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Il Joker incendia il Lido da cinecittànews

Post n°15302 pubblicato il 01 Settembre 2019 da Ladridicinema
 

VENEZIA – Joker, come è giusto che sia, porta un po’ di scompiglio. Al Lido, la proiezione e relativa attività stampa del film con Joaquin Phoenix (vagamente) ispirato alla figura dello storico nemico di Batman sono attesissime. Si intensifica la densità in sala e con essa i controlli di sicurezza, si allungano le file e si tarda un po’, ma alla fine tutto si conclude, almeno per la proiezione stampa, con un sonoro applauso. C’è chi inneggia all’Oscar soprattutto per l’ottima interpretazione di Joaquin Phoenix, sorprendentemente anche molto fisica. L’attore ha perso peso e lavora con il corpo contorcendolo per mostrare il disagio del suo personaggio, al pari di quello che fa con la smorfia e la risata, che risultano dolorose e sofferte.

Arthur Fleck, così si chiama il personaggio in questa versione, è una persona disturbata. La sua malattia lo porta a scoppiare in risa anche quando vorrebbe piangere o semplicemente scomparire dal mondo. Non è il Joker di Nolan, né quello di Burton, né quello dei fumetti. A dirla tutta, non è proprio il Joker. Pur essendo autorizzato dalla DC Comics, ha l'approccio di un apocrifo. Il marchio della casa editrice non compare in apertura, c'è solo quello della Warner, graficizzato come lo era negli anni ’70, il che inquadra il film anche temporalmente. Una serie di traumatiche scoperte, la malattia di sua madre e soprattutto la classica 'giornata storta' lo porteranno a intraprendere un percorso di violenza, l'unico che sembra offrirgli uno sbocco e una risposta.

Tutto il film è, in effetti, giocato su due grosse ambiguità: ‘Joker’ è un termine generico, che può indicare semplicemente il giullare, il buffone, il Jolly delle carte, il clown, l’uomo che ride (del resto Hugo fu di ispirazione proprio al fumettista Bob Kane per la creazione del personaggio), e inoltre, come sa chi ha letto l’epocale fumetto The Killing Joke o ha visto il nolaniano Il Cavaliere Oscuro, il villain non ha un passato ben delineato. Essendo fuori di testa, se lo ricorda ‘in versione multipla’. Questa potrebbe essere una delle sue molte origini. Ma anche semplicemente la storia di un pazzo che, suo malgrado, diventa il simbolo di una battaglia di classe. E il suo trucco diventa il baluardo di un movimento, come la maschera di Guy Fawkes da V per Vendetta, in un’ambientazione anni ’70 sorretta da una fotografia elegante e da un montaggio pulsante e ansiogeno.

“Non c’è niente di autobiografico – precisa subito il regista Todd Philips, conosciuto per lo più per commedie come Road Trip o Una notte da leoni – è diverso nei toni da quello che ho fatto finora, ma è una narrazione semplice. Inizio, sviluppo, fine. Se hai un grande interprete a disposizione lo puoi fare senza problemi. Per la verità sono al di fuori del mondo dei fumetti, e non ho idea di come questo film possa influire sulle scelte della DC o della Warner in futuro. Lo abbiamo concepito come un approccio alternativo al genere, ma i cinecomic vanno già bene, fanno molti soldi, e non hanno bisogno di essere cambiati. E’ probabile che questo film resti un caso isolato. Sicuramente convincere gli studios a farlo è stato molto difficile. Ci è stato utile usare un personaggio che sostanzialmente non ha un passato ben definito. C’era spazio per lavorarci su. Certo abbiamo usato del materiale dai fumetti, ci piaceva l’idea del comico fallito da The Killing Joke, ma ci siamo posti poche regole e pochi limiti. Alcuni aspetti dei personaggi li abbiamo scoperti noi stessi durante le riprese. La violenza che c’è nel film è parte di quest’atmosfera. Potrebbe sembrare un film molto violento, ma se guardi John Wick, per esempio, lo è molto di più! In Joker abbiamo inseguito una chiave realistica, una violenza che fosse un pugno nello stomaco. Abbiamo lavorato molto insieme con Joaquin, sei mesi prima del via alle riprese. 

“Ho lavorato innanzitutto sul tema della perdita – racconta Phoenix – e quindi sono partito dal fisico. Ho perso peso. Cosa che ci aiuta anche sul versante psicologico. Poi abbiamo attaccato la personalità del Joker, e io non volevo che fosse definita psichiatricamente. Cioè non volevo che un medico potesse individuare specificamente il profilo del personaggio. Non ha riferimenti specifici nella realtà. Non pensavo di essere in grado di lavorare su quella risata così sofferta, inizialmente. C’è stato un momento in cui ho pensato di delegarla a qualcun altro. C’è voluto tempo. Todd mi descriveva questa risata come qualcosa di doloroso, ho pensato che fosse un’idea interessante.  Ma non volevo che fosse ridicolo, così ho lavorato su varie modulazioni”.

