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Messaggi del 30/08/2019

 

UNITA’ COMUNISTA. I PUNTI DELLA DISCUSSIONE da ilpartitocomunista.it

Post n°15282 pubblicato il 30 Agosto 2019 da Ladridicinema

22 febbraio 2017di 

«Unità con chi e per cosa?» Questa domanda che si poneva Pietro Secchia, dirigente di primo piano del movimento comunista italiano, è ancora oggi la domanda fondamentale da porsi quando si discute di unità comunista. Il tema è molto sentito e a ragione, ma spesso semplificato e banalizzato. Per discutere seriamente bisogna partire da una premessa di fondo.

Oggi nel movimento comunista internazionale, e certamente nel nostro Paese, esistono serie differenze di vedute strategiche tra le forze comuniste presenti, di cui l’attuale frammentazione è un riflesso diretto. Ogni ragionamento sull’unità dei comunisti deve partire dal riconoscimento di questa realtà, comprendendo che lo stato attuale non è semplicemente il prodotto di personalismi e incomprensioni o volontà di difendere piccoli “orticelli” ma il risultato delle scelte e delle contraddizioni accumulate in anni nonché delle divergenze strategiche presenti.

Non basterebbe semplicemente rimettere tutti insieme, esperienza già provata con Rifondazione Comunista nel 1992 (le differenze, diceva Bertinotti sono una ricchezza, ma alla fine hanno, nell’accezione migliore, solo determinato confusione) o peggio ancora legare la questione dell’unità comunista a scadenze elettorali, come fatto dalla Federazione della Sinistra nel 2009.

Per l’unità comunista è presupposto un dibattito serrato su questioni di carattere strategico e un’unità nel conflitto di classe. Il II congresso del Partito Comunista ha licenziato le tesi politiche che sono consultabili all’indirizzo: http://ilpartitocomunista.it/wp-content/uploads/DOCUMENTO-II-CONGRESSO-PC-2017.pdf in cui esprimiamo la nostra analisi e la strategia del Partito, ed in particolare cosa significhi la costruzione di un partito rivoluzionario in una fase non rivoluzionaria e in che modo intendere correttamente questa ultima espressione.

All’Unità comunista è dedicata la chiusura del nostro documento con parole chiare che delineano la nostra posizione. «La questione comunista – si legge nel documento – è la questione dell’unità dei comunisti realmente marxisti-leninisti, che rompe con le forme di opportunismo e rifiuta qualsiasi riduzione a generiche connotazioni elettoralistiche e aggregazioni con le forze della “sinistra”, che relegano i comunisti ad una funzione di subalternità storica e di classe. È la questione dell’indipendenza comunista rispetto alle forze borghesi, del profilo autonomo degli interessi del proletariato nello scontro di classe nazionale e nella sua proiezione internazionale, nello scontro interimperialistico che lo rende irriducibile ad alcuno dei campi in lotta Il Partito deve levare in alto la parola d’ordine dell’unità invitando ad un cammino comune con tutti quei compagni che si pongono su questo terreno. Aumentando le iniziative di discussione e dibattito, non temendo il confronto, ma valorizzando nella dialettica delle posizioni le prospettive concrete di avanzamento. L’unità è nulla se ad essa non corrisponde unità ideologica e di visione strategica».

L’unità è un obiettivo da perseguire e per il quale vogliamo contribuire con alcuni punti che, nell’ottica di unità e ricostruzione diventano irrinunciabili. In particolare:

1)    l’autonomia politica dei comunisti e la totale indipendenza dai partiti che accettano come orizzonte il sistema capitalistico. La costruzione del partito comunista non può essere ridotta ad un’opinione più radicale interna al sistema politico borghese, di sue coalizioni o raggruppamenti di sinistra. Costruire il partito comunista significa realizzare lo strumento che scardina quel sistema. In praticarifiutare ogni forma di alleanza elettorale con il Partito Democratico, ed uscire da qualsiasi visione antistorica di “unità delle forze democratiche costituzionali”. Un rifiuto netto, indipendentemente da chi guida il PD, e espresso tanto a livello nazionale, quanto a livello regionale e locale. Rifiutare l’alleanze con il PD a livello nazionale ma poi praticarla a livello locale si chiama opportunismo. Questo vale anche per forze cosiddette di sinistra (da D’Alema, a Pisapia, passando per Vendola) che ora possono anche distinguersi tatticamente dal PD ma che in prospettiva vogliono crescere per poi allearsi nuovamente con il PD);

