, tripudio del massacro e sublimazione della massima paura californiana, quella del Big One, il terremoto dei terremoti, Brad Peyton sembra aver capito immediatamente cosa conti in un film come San Andreas: la distruzione. Dalle prime immagini (le migliori del film) la tragedia è imminente e la regia gioca al gatto col topo con l'incidente, fino a che un'avvisaglia non sta per mietere la prima vittima. Potrebbe essere un inizio nello stile di Lo squalo ma l'entrata in scena del protagonista, eroe di mestiere, pilota d'elicotteri di salvataggio, chiarisce cosa stiamo guardando.
Quelli iniziali sono gli unici momenti in cui San Andreas sembra rispondere in pieno al genere cui appartiene, il catastrofico, i soli cioè in cui il film ha una dimensione extra familiare. Il resto di questa grande parabola distruttiva in cui Dwayne Johnson attraversa uno stato nell'atto del suo collassare, è un'epopea privata, la storia di come una famiglia si cerchi e si trovi durante un cataclisma. Sembra di vedere le classiche idee del disaster movie per come fu canonizzato da L'inferno di cristallo (i personaggi eterogenei e le diverse individualità costrette a convivere in una situazione estrema) contaminato dagli spunti "realisti" di The Impossible, in cui una famiglia cerca di ritrovarsi durante lo tsunami indiano.
Con molta meno prospettiva e molto meno gusto melodrammatico del film di J.A. Bayona, Brad Peyton mette in scena il primo script per la televisione di Carlton Cuse (sceneggiatore televisivo diventato famoso per Lost), immaginando un evento dalle proporzioni impensabili e puntando tutto sull'effetto finale (la distruzione) senza passare per le cause. I terremoti arrivano subitanei e la loro portata non è lontana dal passaggio di un Godzilla o qualsiasi creatura immane. I palazzi si sbriciolano anche più di quanto avevamo visto accadere in 2012 (che aveva comunque un impianto spettacolare superiore), le autostrade si piegano, i ponti si avvitano e su tutto le proporzioni impossibili (ma vere) di Dwayne Johnson attraversano onde, crepe nel terreno ed edifici diroccati per giungere da sua figlia. Lo stesso, anche di fronte a tanta esasperazione della plausibilità, i dialoghi appaiono come la componente meno accettabile in San Andreas.
Il dolce spirito naive che anima questo tipo di produzioni fieramente popolari e dalle dinamiche teneramente semplici, viene sporcato di un gusto per l'esagerazione e l'eccesso che, per come è ripetuto e sbattuto in faccia allo spettatore, sembra uscire da una produzione Asylum. La dinamica esasperata del salvataggio all'ultimo secondo è utilizzata di continuo per ogni situazione e del resto ogni distruzione lascia i protagonisti illesi o al massimo graffiati, tranne quando ha delle conseguenze mortali, le quali tuttavia vengono iperbolicamente risolte. Morte e vita perdono in breve di ogni valore, quella tensione alla sopravvivenza, quel sottile senso di precarietà di fronte ad una tragedia di molto superiore all'umano che anima il genere catastrofico si perde quasi subito. L'obiettivo di una simile deroga alle normali leggi della fisica sembrerebbe quello di dare più enfasi al melò familiare (di suo molto blando), poichè i sentimenti non sono là dove dovrebbero essere (nei personaggi, dunque negli attori) ma si trovano riflessi nell'esagerazione della distruzione. Tuttavia il sacrifico sembra servire a poco, San Andreas fatica a coinvolgere e più distrugge più genera assuefazione alle immagini invece che stupore.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Rampage da movieplayer

Post n°13550 pubblicato il 14 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 