“Non è un film prettamente politico – aggiunge Philips – questo Joker non è quello di Nolan. Non vuol vedere bruciare il mondo anche se alla fine, il mondo brucia lo stesso. Lui cerca approvazione, e crede che il suo scopo sia far ridere la gente. Naturalmente ho varie ispirazioni, anche se devo dire che Taxi Driver, che molti chiamano in causa, non è tra queste. Ovviamente lo è L’uomo che ride, che è alla base del personaggio”.

“Paradossalmente – dice Phoenix – non penso che questo Joker sia un personaggio tormentato, ci ho passato otto mesi cercando di capire chi fosse e da dove venisse, e discutevo con Todd ogni opzione ma ogni volta facevamo un passo indietro. Dicevamo ‘rifacciamolo, abbiamo sbagliato’. E alla fine abbiamo raggiunto il risultato”.

Il film, prodotto tra gli altri da Martin Scorsese, in uscita in Italia il 3 ottobre, vede nel cast anche Robert De Niro e Zazie Beetz (star di Deadpool).

 
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Costa-Gavras, la crisi greca e la faccia nera dell’Europa

Post n°15301 pubblicato il 01 Settembre 2019 da Ladridicinema
 

VENEZIA - È basato sull’omonimo e appassionato memoir Adults in the Room, scritto dall’ex ministro delle Finanze della Grecia, Yanis Varoufaki, l’ultimo film del grande cineasta francese di origine greca Costa-Gavras, presentato Fuori Concorso a Venezia, dove ritira stasera anche il premio Jaeger-LeCoultre Glory to the Filmmaker per “aver saputo fare della politica un tema affascinante, un soggetto come un altro, da affrontare non fra iniziati consapevoli e già convinti, ma da somministrare al grande pubblico, servendosi di tutti i mezzi che il cinema fornisce per accedere al più grande numero possibile di spettatori”, come sottolinea il direttore della Mostra Alberto Barbera. “Grazie all’indignazione autentica che ispira i suoi film -  continua - all’umanesimo profondo che li caratterizza e alla libertà che essi reclamano, Costa-Gavras interroga le nostre debolezze e la nostra arrendevolezza. Come è stato detto, “se ci eravamo addormentati, il suo cinema ci risveglia. E se l’abbiamo perduta, i suo film ci restituiscono la speranza”.

. Ma, tra negoziati a porte chiuse nei grigi uffici dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale, si scontrò con il brutale circolo dell’Eurogruppo, una rete economica e politica di potere che riuscì a mettere in atto una trappola senza via d’uscita.

“Le sinistre europee hanno fallito dappertutto e l’Europa è diventata un impero non liberale – sottolinea Costa-Gavras - Negli ultimi è stata diretta male, spero che con la nuova dirigenza le cose possano cambiare. Questo si mescola con il problema della sinistra e della destra, bisogna chiarire le cose, ma non si fa in pochi anni con il ritorno dei populisti, che stanno rivivendo quello che è successo con esiti disastrosi negli Anni 30”.             

Nel ruolo della moglie di Varoufakis, Valeria Golino, greca per origini materne: “Valeria mi ha fatto il grande regalo di accettare questo piccolo ruolo, avevo bisogno da un’attrice dal carattere forte, ha un piccolo ruolo ma ha apportato al nostro film la sua sensualità e intelligenza. Mi piace molto come attrice ma anche come sceneggiatrice fa degli ottimi film”.

“Ho accettato immediatamente e avrei lavorato anche per un solo giorno sul set o solo per guardare”, ha ammesso l’attrice che è alla mostra con altre due pellicole (5 è il numero perfetto e Tutto il mio folle amore). Il film è stato per me anche l’occasione di capire di più di una tragedia sociopolitica vissuta più o meno direttamente sulla mia famiglia in Grecia. L’occasione per capire cosa era successo veramente, e riuscire ad andare oltre quello che avevo letto sui giornali o era frutto dei miei pregiudizi”.

 
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Legge Cinema: lo stato di avanzamento

Post n°15300 pubblicato il 01 Settembre 2019 da Ladridicinema
 
Tag: news

VENEZIA - Il Festival di Venezia è l’occasione per fare il punto sul settore audiovisivo cinematografico a quasi tre anni dall’entrata in vigore della Legge Cinema e Audiovisivo (220/2016). Ci sono voluti tre decreti legislativi, 20 decreti attuativi, un protocollo di intesa tra il MiBAC e il MIUR e un atto di intesa tra il MiBAC e la Conferenza unificata perché si attuassero le disposizioni della legge, che si può dire operativa da settembre 2017 ma, in base a quanto dichiarato dal DG Cinema e Audiovisivo Mario Turetta nel corso della conferenza di presentazione tenutasi all’Italian Pavilion al Lido, non completamente attuata.

Nel 2019 restano infatti ancora da approvare alcuni provvedimenti, tra cui il credito di imposta per le imprese di produzione di videogiochi (previsto dall’art. 15 della legge), il credito d’imposta per le industrie tecniche e di post produzione (art. 17 par. 2), l’istituzione del Registro pubblico delle opere cinematografiche e audiovisive (art. 32), la riforma delle disposizioni legislative in materia di tutela dei minori nel settore cinematografico e audiovisivo (Art. 33) e di promozione delle opere europee e italiane da parte dei fornitori di servizi di media audiovisivi (Art. 34), le disposizioni in materia di lavoro nel settore cinematografico e audiovisivo (Art. 35).