2)    la centralità dell’analisi leninista dell’imperialismo, come fase suprema del capitalismo. L’imperialismo non può essere ridotto ad una delle sue fenomenologie, ossia l’aggressione militare. il movimento comunista non può prendere parte strategicamente per uno o per un altro schieramento di forze imperialiste in lotta e che la lotta dei comunisti è rivolta, prima di tutto, alla liberazione dallo sfruttamento capitalistico e all’uscita dei propri paesi dall’Unione Europea, dalla Nato e da ogni alleanze imperialista;

3)    la necessità di abbandonare ogni illusione sulla riformabilità della UEdelle sue istituzioni e dei meccanismi economici che ne sono alla base. I comunisti devono in Italia avere come posizione l’uscita del proprio Paese dalla UE. Non basta parlare di semplice lotta per la dissoluzione delle alleanze imperialiste, non specificando come tale dissoluzione possa avvenire. Serve assumere la responsabilità di praticare questa rottura nel solo modo possibile, ossia attraverso la lotta per l’uscita unilaterale dalle alleanze imperialiste. Allo stesso tempo non appartengono ai comunisti ragionamenti sull’Europa a due velocità, su alleanze dei paesi del Sud Europa, sulla semplice uscita dall’euro senza anche uscire dalla UE. Tutte opzioni politiche solo apparentemente alternative ma che in realtà sarebbero favorevoli a settori del capitale e finirebbero per peggiorare la condizione della classe operaia e delle masse popolari;

4)    la consapevolezza, che discende direttamente dai punti precedenti, che l’autonomia politica dei comunisti deve essere tale anche nei confronti delle forze di “sinistra”. Non esiste una sinistra anticapitalista al di fuori dei comunisti: parlare di antiliberismo non è sinonimo di anticapitalismo, ma indica diverse visioni interne alle logiche del capitalismo. Sostenere la riformabilità della UE come fa il Partito della Sinistra Europea e le forze che ad esso aderiscono, rende quelle posizioni incompatibili con quelle dei comunisti. Quindi unità dei comunisti e unità della sinistra non sono sinonimi, e non sono neanche processi che possano marciare insieme. Non bisogna mischiare queste due parole d’ordine con tanta leggerezza, perché dietro ad esse esistono prospettive incompatibilmente divergenti. Pensare di unire i comunisti per poi unirsi con forze di sinistra che hanno prospettive strategiche opposte alle nostre è opportunismo della peggior specie;

5)    contrapposta al rifiuto delle alleanze elettorali, la più grande apertura sul piano delle alleanze sociali. Il lavoro dei comunisti deve essere orientato completamente al sostegno e alla direzione della lotta di classe, e in primo luogo nel lavoro per incrementare la coscienza di classe dei lavoratori, la loro partecipazione alla lotta. I comunisti devono essere capaci di creare un blocco sociale attorno alle rivendicazioni più avanzate della classe operaia, unendo ad essa gli strati sociali a rischio di impoverimento e proletarizzazione, che nella fase del dominio dei grandi monopoli diventano sempre maggiori;

6)    sul piano del conflitto la critica all’operato del sindacalismo confederale e in particolare al ruolo della CGIL deve essere netta e spietata. La prospettiva strategica dei comunisti non può impantanarsi in un impossibile ritorno della CGIL su posizioni di classe, ma deve operare per la costruzione del sindacato di classe, legato internazionalmente alla FSM, che rappresenti effettivamente gli interessi dei lavoratori, che sappia guidare i lavoratori nelle lotte senza cedere a compromessi al ribasso che nel caso del sindacalismo confederale sono ormai sfociati in una posizione di aperto collaborazionismo filo-padronale;