Articolo a cura di Francesco Lomuscio  4 Gennaio 2014

Con ogni probabilità, i seguaci irriducibili della celluloide horror ricorderanno il protagonista Brendan Fletcher per essere rientrato tra le vittime dell'artigliato Signore degli incubi Freddy Krueger in Freddy vs Jason (2003) di Ronny Yu, mentre dietro la macchina da presa abbiamo il tedesco classe 1965 Uwe Boll che, autore, tra l'altro, di House of the dead (2003) e In the name of the king (2007), da un lato è conosciuto come più prolifico cineasta dedito alla trasposizione di videogiochi su grande schermo, dall'altro è abbastanza noto perché la critica non ha esitato ad affibbiargli la nomea di peggior regista del nostro tempo.
Nomea affibbiatagli in maniera decisamente esagerata e, se vogliamo, gratuita, perché è pur vero che nella filmografia bolliana sono presenti diversi titoli da dimenticare, ma non risultano affatto assenti produzioni che, realizzate con budget inferiori a quelli sfruttati in grosse operazioni hollywoodiane, non sfigurano più di tanto al loro confronto. 
In questo caso, pur ricordando la figura del personaggio principale quelle di determinati soggetti appartenenti all'universo videoludico, non ci troviamo dinanzi a un cineVgame, ma abbiamo il citato Fletcher nei panni del ventitreenne Bill Williamson, il quale, pur non vivendo una brutta esistenza, si convince di avere pochissime possibilità di emergere nel suo futuro; fino al giorno in cui, deciso a interrompere la solita routine, si procura tramite internet le armi e un completo integrale di kevlar per assicurarsi l'attenzione a cui ha sempre ambito.

Ed è permettendo alla tensione di salire fotogramma dopo fotogramma, nel corso della fase di attesa pre-massacro, che Boll orchestra il tutto, privilegiando l'uso della camera a mano per far sì, con ogni probabilità, che l'oltre ora e venti di visione manifesti toni vicini al realismo dei servizi giornalistici.
Perché, tra esplosioni, una tesa sequenza ambientata all'interno di un Bingo e l'uccisione di un gruppo di donne in un beauty center a rappresentare, forse, il momento più violento del lungometraggio, Rampage può essere considerato sì un prodotto di genere, ma indirizzato più alla denuncia su celluloide che all'intrattenimento.
Denuncia relativa, ovviamente, alla eccessiva facilità con cui è possibile procurarsi armi da fuoco nella società telematica d'inizio terzo millennio, man mano che la vicenda che prende forma non può fare a meno di richiamare alla memoria tragici fatti come la strage della Columbine High School, risalente al 1999, o l'impressionante sterminio dell'isola di Utoya, avvenuto, però, due anni dopo la realizzazione del film.
Denuncia che, con il veterano Michael"Strade di fuoco"Paré posto nel ruolo dello sceriffo, il caro vecchio Uwe filtra attraverso un racconto per immagini in movimento tanto semplice, duro e spietato quanto spaventoso.
D'altra parte, a differenza della maggior parte dei blockbuster d'oltreoceano, non sembra porsi alcun problema per quanto riguarda esagerazioni di cattiveria, rendendo l'insieme non solo tutt'altro che prevedibile, ma anche capace di spingere alla riflessione.
È Koch Media a renderlo disponibile su supporto blu-ray italiano, corredato di sezione extra costituita da trailer originale ed un making of di nove minuti.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Il giovane favoloso

Post n°13549 pubblicato il 14 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 