Relativamente al tax credit, lo scorso 5 agosto si aperto un tavolo al MiBAC con le associazioni per discutere una revisione dell’impianto normativo (norma primaria e/o solo decreto attuativo) per dare maggiore certezza delle risorse disponibili, semplificare le procedure, apportare correttivi tecnici e procedurali per migliorare lo strumento. Le risorse riferite alle domande della II e III sessione 2018 e della I sessione 2019 (per le quali è stato riconosciuto il credito teorico e che sono effettivamente utilizzabili da parte dei soggetti richiedenti) sono pari a 412,3 milioni di euro. La linea di intervento che ha richiesto più risorse è stata quella della produzione di film, con 143,9 milioni di euro, seguita dalla produzione di opere televisive e web, 137,2 milioni di euro, e dalla produzione esecutiva di opere straniere, che ha richiesto 84,2 milioni di euro.

Per quanto riguarda i contributi selettivi, le domande presentate nel 2018 sono state 1.366, in forte aumento rispetto alle 1.091 del 2017. La maggior parte delle risorse è andata alla produzione per la quale sono stati assegnati 23,8 milioni di euro; segue lo sviluppo e pre-produzione, 2,4 milioni, la scrittura di sceneggiature, 740 mila euro, e la distribuzione nazionale, 375 mila euro (su 2,9 milioni stanziati). L’importante novità del 2019 è il bando per le produzioni minoritarie, che elargisce contributi selettivi per la produzione di lungometraggi cinematografici realizzati in coproduzione in cui la partecipazione italiana sia minoritaria. Il bando ha una dotazione complessiva di 5 milioni di euro divisi in due sessioni, la prima in scadenza il 13 settembre, la seconda dal 7 al 31 ottobre.

Sono stati pubblicati il 29 maggio gli esiti dell’istruttoria di ammissibilità ai contributi automatici per il 2018 in base ai risultati economici culturali e artistici dei 5 anni precedenti, per i quali sono state presentate 346 domande. Lo scorso 5 agosto è stata pubblicata la graduatoria che ha assegnato 45,5 milioni di euro, andati principalmente alle opere cinematografiche (34 milioni), seguite da quelle audiovisive (5 milioni).

In merito al sostegno alla promozione, infine, nel 2019 è stato emanato un bando unico per la concessione di contributi a iniziative di sviluppo della cultura cinematograficafestival, rassegne e premiattività delle cineteche. Al momento le risorse assegnate sono state pari a 4,8 milioni di euro per festival, rassegne e premi e 1,6 milioni di euro per iniziative di sviluppo della cultura cinematografica; ai progetti speciali sono andati 1,9 milioni di euro.

 
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Gli incompiuti di Fellini

Post n°15299 pubblicato il 01 Settembre 2019 da Ladridicinema
 

VENEZIA. “Avrei potuto concentrarmi sui due film mai realizzati da Fellini, ma ho voluto privilegiare un’operazione di recupero della memoria, soprattutto per tutti quei giovani che non conoscono l'artista e tanti altri nostri grandi registi. C’è oblio sulla sua figura, perciò ho ritenuto necessario riproporre la sua storia in chiave non celebrativa. E allora 'raccontare la vita', come lui mi ha insegnato quando sono stato sui suoi set, conoscendo un uomo di grande modestia, che metteva a disposizione il suo ego”.

Eugenio Cappuccio, classe 1961, che presenta a Venezia Classici Fellini fine mai, è stato suo assistente, come “clandestino a bordo” di E la nave va, poi assistente effettivo in Ginger e Fred. Nel 1990, su richiesta di Fellini, gira il suo primo documentario sul set de La voce della luna. Fellini fine mai nasce dalla volontà della Direzione di Rai Teche di rendere omaggio al Maestro avvalendosi principalmente del materiale di repertorio presente nel grande patrimonio delle Teche Rai e andrà in onda sulla Rai a gennaio in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita del cineasta

Nel documentario il materiale Rai riproposto si arricchisce di numerose testimonianze originali, tra cui Vincenzo Mollica, Antonello Geleng, Sergio Rubini, Francesca Fellini, Andrea De Carlo, Mario Sesti. E soprattutto dà voce a un altro grande che negli ultimi anni di vita e lavoro di Fellini lo ha affiancato per dare spesso forma e colore ai sogni che del Maestro l'industria faticava a realizzare: il disegnatore e fumettista Milo Manara.

Se la prima parte di Fellini fine mai è concentrata sulla biografia e le prime opere del regista, a partire dalle radici riminesi fino ai primi Oscar. La seconda è nel segno dell’indagine in uno scenario poco visitato, quello dei due film che non volle o non poté fare, Viaggio a Tulum Il viaggio di G. Mastorna, accanto al pensiero di Fellini, alla sua voce, che creano così un dialogo vivo e ricco con il presente. Cappuccio attraverso testimonianze inedite, interviste, immagini di paesaggi americani, fumetti e disegni originali, ripercorre gli inquietanti avvenimenti occorsi a Fellini e ai suoi collaboratori durante il viaggio in Messico, verso Tulum, nello Yucatan.