7)    la stretta connessione della ricostruzione comunista con i processi di riorganizzazione del movimento comunista internazionale. Noi riteniamo che in questa fase sia necessaria una maggiore unità d’azione dei comunisti a livello internazionale per rispondere all’attacco padronale, anche a costo di cedere alcuni elementi di direzione politica ad un più stringente coordinamento internazionale. L’adeguamento dialettico alle condizioni nazionali, che pure deve essere presente nell’elaborazione tattica dei partiti, non può portare a torsioni strategiche che finiscono con il giustificare tutto e il contrario di tutto, in nome di presunte vie nazionali al socialismo;

8)    la necessità di fare i conti con l’esperienza del movimento comunista del nostro Paese e in particolare con la storia del Partito Comunista Italiano. Sarebbe un pessimo servizio al processo di ricostruzione comunista quello di chiudersi in una visione religiosa della storia del PCI e non analizzarne gli errori. In particolare non riteniamo possibile nessuna unità comunista senza una chiara condanna dell’eurocomunismo, dell’accettazione dell’ “ombrello della nato”, della politica del compromesso storico e della solidarietà nazionale, elementi centrali del processo di trasformazione del PCI in una forza socialdemocratica.  Allo stesso tempo serve un’autocritica spietata sul periodo che segue allo scioglimento del PCI, e al processo di costruzione del PRC. Serve una critica all’eclettismo e all’opportunismo dominante in quegli anni, ed in particolare al riconoscimento dell’errore storico della partecipazione dei comunisti nei governi di centrosinistra.

9)    non legare l’unità comunista a prospettive meramente elettorali. Questo non significa che i comunisti oggi, in totale autonomia e indipendenza dalle altre forze politiche, non possano e debbano utilizzare lo strumento delle elezioni, ed eventualmente le posizioni nelle istituzioni, come megafono della propria azione nel conflitto di classe. Essere autonomi e indipendenti significa anche non delegare ad altre forze (come fatto da alcune organizzazioni comuniste con i Cinque Stelle o con forze di sinistra) la rappresentanza delle proprie battaglie. In poche parole utilizzare le elezioni, gli spazi mediatici, le istituzioni per la costruzione del partito e il rafforzamento della lotta di classe.

10) dichiarare con chiarezza che il fine dei comunisti è il rovesciamento del sistema capitalistico e la costruzione del socialismo, e operare coerentemente con questa dichiarazione. I comunisti non limitano la loro azione alla difesa di conquiste temporanee, ma legano ogni lotta concreta al processo di accumulazione di forze in chiave rivoluzionaria. Non esistono alternative tra capitalismo e socialismo e non esistono fasi intermedie.

A cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre siamo coscienti delle grandi difficoltà dei comunisti proprio nel momento in cui appaiono così chiare le contraddizioni del capitalismo, nel mondo e nel nostro Paese. Il capitalismo oggi non è in grado di assicurare ai popoli nessun futuro se non sfruttamento, disoccupazione, peggioramento delle condizioni salariali e di vita, guerra, contrasto insanabile con l’ambiente e il carattere finito delle risorse del pianeta. L’attualità della questione comunista è anche sforzo per l’unità dei comunisti, a patto che tali processi siano orientati nella direzione opposta rispetto a quanto fatto in questi anni. Noi vogliamo l’unità dei comunisti, a partire da una coerenza strategica e ideologica, che ha come premessa la critica degli errori passati. Ma respingiamo al mittente ogni proposta di unità o dialogo con forze di sinistra e centrosinistra, magari sotto elezioni.  Una prospettiva che significherebbe relegare i comunisti alla coda di progetti perdenti, che illudono i lavoratori, e che sono perfettamente allineati al potere capitalistico ai diktat della UE e alla Nato, in cambio di qualche posto nelle istituzioni.