Locandina Il giovane favoloso

Il giovane favoloso inizia con la visione di tre bambini che giocano dietro una siepe, nel giardino di una casa austera. Sono i fratelli Leopardi, e la siepe è una di quelle oltre le quali Giacomo cercherà di gettare lo sguardo, trattenuto nel suo anelito di vita e di poesia da un padre severo e convinto che il destino dei figli fosse quello di dedicarsi allo "studio matto e disperatissimo" nella biblioteca di famiglia, senza mai confrontarsi con il mondo esterno.
Mario Martone comincia a raccontare il "suo" Leopardi proprio dalla giovinezza a Recanati, seguendo Giacomo nella ricerca costantemente osteggiata da Monaldo e da una madre bigotta e anaffettiva delineata in poche pennellate, lasciandoci intuire che sia stata altrettanto, e forse più, castrante del padre: sarà lei, più avanti, a prestare il volto a quella Natura ostile cui il poeta si rivolgerà per tutta la vita con profondo rancore e con la disperazione del figlio eternamente abbandonato.
La prima ora de Il giovane favoloso, dedicata interamente a Recanati, è chiaramente reminescente dell'Amadeus di Milos Forman, così come il rapporto fra Giacomo e Monaldo rimanda a quello fra Mozart e suo padre. Ma non c'è margine per lo sberleffo nell'adolescenza di Leopardi, incastonato nei corridoi della casa paterna e in quella libreria contemporaneamente accessibile e proibita. In queste prime scene prende il via il contrappunto musicale che è uno degli elementi più interessanti della narrazione filmica de Il giovane favoloso, e che accosta Rossini alla musica elettronica del tedesco Sasha Ring (alias Apparat)e al brano Outer del canadese Doug Van Nort.
Attraverso un salto temporale, ritroviamo Leopardi a Firenze, dove avvengono gli incontri con l'amata Fanny e con l'amico Antonio Ranieri, entrambi fondamentali nel costruire la geografia emotiva del poeta. È del periodo fiorentino anche il confronto con la società intellettuale dell'epoca, che invece di cogliere la capacità visionaria di Leopardi in termini di grandezza artistica ne intuiscono la pericolosità in termini "politici", in quanto potenziale sabotatrice di quelle "magnifiche sorti e progressive" che il secolo cominciava a decantare. 
L'atto conclusivo, dopo una breve sosta a Roma, si svolge a Napoli, città per cui Martone prova un trasporto emotivo evidente nel rinnovato vigore delle immagini (ma il segmento potrebbe estendersi meno a lungo, nell'economia della narrazione). Alle pendici del Vesuvio si concluderà la parentesi di vita di Leopardi, strappandogli l'ultimo grido di disperazione con la poesia La ginestra, summa del suo pensiero esistenziale. 
Martone racconta un Leopardi vulnerabile e struggente, dalla salute cagionevole e l'animo fragile, ma dalla grande lucidità intellettuale e l'infinita ironia. Elio Germano "triangola" brillantemente con le sensibilità di Leopardi e di Martone, prestando voce e corpo, sul quale si calcifica l'avventura umana e intellettuale del poeta, alla creazione di un personaggio che abbandona la dimensione letteraria, e la valenza di icona della cultura nazionale, per abbracciare a tutto tondo quella umana. La riscoperta dell'ironia leopardiana, intuibile nei suoi poemi, ben visibile nei suoi carteggi, è una potente chiave di rilettura moderna del poeta. "La mia patria è l'Italia, la sua lingua e letteratura", dice il giovane Giacomo. E Martone ci ricorda che nella lingua e letteratura di Leopardi si ritrovano le radici dell'Italia di oggi.
In questo modo Leopardi esce dai sussidiari ed entra nella contemporaneità, continuando quella missione divulgativa che il regista napoletano ha cominciato ad intraprendere con Noi credevamo. Martone fa parlare i suoi protagonisti in un italiano oggi obsoleto ma filologicamente rigoroso, e fa recitare in toto a Leopardi le sue poesie più memorabili, strappandole alle pareti scolastiche e ai polverosi programmi liceali. Germano interpreta quei versi senza declamarli, reintegrandoli nel contesto umano e storico in cui stati concepiti, e restituendo loro l'emozione della scoperta, per il poeta nel momento in cui le ha scritte, e per noi nel momento in cui le (ri)ascoltiamo. Nelle sue parole torna, straziante, la malinconia "che ci lima e ci divora", nei suoi dilemmi esistenziali ritroviamo i nostri.
Martone recupera anche la dimensione affettiva di Leopardi, raccontandolo con immensa tenerezza, e senza mai indulgere nella pietà per i tormenti fisici del poeta, che orgogliosamente rivendica la propria autonomia di pensiero intimando: "Non attribuite al mio stato quello che si deve al mio intelletto". E ne sottolinea la valenza politica, facendo dire al poeta: "Il mio cervello non concepisce masse felici fatte di individui infelici". Infine identifica nel poeta un precursore del Novecento nel collocare il dubbio al centro della conoscenza: "Chi dubita sa, e sa più che si possa". Quel che emerge sopra a tutto è una profonda affinità elettiva fra Martone e Leopardi, un allineamento di anime e di sensibilità artistiche: attraverso il poeta, il regista racconta quella condizione umana "non migliorabile", a lui ben nota e non "sempre cara", di sentirsi straniero ovunque e in ogni tempo. Il Leopardi di Martone si ricollega idealmente al Renato Caccioppoli di Morte di un matematico napoletano in quell'impossibilità per alcuni di essere nel mondo, oltre che del mondo. 
Il giovane favoloso è un film erudito sulla sensibilità postmoderna che ha collocato Leopardi fuori del suo tempo, origine della sua immortalità e causa della sua umana dannazione. Martone costruisce una grammatica filmica fatta di scansioni teatrali, citazioni letterarie e immagini evocative ai limiti del delirio, come sanno esserlo le parole della poesia leopardiana. All'interno di una costruzione classica si permette intuizioni d'autore, come l'urlo silenzioso di Giacomo davanti alle intimidazioni del padre e dello zio, o le visioni del poeta nella parte finale della vita. Il giovane favoloso "centra" in pieno la parabola di un artista che sapeva guardare oltre il confine "che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude". E ci invita a riconoscerci nel suo desiderio di infinito.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