Premonizioni, messaggi, comunicazioni, segnali che sembravano erigere ostacoli insormontabili al film che Fellini si era preposto di girare. Si scopre così che chiunque abbia avuto la fortuna di lavorare accanto al Grande Maestro non ha soltanto partecipato a un’avventura culturale, figurativa, estetica contribuendo a realizzare dei capolavori, ma ha condiviso un mondo fantastico in cui la realtà si intrecciava con la superstizione e in cui erano fondamentali i segni del destino e le premonizioni. Il titolo Fellini fine mai perché sullo schermo l’artista non metteva la parola ‘fine’ al termine delle vicende raccontate, costante era il legame tra un film e il successivo, con i personaggi creati che migravano da un’opera all’altra.

 
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The Laundromat: Soderbergh come Brecht sullo scandalo dei Panama Papers

Post n°15298 pubblicato il 01 Settembre 2019 da Ladridicinema
 

VENEZIA – In concorso al Lido The Laundromat di Steven Soderbergh, che porta sullo schermo lo scandalo dei Panama Papers, risalente al 2015, quando un anonimo giustiziere telematico portò alla luce un giro di evasione fiscale mondiale che vide coinvolti politici, capi di governo e personaggi pubblici. Un sistema in piedi addirittura dagli anni ’70, secondo la raccolta di documenti dello studio legale di Panama Mossack Fonseca. L’argomento è serio e la trattazione complessa, ma a farci da guida nella comprensione di difficili analisi finanziarie ci sono dei personaggi costruiti da Soderbergh come ‘ponti’ tra lo spettatore e il film. I primi due sono proprio Mossack e Fonseca, interpretati rispettivamente da Gary Oldman Antonio Banderas. Rompono la quarta parete, dialogano direttamente col pubblico e irrompono in scena illustrando lo sviluppo della vicenda con siparietti ed esempi efficaci, come quando si mettono a parlare di vacche e banane. Uno stratagemma simile a quello adottato da La grande scommessa di Adam Short (2015) con Christian Bale.

E poi c’è un personaggio interno alla storia e appositamente costruito per essa, Ellen Martin (Meryl Streep), che scopre la maxi frode quando, dopo aver perso il marito in un incidente, si ritrova a fare ricerche su una polizza assicurativa falsa. Il film si basa su 'Secrecy World', il libro scritto dal premio Pulitzer Jake Bernstein. Sarà distribuito su Netflix il 18 ottobre.

Fanno parte del cast anche Robert Patrick, Sharon Stone, David Schwimmer Jeffrey Wright. “Intrattenere il pubblico parlando di qualcosa di così serio – dice Meryl Streep – è una cosa che poteva riuscire solo a Soderbergh o a Bertolt Brecht. E’ un vero cinefilo, mentre io mi ricordo a malapena la trama dei miei film. Qui si parla di motivazione, di gente che non si ferma alla ricerca della verità, e il lutto può essere un grande motivatore. In effetti, dipendiamo tutti da persone come queste. Di questo scherzo oscuro siamo stati tutti vittime, compresi alcuni vostri colleghi giornalisti. Una giornalista maltese è morta indagando sulla verità. E’ un film che diverte e fa ridere ma parla di qualcosa di veramente molto importante”. “Qualsiasi regista della mia generazione – dichiara Soderbergh – è influenzato dal decennio che va dal ’66 al ’79, è stato un momento di grande ispirazione, audacia e libertà, c’era una sincronicità tra gli artisti e il pubblico e abbiamo avuto grandissimi film e grandissimi registi. Per me è meraviglioso stare sulle spalle dei grandi che hanno fatto questo lavoro prima di me. Quando ci siamo resi conto che il film avrebbe avuto un approccio ‘antologico’ è venuto subito spontaneo inserire i cartelli e le scene di apertura e chiusura, con Oldman e Banderas che si rivolgono al pubblico”.

“Ho imparato la sceneggiatura a memoria – dice Oldman – ma poi sul set abbiamo cambiato in continuazione, e così via fino al montaggio. Di solito si arriva sul set alle 7.30 di mattina, ci si prepara, si fa un blocco e poi devi aspettare anche tre o quattro ore che aggiustino le luci. Un attore rischia di perdere energia. Ma con Soderbergh non succede, ha impostato un ritmo di lavorazione speciale e sono sempre stato occupato e in ottima compagnia. Poi non si fatica molto quando hai battute su mucche e banane. Funziona tutto alla perfezione. Non interpreto il vero Mossack ma una sua versione, avevo tutti gli elementi pronti per fare bene”.

“Il progresso tecnologico – conclude Soderbergh – mi permette di lavorare in maniera veloce. Mi piace quand’è così, perché significa che ho fatto bene i compiti a casa. Amo la spontaneità. Magari avessi avuto questa tecnologia a disposizione da giovane. Sarei riuscito a fare molto di più”.