Su queste condizioni e a partire da un lavoro comune concreto abbiamo impostato l’unità tra il Partito e il Fronte della Gioventù Comunista e questo riteniamo sia il modello da seguire in futuro. Coscienti della insufficienza delle forze esistenti, a partire da noi, siamo pronti a mettere in discussione la nostra organizzazione a patto che ciò determini un avanzamento e non un passo indietro su quanto, anche se ancora insufficiente, faticosamente è stato costruito in questi anni. Unità con i comunisti, non con quanti vorrebbero trascinare nuovamente i comunisti nel pantano. L’unità senza principi è, al meglio, confusione.

Roma 22 febbraio 2017

UFFICIO POLITICO

PARTITO COMUNISTA

 
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"Tortura psicologica senza sosta": John Pilger rivela le condizioni di Assange in carcere da antidiplomatico

Post n°15281 pubblicato il 30 Agosto 2019 da Ladridicinema
 

 

Il giornalista australiano e pluripremiato documentarista, John Pilger afferma che la "tortura psicologica" contro il fondatore di WikiLeaks Julian Assange continua "senza sosta" mentre rimane sotto la custodia britannica.
 
Pilger su Twitter ha scritto di aver recentemente parlato con Assange e ha affermato che il giornalista aveva perso ancora più peso di quanto riportato in precedenza; gli è stata anche negata la possibilità di parlare al telefono con i suoi genitori.
 

 
"Gran Bretagna 2019", ha concluso Pilger. 
 
Il giornalista è stato un fervente difensore di Assange da quando è iniziata la sua resa dei conti con i governi occidentali a seguito della pubblicazione di WikiLeaks di sensibili documenti statunitensi che mostravano i potenziali crimini di guerra in Iraq. 
 
Assange, 48 anni, ha scontato una pena detentiva di 50 settimane dal suo arresto fuori dall'ambasciata ecuadoriana a Londra l'11 aprile, apparentemente per aver saltato la cauzione, anche se molti dei suoi sostenitori sostengono che è solo un periodo di attesa prima della sua eventuale estradizione negli Stati Uniti per essere processato per possesso e diffusione di informazioni classificate. Se giudicato colpevole, Assange potrebbe essere condannato a 175 anni di carcere. 
 
Notizia del: 29/08/2019

 
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Pedro Almodóvar: un Leone come risarcimento

Post n°15280 pubblicato il 30 Agosto 2019 da Ladridicinema
 

VENEZIA. “Sono qui con i capelli bianchi e con indosso un tailleur che prima non portavo, segno del passare del tempo”, dice di sfuggita, tra una risposta e un’altra, il regista spagnolo Pedro Almodóvar che, per il suo 70esimo compleanno il prossimo 25 settembre, riceve il Leone alla carriera. Oltre 20 i lungometraggi, insieme a una quindicina di corti, un ricco percorso artistico cominciato nell’agonizzante Spagna franchista. Dal goliardico e provocatorio esordio di Pepi. Luci e le altre ragazze del mucchio (1980) all’ultimo malinconico autoritratto, quasi un testamento, Dolor y gloria presentato all’ultimo Festival di Cannes che ancora una volta gli ha negato l’agognata Palma d’Oro e lo ha ‘risarcito’ con il Premio al miglior attore ad Antonio Banderas. “Il titolo del film riassume due parole delle quali ho un certo pudore parlare. Non voglio né lamentarmi del dolore e non mi piace vantarmi della gloria”. A Venezia Almodóvar c’è stato due volte vincendo nel 2008 un’Osella d’oro per la sceneggiatura di Donne sull’orlo di una crisi di nervi. Non l’ha deluso l’America che nel 2000 gli ha riservato l’Oscar come Miglior film straniero per Tutto su mia madre.

Il ministro per i Beni Culturali Alberto Bonisoli ha partecipato alla cerimonia di consegna del Leone al regista spagnolo, e su Facebook ha scritto che si tratta di "un riconoscimento meritato per un regista che ha saputo interpretare i cambiamenti della nostra epoca e raccontarli con un punto di vista originale".

Come andò la prima volta alla Mostra di Venezia?