I campioni delle fake news collaboreranno con Facebook... "per combattere le fake news". da antidiplomatico

Post n°13548 pubblicato il 14 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 

Notizia che è passata un po' in sordina. Ve la riportiamo dall'Ansa con la premura di leggerla con molta attenzione.

Facebook intensifica la lotta alle notizie false e rafforza i suoi legami con editori e media per aiutarli ad ampliare la loro audience e a promuovere contenuti di qualità in rete. Il social network ha annunciato una nuova iniziativa che si chiama "Progetto Giornalismo Facebook" e che si propone una sorta di "alfabetizzazione" sulle notizie basata su tre pilastri.

Il primo riguarda la collaborazione con gli editori con l'obiettivo di sviluppare nuovi formati per pubblicare le storie in modo più efficace, sulla scia dell'esperienza degli Instant Articles. Il secondo consiste nella formazione degli addetti ai lavori: il social fornirà strumenti a giornalisti ed editori per migliorare la diffusione delle notizie. L'ultimo pilastro del progetto riguarda gli utenti e nello specifico la lotta alle "fake news": Facebook metterà a disposizione dei suoi iscritti - quasi 2 miliardi nel mondo - materiale educativo per agevolare la scelta delle notizie e per riconoscere le bufale, in modo da evitarle.

Tra i primi a collaborare con Facebook per questa iniziativa, riporta il Wall Street Journal, ci sono il Washington Post, Fox News e BuzzFeed. 


Il finale ha del clamoroso, ma procediamo con ordine.

L'iniziativa di Facebook si inserisce in quella nota caccia alle streghe, o neo maccartismo, iniziata dalla lista di proscrizione del Washington Post (non a caso) volta a demonizzare tutti coloro che offrono una visione alternativa a quella del mainstream che come AntiDiplomatico vi abbiamo segnalato spesso e primi in Italia. La caccia alle streghe negli Usa ha già prodotto una bozza di legislazione che procede verso la censura, chiedendo ai social come Facebook di bannare tutto ciò che è contraria alla visione dominante e quindi "propaganda russa o fake news". In Italia attraverso Boldrini, Orlando e Pitruzzella si sta procedendo nella stessa direzione.

Ma chi sarà l'arbitro delle fake news? Si sono chiesti in tanti fino ad oggi. Facebook ci fa sapere che sta selezionando come garanti e giudici... i massimi veicoli delle notizie false: Fox News (armi di distruzione di massa in Iraq per citare solo la più grave tra le migliaia), Washington Post (hacheraggio russo della azienda elettrica del Vermont, per citare la più recente) e BuzzFeed... su BuzzFeed è un po' come sparare sulla croce rossa per chi ha diffuso il rapporto porno anti-Trump che sarebbe sotto ricatto del Cremlino. Perfino il NYT, e abbiamo detto tutto, si è scandalizzato del livello raggiunto da BF e non vogliamo infierire oltre. 