 
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The New Pope: debutta al Lido il secondo Papa di Sorrentino

Post n°15297 pubblicato il 01 Settembre 2019 da Ladridicinema
 

VENEZIA -  In anteprima Fuori Concorso alla Mostra due episodi dell’attesa serie SKY-HBO-CANAL + firmata da Paolo Sorrentino The New Pope, che riprende il racconto esattamente dove finiva The Young Pope. Il papa Pio XIII, il tormentato Lenny Belardo (Jude Law) è entrato in coma e così il segretario di Stato il Cardinal Voiello (Silvio Orlando) decide che va eletto un nuovo papa. La scelta ricade su Sir John Brannox (John Malkovich), un aristocratico inglese moderato, affascinante e sofisticato che prende il nome di Giovanni Paolo III. Il secondo Papa di sorrentino è un personaggio sui generis, che cela fragilità e segreti, e soprattutto capisce che sarà difficile prendere il posto del carismatico Pio XIII. “Avevo visto The Young Pope, una serie che mi è piaciuta moltissimo così come molti dei lavori precedenti di Sorrentino- rivela John Malkovich -  Ci siamo incontrati in Toscana e abbiamo parlato di fare questo papa britannico, di mettere in scena la voglia che la ha gente di qualcosa di spirituale, di qualcosa a cui credere, anche se è completamente irrazionale come un miracoli”.

Sospeso tra la vita e la morte Lenny Belardo è diventato un Santo e sono ormai migliaia i fedeli che lo idolatrano alimentando un contrasto tra i fondamentalismi. “Mentre nella prima serie volevamo raccontare il Vaticano visto dall’interno, quasi senza contatti con il mondo che c’è fuori -  racconta Paolo Sorrentino - in questa abbiamo voluto fare il contrario, mettere in contatto l’interno con l’esterno e far entrare elementi di attualità nella narrazione. Ci concentriamo anche sulle derive fondamentaliste, un argomento di scottante attualità che rischia di essere dietro l’angolo”.

Nel cast anche Javier Cámara, Cécile de France, Ludivine Sagnier, Maurizio Lombardi, già protagonisti in The Young Pope. New entry Henry Goodman, Ulrich Thomsen, Mark Ivanir, Yuliya Snigir e Massimo Ghini e le guest star Sharon Stone e Marilyn Manson. “Questo è davvero un lavoro collettivo – sottolinea Sorrentino - possibile soprattutto grazie alla grandezza di tutti gli attori. Come diceva Carmelo bene ‘Non servono attori bravi ma attori capaci di essere fuori di sé”, e loro sono tutti grandi attori che hanno la capacità di andare oltre”.

Di impatto notevole le ricostruzioni di alcuni luoghi simbolo del Vaticano fatte all’interno del Teatro 5 di Cinecittà: “Giravamo nel Vaticano - racconta Javier Cámara - essere per me nello Studio 5 dove Fellini ha girato il suo film e dove è stata ricostruita la Cappella Sistina è come essere in cielo. Io sono stato nel cielo tutto questo tempo: grazie Paolo!”

La serie originale è creata e diretta da Sorrentino, prodotta da Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Wildside, parte di Fremantle, e co-prodotta da Haut et Court TV e The Mediapro Studio. Scritta da Paolo Sorrentino con Umberto Contarello e Stefano Bises. La fotografia è di Luca Bigazzi, cui è stato assegnato il premio Campari Passion for Film  istituito lo scorso anno al Lido: “Con Luca Bigazzi c'è un rapporto cosi antico che riusciamo a capirci senza parlarci, è quasi come un rapporto sentimentale. E come nelle migliori storie d’amore le parole sono irrilevanti”, commenta il regista.

 
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J'accuse, thriller politico di Polanski

Post n°15296 pubblicato il 01 Settembre 2019 da Ladridicinema
 

VENEZIA. Roman Polanski, 86 anni, non c’è al Lido a parlare del suo J’accuse, nel Concorso ufficiale, un potente ed elegante thriller politico, più che un dramma storico, sul famoso caso Dreyfus, che dal 1894 fino al 1906 divise la Francia, tra colpevolisti, tanti, e innocentisti, pochi, in un clima fortemente antidemocratico e antisemita, irrazionale, ‘di pancia’. Evidenti nel film sono i rimandi all’oggi, al rinascente razzismo, così come alla storia personale del regista, più volte vittima di persecuzioni.

L'affare Dreyfus ha come protagonista il soldato ebreo francese Alfred Dreyfus, ingiustamente accusato di essere una spia dei tedeschi e quindi processato per alto tradimento. Dreyfus sostiene la sua innocenza combattendo contro un'intera nazione, ma la sentenza condanna “il traditore” ad essere confinato sull'isola del Diavolo, nella Guyana francese. Il caso ha una notevole risonanza mediatica e politica dividendo l'opinione pubblica del tempo. Tra i difensori di Dreyfus si schiera lo scrittore Émile Zola, con un articolo intitolato “J'accuse” in cui chiama in causa i vertici militari, puntando il dito contro l’antisemitismo imperante nella Terza Repubblica francese.