Il mio esordio risale al 1983 con Entre tinieblas (L’indiscreto fascino del peccato, ndr.). Un miracolo che il mio film venne selezionato per la sezione Mezzogiorno/Mezzanotte, perché il direttore della Mostra all’epoca era il democristiano Gian Luigi Rondi, a cui il film parve osceno. Per mia fortuna queste discussioni con Rondi sono finite per diventare di dominio pubblico grazie alla stampa e a quel punto il film non poteva più essere tolto dal programma. Si è creata empatia con il mio lavoro e la vicenda mi ha lasciato alla fine un buon ricordo della Mostra.

E’ poi tornato a Venezia?

Nel 1988 con Donne sull’orlo di una crisi di nervi e ho un ricordo di una festa perenne. La conferenza stampa sembrava un gran teatro, un’enorme commedia, grandi risate tra i giornalisti e abbiamo vinto il premio per la migliore sceneggiatura. Ero orgoglioso delle attrici del film che davano un’immagine meravigliosa di una Spagna ultramoderna. Oggi questo Leone alla carriera è un premio importantissimo, perché a Venezia sono nato come regista. Il tempo mi ha dato ragione. Ricordo che quell’anno al Lido c’era Sergio Leone come presidente di giuria e lo incontrai insieme a Lina Wertmüller per strada, ed entrambi si complimentarono con me e ora questo Leone alla carriera 31 anni dopo rappresenta un atto di giustizia politica.

Che Spagna era quella raccontò nei suoi primi film?

Quando ho iniziato a fare cinema negli anni ’80, la vita era molto diversa, la Spagna si era appena destata da una dittatura che era durata 40 anni, con la movida la gente aveva perso la paura e godeva di una libertà enorme. Il mio potere di regista mi ha permesso di imporre la varietà della vita con i suoi personaggi strani e stravaganti che vedevo. Volevo che tutti gli orientamenti sessuali fossero i benvenuti. Il mio potere come regista e sceneggiatore è quello di dare libertà morale ai miei personaggi, qualunque essi siano: suore, casalinghe, travestiti. Quando ho iniziato come regista quello che mi affascinava era l’enorme cambiamento della società spagnola, di cui forse pochi film hanno parlato e il mio nutrimento veniva dalla vita che incontravo per le strade. C’era gente giovane, c’era la lunghissima e interminabile notte madrilena che era una università di vita dove mi sono formato. I miei film dicono che quella che allora iniziava in Spagna era una democrazia reale.

E come vede la Spagna di oggi?

E’ un paese contemporaneo, nel senso che vuole di tutto, compresa una cosa che fino a poco tempo fa si rifiutava come un partito di estrema destra che Italia, Francia, Inghilterra già da tempo hanno. La Spagna è dotata della stessa varietà politica degli altri paesi. Non sono se l’aggettivo qualificativo “moderno” vada bene in questo caso.

Si riconosce in uno stile cinematografico?

Quando ho iniziato a fare film non avevo idea di cosa fosse il linguaggio cinematografico, perciò non ho mai pensato allo stile. L’unica preoccupazione sin dall’inizio, a causa della mia insicurezza, era che la storia si capisse. Poi con il mio terzo film, L’indiscreto fascino del peccato, ho cominciato a disporre di più mezzi, mentre le mie prime due opere le avevo realizzate con budget zero. Insomma avevo gli elementi tecnici per girare un film e ho cominciato ad avere consapevolezza del linguaggio cinematografico e me ne sono innamorato. Ma non mi sono mai preoccupato di avere un mio stile, credo che questo avvenga per conto suo. Giro i miei film in totale libertà e indipendenza, senza tenere conto delle esigenze del pubblico. Certo la commedia è uno dei generi più difficili e complessi da realizzare.

I suoi film sono dominati dal colore, per quale ragione?

L’uso del colore riflette la mia nostalgia per i film in technicolor che vedevo da bambino, film dai colori forti, sgargianti ma solo per ragioni chimiche. Nel corso di tutta la mia carriera ho inseguito questa nostalgia del technicolor della mia infanzia. E soprattutto il colore rappresenta una reazione alla terra che mi ha dato i natali: La Mancha. Una regione molto conservatrice, con dei tratti calvinisti, con gente che veste toni spenti. Una terra molto arida di cui soltanto in seguito ho scoperto una bellezza da contemplare. I miei film sono così barocchi come reazione alla severità della Mancha. Non ricordo di avere mai visto il colore rosso nella mia terra, dominava sempre il nero, quello indossato dalle donne che portavano il lutto per decenni accumulandosi i morti di anno in anno. Un nero perenne delle donne mi circondava.