E sarebbero loro gli arbitri delle Fake news, coloro che decideranno del futuro della libera espressione nel web?

Come vi abbiamo scritto il 2017 è l'anno della mobilitazione per la difesa della libertà d'espressione su internet. Se avete a cuore questo diritto (costituzionale) dovete agire ora o il rischio concreto è quello di tacere per sempre...

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Le “fake news” del New York Times da marxxxi

Post n°13547 pubblicato il 14 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 

di Mision Verdad*

da misionverdad.com

Traduzione di Giulia Salomoni per Marx21.it

Una coalizione di media, compagnie di reti sociali e organizzazioni legate a contenuti 2.0 è stata creata nella cornice delle cosiddette "false notizie", nel tentativo di assimilare ogni espressione diversa dalla versione corporativa dell'informazione a una presunta campagna di disinformazione. Si tratta, piuttosto, di caccia alle streghe, di una riconversione di quelli che nel giornalismo vengono chiamati "i fatti" e della censura totalitaria a un click di distanza.

Ma guarda che sorpresa: i media corporativi sono i principali campioni della censura informativa. The New York Times, finanziato dai più ricchi di Wall Street, nelle ultime settimane è stato giudice e parte coinvolta nelle "fake news" (o "notizie false") allo scopo di avviare  un processo giudiziario contro diversi media che sono tacciati di essere "filo-russi", un mero capro espiatorio, e ogni dissidenza alla politica neoconservatrice (e degli alleati) promossa dall'apparato dell'attuale governo statunitense (di Obama, NdT).


Allo stesso tempo, si cerca di criminalizzare quelle organizzazioni e media che si identificano con la destra conservatrice ed anti-establishment in suolo nordamericano ed europeo assimilandola ai suprematisti bianchi, agli ultranazionalisti, ai fondamentalisti cristiani e persino a certe milizie armate, che si identificano nel movimento "Alt-Right" (destra alternativa), un altro tentativo ideologico dei media corporativi che di mettere sullo stesso piano i neonazisti con i media, i gruppi di pensiero e le organizzazioni politiche i cui contenuti ed informazioni differiscono profondamente da quelli mille volte riproposti da New York.

Il Times ha pubblicato perfino editoriali, esigendo la restrizione delle notizie, ad eccezione di quelle che siano da esso riconosciute come valide.

L'editoriale del New York Times

Non sappiamo con che cosa fanno a colazione, ma quello che scrivono dalla redazione  del New York Times, il cui editoriale del 19 di novembre è un messaggio diretto a Mark Zuckerberg e alla squadra della compagnia Facebook.

Secondo questo editoriale, migliaia di "notizie false" sono state diffuse attraverso questa rete sociale prima, durante e dopo le elezioni presidenziali negli USA, e grazie a tutta  la supposta operazione orchestrata Donald Trump, egli ha conquistato il suo posto di lavoro nella Casa Bianca. In un articolo precedente abbiamo descritto le immediate conseguenze di questa storia.

La redazione del New York Times fa pressioni per la costituzione da parte della corporazione di Zuckerberg di un sistema innovativo di censura per le reti sociali il cui filtro sia supervisionato, ovviamente, dalla redazione stessa se necessario.

In altri editoriali si è perfino parlato del concetto di "post-truth", una riconversione di  ciò che è "la verità" e che ha già una voce nel dizionario di Oxford. Secondo questa istituzione, "post-truth", (post-verità), è stata innanzitutto usata nel 1992 in un saggio scritto dal serbo-statunitense Steve Tesich sullo scandalo Iran-Contra e la Guerra del Golfo Persico, in cui si impone la logica emotiva e moralista al di sopra dei fatti "obiettivi" (usando la nomenclatura), e citiamo: "Noi, come paese libero, abbiamo deciso liberamente che vogliamo vivere in una specie di mondo post-truth."