Inizialmente Polanski aveva pensato di raccontare la storia dal punto di vista di Dreyfus, poi convinto che non avrebbe funzionato, ha scelto come personaggio centrale Georges Picquart, un ufficiale dell'esercito francese che svelerà l’innocenza di Dreyfus, si batterà per la sua liberazione e riabilitazione affrontando il carcere. Tutto quello che il film mostra è vero, è una ricostruzione fedele degli eventi e Polanski ha scritto la sceneggiatura insieme a Robert Harris, autore del romanzo da cui il film è tratto “L'ufficiale e la spia”, edito da Mondadori e risultato di ricerche approfondite. Da un romanzo di Harris il regista aveva già tratto nel 2010 il suo L'uomo nell'ombra.

Per Roman Polanski oggi potrebbe di nuovo accadere un nuovo affare Dreyfus, “tutti gli ingredienti sono disponibili: false accuse, pessimi procedimenti giudiziari, giudici corrotti e soprattutto i social media che condannano e condannano senza un processo equo o un diritto all'appello”, dice nelle note di regia. “Lavorare, girare un film come questo mi aiuta molto. Nella storia raccontata, a volte ci sono momenti che ho vissuto in prima persona, come la stessa determinazione nel negare i fatti e nel condannarmi per cose che non ho fatto. La maggior parte delle persone che mi attaccano e mi tormentano, non mi conoscono e non sanno nulla del caso. Devo ammettere che ho familiarità con molti dei meccanismi dell'apparato di persecuzione mostrato nel film, e questo mi ha chiaramente ispirato”.

J’accuse, in sala il 21 novembre con 01 Distribution, è una co- produzione Francia - Italia con la Eliseo Cinema di Luca Barbareschi e Rai Cinema. E proprio Barbareschi, a nome di tutto il cast, apre l’incontro con i giornalisti ricordando che la Mostra non è “un tribunale morale ma un luogo che privilegia l’arte e che tutte le polemiche sono lasciate alle spallee dunque risponderemo solo degli aspetti artistici e produttivi di un film nato parecchi anni fa e di un’attualità sconcertante. Un film che la giuria valuterà per quello che è”.

All’origine si pensava di girare il film in lingua inglese per conquistare i mercati internazionali, e poi si è scelto il francese perché la vicenda, benché universale, aveva coinvolto tutta la Francia, spiega il produttore Alain Goldman. “Il cinema è uno strumento importante per conoscere gli eventi - aggiunge - ma anche una delle risposte più forti all’antisemitismo e all’ignoranza. Nel film il vero eroe è Il colonnello Picquart, un uomo eccezionale che indica la via da seguire”.

Jean Dujardin, che veste i panni del protagonista Picquart, aveva dei ricordi scolastici della vicenda di Dreyfus, ma non conosceva tutti i dettagli”. Come sempre si “è tuffato” più volte nella sceneggiatura per cogliere le sfumature, anche perché “la star del film era la vicenda di Dreyfus e dovevo essere al suo servizio”. Emmanuelle Seigner, nel ruolo dell'amante di Picquart, ammette di avere avuto una conoscenza superficiale dell’avvenimento che ha diviso la Francia dell’epoca. Per l’attrice, che oggi festeggia i 30 anni di matrimonio con Polanski, è sufficiente guardare alla vita di Roman per spiegare il sentimento di persecuzione che si respira nel film.

“Sul set Roman è un regista molto preciso, nelle inquadrature, nella posizione del viso”, dice ancora la Seigner. Per Dujardin è un cineasta molto esigente: “Quello che Roman cerca è la verità a tutti i costi di quello che racconta, da te pretende molto, girando una scena anche 30/40 volte”. Louis Garrel, la vittima Dreyfus, conosceva l’appassionante storia del suo personaggio, "la cui esistenza per 10 anni è stato un inferno. E anche quella dei suoi figli, non dimentichiamolo, che sono stati deportati durante la Seconda Guerra mondiale". Del resto, aggiungiamo noi, il caso Dreyfus annuncia e prepara la successiva tragedia della Shoah.

 
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Terza età in corto con Virzì

Post n°15295 pubblicato il 01 Settembre 2019 da Ladridicinema
 

Il tempo della vita, la terza età e le sue peculiarità, questo il tema di Corti di Lunga Vita (www.cortidilungavita.it), concorso di film brevi alla sua terza edizione, che viene presentata giovedì 5 alle 16 dall’Associazione 50&Più presso lo Spazio Fondazione Ente dello Spettacolo.  

L’iniziativa, nell’edizione 2019, che vanta la giuria presieduta da Paolo Virzì, ha come tema “Tutta la vita”, richiamo esplicito a uno dei brani più amati di Lucio Dalla: si guarda all’età matura, a quel periodo della vita carico di esperienza, di possibili e nuove opportunità, alla capacità di guardare il mondo con più consapevolezza, ma anche con quel senso di leggerezza che proprio la canzone del cantautore bolognese suggerisce.

I corti che vogliono partecipare hanno scadenza di consegna entro il 10 novembre 2019, la premiazione è fissata nel mese di dicembre a Roma: nell’incontro al Lido, presenti  Sebastiano Casu, vice presidente vicario di 50&Più, don Davide Milani, presidente Fondazione Ente dello Spettacolo, Gabriele Sampaolo, segretario generale di 50&Più, Anna Maria Melloni, direttore centro studi di 50&Più. 