 
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Polanski: caso chiuso per i produttori

Post n°15279 pubblicato il 30 Agosto 2019 da Ladridicinema
 

Il caso Polanski che ieri, con le dichiarazioni della presidente di giuria, l'argentina Lucrecia Martel, ha dominato l'apertura della Mostra del cinema di Venezia, può ritenersi chiuso, almeno per quanto riguarda la produzione che pure aveva ipotizzato il ritiro del film. "A nome di tutta la compagine produttiva accettiamo - fanno sapere ufficialmente oggi - le scuse della Presidente della Giuria. Nella certezza che rimarrà la serenità di giudizio nei confronti del film, J'accuse di Roman Polanski resta in concorso alla 76/ma Mostra del Cinema di Venezia".  Il film è una coproduzione Italia-Francia, prodotto da Eliseo Cinema di Luca Barbareschi e Rai Cinema con partner francesi e sarà in sala da 01 dal 21 novembre.

 
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Haifaa Al Mansour e i diritti delle donne in Arabia Saudita

Post n°15278 pubblicato il 30 Agosto 2019 da Ladridicinema
 

VENEZIA. Ancora un personaggio femminile al centro della cinematografia della regista saudita Haifaa Al Mansour, impegnata da sempre a raccontare la mancanza di diritti civili e l’oppressione delle donne nel proprio paese. A Venezia Orizzonti, nel 2012, la cineasta portò la sua opera prima La bicicletta verde, con protagonista una ragazzina che partecipa ad un concorso di conoscenza del Corano, nella speranza di vincere il denaro sufficiente a comprarsi la tanto desiderata bicicletta. Ed è ancora la Academy Two a distribuire la coproduzione arabo-tedesca The Perfect Candidate, presentato in concorso a Venezia 76, con al centro la vicenda di una giovane e decisa dottoressa alle prese con i pregiudizi e i tabù di una società patriarcale e maschilista, che ha estromesso le donne, per intere generazioni dalla vita sociale e politica.

Tutto ha inizio dalle difficoltà e dai rifiuti di una burocrazia, impersonata ovviamente da maschi di ogni fascia d’età, che respinge due richieste di Maryam, medico in un ospedale periferico: l’una di asfaltare la strada che conduce alla struttura dove lavora e l’altra di frequentare un corso di specializzazione a Dubai. Il caso vuole che nel cercare di risolvere la seconda richiesta, per paradosso la dottoressa si ritrovi ad essere candidata alle elezioni comunali, coinvolgendo nella divertente e ironica campagna elettorale le due sorelle minori.

La sua vicenda si interseca con quella del padre musicista, vedovo da poco, che dopo averla attesa da anni finalmente partecipa a una tournée in Arabia Saudita del gruppo musicale etnico, tra minacce di morte e boicottaggio delle autorità locali.

“Attraverso il percorso di  Maryam, voglio mostrare una visione ottimista del ruolo che le donne saudite possono ricoprire nella società unitamente al contributo che possono dare nell’atto di forgiare il proprio destino - dice Haifaa Al Mansour - Voglio incoraggiare le donne saudite a cogliere un’opportunità e a liberarsi dal sistema che ci ha deliberatamente ostacolato così a lungo”. Le cose stanno cambiando in Arabia Saudita, la società sta lentamente aprendosi alle donne e anche all’arte. “Quest’ultimo è un cambiamento per me importante, vengo da una famiglia che ha celebrato l’arte, mia madre amava cantare, per lei era una gioia. Questa apertura rende la società più giusta e più tollerante”.