Il blogger britannico Neil Clark replica che tanto le "fake news" quanto le politiche "post-truth" dei propagandisti della guerra sono il migliore esempio di quello che gli psicologi chiamano una "proiezione".

D'altra parte, il premiato giornalista statunitense Robert Parry, in relazione al citato editoriale, domanda: "Allora Zuckerberg dovrebbe impedire che gli utenti di Facebook facciano circolare le storie del New York Times? Ovviamente, il Times non favorirebbe  tale soluzione per il problema delle "notizie false." Invece il Times suppone di essere uno degli arbitri che deciderebbero quali media nel web debbano essere proibiti e quali ottenere il timbro di approvazione".

La proposta del Times, argomenta Parry, si contraddice poiché questo mezzo corporativo è una delle macchine fornitrici di "notizie false" più grandi al mondo. Quelli di New York si erigono a giudici.

Al Times e al The Washington Post si affiancano altri mediai corporativi che si sono uniti ad un'iniziativa avviata dalla compagnia Google, una coalizione chiamata First Draft che è destinata a creare una specie di Ministero Globale che deciderebbe quali notizie possono essere considerate vere e quali false.

Coalizione corporativa del silenzio

Il progetto First Draft News, iniziato nel 2015, è un'iniziativa di Google News Lab (reparto della compagnia incaricato della verifica dell’informazione e dell’estrazione dei dati).

Tra altre organizzazioni corporative dei media e delle reti sociali, e col patrocinio maggioritario di Google News Lab, abbiamo:

- Storyful, una compagnia di prodotti multimediali per reti sociali che lavora con il The Wall Street Journal ed appartenente a News Corp, il conglomerato mediatico più grande del mondo.

Eyewitness Media Hub, un’organizzazione corporativa di verifica dei dati e diritti d’autore che opera anche come un centro di formazione per giovani giornalisti.

- Bellingcat, finanziato dalla Fondazione Open Society e dall'Usaid, il cui "gruppo di investigatori e giornalisti" ha avuto un ruolo chiave nella campagna di disinformazione con relazioni che incolpavano il governo russo e le milizie del Donbass della caduta dell'aeroplano MH17 in Ucraina. Sia la Procura olandese sia una relazione di 31 pagine hanno smentito le informazioni diffuse da Bellingcat.

Richiama l'attenzione che i promotori di First Draft siano le stesse corporazioni che forniscono le "fake news”. Sicuramente i lettori potranno riconoscere alcuni mezzi e reti che compongono la coalizione:

Uno dei propositi di questa iniziativa è quella di produrre un filtro di dati ed informazioni che si tradurrebbe in una censura algorítmica, secondo Facebook, "to reduce human bias", cioè, per ridurre le distorsioni nel trattamento dell'informazione. Non è un elemento di minore rilevanza, poiché si fa nel nome delle "fake news" e delle politiche "post-truth."

In un'altra ricerca si indagherà su lavori che si distinguono per cercare di imporre la narrazione delle "notizie false" in una sorta di caccia alle streghe politica, con il The Washington Post come principale portavoce di un'operazione psicologica nella cornice della nuova guerra fredda dell'informazione.

http://misionverdad.com/autores

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

The founder

Post n°13546 pubblicato il 14 Gennaio 2017 da Ladridicinema
 

The founder è il sogno americano, ovvero di come l'ingegno possa portare a qualsiasi cosa, dove tutto è possibile, a discapito anche di qualsiasi etica e morale. The founder è la storia di Ray Kroc, interpretato da un magnifico Micheal Keaton, e di come creò un impero e seppe truffare e sottrarre da squalo autentico un'idea geniale ai due ingenui fratelli McDonald. Un film sul capitalismo moderno in cui qualità e dipendenti vengono sempre e solo dopo il Dio profitto, e il successo è da agguantare attraverso la propria determinazione. Costi quel che costi. La perseveranza di Kroc e il suo cuore nero sono coadiuvati dalla splendida sceneggiatura di Robert Siegel, che copre alcune pecche della regia e permette a Keaton di annoverarsi finalmente nell'alveo dei grandi attori americani

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963