 
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Eduardo a ritmo di rap

Post n°15294 pubblicato il 01 Settembre 2019 da Ladridicinema
 

VENEZIA – Passa oggi in concorso l’atteso Il sindaco del rione sanità di Mario Martone, ispirato al testo immortale di Eduardo De Filippo. Testo che Martone ha già diretto a teatro e che viene qui attualizzato e rivisitato, con un Antonio Barracano assai più giovane della versione originale (Francesco Di Leva), un’ambientazione moderna con la colonna sonora rap, e un finale asciugato e affidato esclusivamente al mezzo cinematografico e alle immagini, senza monologhi. Il plot, però, resta inalterato: Don Antonio Barracano è una figura temuta e rispettata nel rione Sanità di Napoli, dove è noto come “il Sindaco” e si occupa di dirimere le liti e amministrare la giustizia secondo i propri criteri, attraverso metodi anche brutali. Quando un ragazzo deciso a uccidere suo padre richiede il suo aiuto, Barracano rivede in lui la sete di vendetta che da giovane lo ha reso ciò che è ora e decide di intervenire, mettendosi in una situazione pericolosa.

“Come attore – dice Di Leva – ho analizzato il testo in cerca di spunti, partendo da dove e quando è nato. Tra il 59 e il 60, quando Che Guevara iniziava la sua rivoluzione a Cuba e Muhammad Ali vinceva le Olimpiadi a Roma. Con il Che non mi tornavano i conti, quindi mi sono riferito a Muhammad, che tra le varie cose è considerato uno degli inventori del rap. Chissà se Eduardo aveva in mente questo nero alto e arrogante che conquistava il mondo quando ha creato Barracano. Questo film doveva avere un sound diverso da quello che aveva lo scritto di Eduardo e lo abbiamo individuato nel rap. Eduardo racconta il Sindaco alla fine della sue vita, in vestaglia e pantaloncini. Io ho provato qualcosa di diverso, a teatro. Entravo in scena in tuta e cappuccio, portandomi una panca dalla palestra e mettendomi a fare gli addominali, cosa che è stata la mia tortura per tutte le prove. Mi sono anche rotto una mano, abbiamo sfruttato la cosa in scena”. Lo conferma anche il giovane Antonio Pantaleo: “dentro di noi risuonavano le parole di Eduardo e il suo ritmo, ma Mario ci ha detto: ‘è uno spartito. Se Eduardo è la chiave classica, noi dobbiamo suonarlo come un pezzo rap’. E il suono ha iniziato a prendere concretezza”.

Martone si concentra in conferenza soprattutto sul rapporto tra cinema e teatro: “Ci sono ovviamente i maestri del ‘cinema teatrale’: Polanski, Fassbinder, Wells e anche Kurosawa. Nel momento in cui ho portato questo testo a teatro ho subito immaginato che se ne potesse fare un film, ma il passaggio funziona solo se il teatro lo conosci e lo rispetti, con la sua compattezza drammaturgica, senza volerlo allargare o ampliare. Abbiamo girato in due ambienti soli, due appartamenti, è una limitazione ma anche una bella sfida. Nel terzo atto, pieno di personaggi in una sola stanza, mi sono ispirato a Hitchcock. Rossellini diceva che la macchina da presa è una forchetta, e quello che conta è cosa porti alle labbra”.

Sul cambio di rotta finale, interviene la sceneggiatrice Ippolita di Majo: “Il finale per noi è solo parzialmente divergente dall’originale, abbiamo affidato alla sola immagine quello che Eduardo affidava a un monologo moraleggiante, e che abbiamo trovato potesse risultare retorico. Non avrebbe avuto la stessa potenza civile, quindi ci siamo totalmente appoggiati sull’immagine cinematografica”. “Di Eduardo si parlerà ancora tra trent’anni e oltre – dice Martone – ma non potevo rappresentare lo spettacolo ai cittadini della Napoli di periferia mettendo in bocca a un personaggio le parole ‘si ammazzassero tra di loro’. Io volevo incontrarli, mettendo in risalto il gesto di responsabilità individuale. Il sacrificio di Barracano diventa ancora più significativo e potente se attuato da una persona giovane e non da un uomo sul viale del tramonto”.

Nel cast anche Massimiliano Gallo, Roberto De Francesco, Ernesto Mahieux. In sala dal 30 settembre al 2 ottobre con Nexo Digital.

 
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Diatriba nel mondo dei comics per le dichiarazioni di Servillo da news.cinecittà

Post n°15293 pubblicato il 01 Settembre 2019 da Ladridicinema
 

Ha scatenato polemiche nel mondo del fumetto italiano la dichiarazione di Toni Servillo a 'La Repubblica' durante un'intervista per la promozione di 5 è il numero perfetto, passato a Venezia alle Giornate degli Autori, tratto da una graphic novel di Igort, che ne firma anche la regia. 

“Igort è uno straordinario autore di graphic-novel - ha detto l'attore - un genere che si affranca dalla riduttività del fumetto e va verso una ambizione ormai conclamata di vera e propria letteratura e 5 è il numero perfetto appartiene a questo genere, per cui noi non abbiamo mai avuto la sensazione di dover passare dalla bidimensionalità alla tridimensionalità.  Sia detto con il massimo rispetto: nessuno di noi ha pensato di fare Paperino e Topolino al cinema”.