Del resto il cinema e l’arte in generale uniscono, frantumano gli stereotipi, e la circolazione delle opere è perciò fondamentale. Il film sottolinea come una profonda tradizione culturale, in particolare la musica popolare, vada recuperata e divulgata, coniugandosi con il processo di sviluppo e modernizzazione del paese. “Con la riapertura di sale da concerto, cinema e gallerie d’arte in tutto il Regno - sottolinea la regista - è importante volgere nuovamente lo sguardo alla ricca storia che abbiamo quasi perduto”. La prima sala cinematografica del Regno è stata inaugurata un anno e mezzo fa a Riad, dopo 35 anni dalla loro chiusura.

Ma ci sono donne arabe che sono riluttanti al cambiamento, a partecipare alla vita politica, ad avere incarichi pubblici perché forte è ancora il potere conservatore in Arabia Saudita. “Occorre lottare tutte insieme per superare questa grande resistenza al cambiamento, dobbiamo andare oltre le nostre capacità e coltivare questa idea di essere sorelle in tutto il mondo”. Per Haifaa Al Mansour è stato inoltre difficile mettere insieme una troupe, perché manca in Arabia saudita un’industria cinematografica.

“Certo ci vorrebbero più registe con le loro opere nei festival, ma il mutamento riguarda le produzioni che devono aprirsi molto di più alla creatività delle cineaste. Gli uomini lavorano spesso, e hanno budget più ricchi perché viene riconosciuta loro più esperienza, mentre una regista dopo il suo esordio deve attendere anni per l’opera seconda”.

 
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Pupi Avati ai funerali di Carlo Delle Piane: "Il cinema italiano fa schifo" da ilgiornale

Post n°15277 pubblicato il 30 Agosto 2019 da Ladridicinema
 
Tag: news

Pochi registi e colleghi presenti per ricordare l’attore morto a Roma a 83 anni: Avati si sfoga contro il cinema italiano che “non gli ha portato rispetto”

In 70 anni di carriera ha partecipato a più di cento film, recitando accanto ai più grandi del cinema italiano: da Alberto Sordi ad Aldo Fabrizi, da Totò a Vittorio De Sica. Eppure, non erano molti i registi e colleghi presenti per ricordarlo. Lo ha sottolineato Pupi Avati, di cui Delle Piane è stato attore feticcio, uscendo dalla chiesa.

Il cinema italiano fa schifo. Non mi piace”, ha detto il regista ai microfoni del Fatto Quotidiano. “Il cinema italiano non gli ha portato rispetto. Dov’è oggi?”, ha aggiunto Avati.

Il regista bolognese ricorda un episodio in particolare. Quando lo scorso 17 maggio c’è stata all’Auditoirum di Roma la serata “Signore e signori... Carlo Delle Piane”, per rendere omaggio ai 70 anni di carriera dell’attore, erano in pochissimi i colleghi del mondo del cinema presenti.

Funerali Delle Piane, Pupi Avati: “C’è uno del cinema: io”

Quella sera c’era uno del cinema: io. Basta”, ha dichiarato Avati. In quell’occasione, a parte Avati e il fratello Antonio, il regista Paolo Genovese, l’attore Pasquale “Lillo” Petrolo e il critico Pedro Armocida, il cinema italiano è stato clamorosamente assente. Tra gli ospiti della serata c’erano più musicisti, da Nino Buonocore a Riccardo Sinigallia, passando per Lino Patruno, Marco Zurzolo, Marco Fasano ed altri personaggi della canzone italiana.

Un lungo e fragoroso applauso ha accompagnato l’uscita del feretro di Carlo Delle Piane. Erano tante le persone comuni, tra i pochi colleghi attori sono apparsi Massimo Bonetti, Enzo Garinei, Max Tortora ed Alex Partexano.

Carlo è stato un attore fondamentale nella mia vita”, ha aggiunto Pupi Avati. “Addirittura ad un certo punto Fellini mi disse: ‘Non possiamo chiamarlo perché è troppo vostro’. E quindi l’abbiamo anche probabilmente penalizzato”, ha confessato il regista bolognese. Delle Piane resta uno dei più grandi caratteristi di tutti i tempi, col quale Avati ha girato una quindicina di film nonostante all’inizio pensava fosse “di serie B”.

 
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