Sui social la posizione è stata molto discussa tra gli autori di fumetti, a partire tra le distinzioni tra graphic novel e fumetto, che sono state interpretate come divisive di ciò che in realtà appartiene a un unico genere in due forme differenti, passando per la chiusura finale sul mondo Disney.

 
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Festival di Venezia 2019, Joker: una risata straziante ci seppellirà. La recensione da bestmovie

Post n°15292 pubblicato il 01 Settembre 2019 da Ladridicinema
 

La regia di Todd Phillips e l'interpretazione di Joaquin Phoenix sono i pilastri di un'operazione coraggiosa e ambiziosa: non un cinecomic tradizionale, ma una origin story da brividi. Un racconto di solitudine e psicopatologia colmo di disperazione e compassione, macabro e straziante

Ci sono sorrisi e sorrisi. C’è il sorriso che la gente comune si disegna addosso ogni giorno – ordinario, di comodo – e poi c’è il sorriso sgrammaticato e fuori dai bordi di Arthur Fleckcomico fallito con velleità da stand-up comedian. Una risata strozzata in gola, sinistra e stridula, di quelle che fanno rizzare i peli sulla nuca. Un rantolo che tiene insieme lo stupore e l’orrore dell’essere ancora vivo, i traumi di un bambino schizofrenico e mai cresciuto, avvolto in una maschera di laconica tristezza, e il sogno scriteriato di tramutare quella paralisi depressiva e monomaniacale nella smorfia del clown più sanguinario in circolazione.

Sono partiti proprio da questa risata patologica, così vasta e perturbante da abbracciare l’intero film, il protagonista Joaquin Phoenix e il regista Todd Phillips per per portare sul grande schermo l’origin storydel più celebre dei nemici di Batman in Jokerprimo film stand-alone sul personaggio della DC Comics. E di quel ghigno obliquo, di quello strazio del volto, di quella feritoia in grado inghiottire il caos del mondo con la stessa naturalezza con cui si liquiderebbe una barzelletta macabra che non fa ridere proprio nessuno, hanno realizzato un film coraggiosissimo, impressionante a più riprese.

Uno di quei corpi estranei meravigliosamente ostili alle mode imperanti, al calcolo e all’obbligo della consolazione, dotato della forza e dell’ambizione necessarie per sobbarcarsi il peso di un’umanità al collasso, per guardarsi allo specchio guardandola negli occhi. L’inizio ci mostra una città che potrebbe essere una delle tante metropoli odierne, assediata com’è dalla sporcizia, dal malessere sociale, dalla spazzatura montante e dai ratti giganti. Come una Grande Mela scorsesiana, la Gotham City di Joker somiglia alla New York livida del regista di Re per una notte e Taxi Driver, esplicitamente citati dalla presenza di Robert De Niro nei panni dello showman Murray Franklin, e da molte inquadrature e atmosfere.

Per quasi un’ora e mezza il film si lascia andare allo scandaglio catatonico, tanto ammaliante quanto spiazzante nella sua precisissima idea di disperazione, di un freak da cui la follia sgorga con l’automatismo struggente del trucco che colerà dalle sue labbra e dalle tante, trattenute lacrime che l’interpretazione di Joaquin Phoenix – miglior Joker di sempre, così scarno e a brandelli da lasciare senza fiato – ci regaleranno lungo tutto il suo percorso di emancipazione criminale. Col racconto pronto ad aprirsi costantemente e senza difese all’emarginazione, alla malattia, allo scherno altrui.

La sceneggiatura di Scott Silver e Todd Phillips e la regia post-apocalittica e funerea di quest’ultimo si ricollegano sfacciatamente al lascito di Heath Ledger ne Il cavaliere oscuro: una ragione che indurrà i fan di Nolan ad amare perdutamente questo Joker, che tuttavia si spinge anche oltretracciando unospaccato allucinato tanto sul potere quanto sulla solitudine. Senza tralasciare un cortocircuito ulteriore, davvero da brividi: Phillips riconduce quasi tutte le sue immagini intorno al corpo e alla mente di un individuo neurologicamente allo sbando, rivestendolo però di una compassione selvaggia, disarmante.

Un sentimento che scorgiamo nelle tante danze commoventi di Fleck, nei primi piani che smorzano le efferatezze più atroci, nella sottolineatura impassibile del suo fisico sempre più magro ed emaciato. Tanto che Joker, man mano che si avvicina alla (momentanea?) resa dei conti, sembra dimenticare e silenziare perfino il disagio della contemporaneità, relegando le fiamme della rivolta sullo sfondo. Per preferirgli l’atto d’amore straziante e terribile per l’uomo che ride e che voleva probabilmente solo far ridere il mondo, ma non ci è riuscito. That’s Life.

 
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Fuori concorso Imelda Marcos e Jean Seberg

Post n°15291 pubblicato il 01 Settembre 2019 da Ladridicinema
 

VENEZIA – Fuori concorso ci sono due film biografici, basati su personaggi iconici. Il primo è The Kingmaker di Lauren Greenfield. Incentrato sull’indomita personalità di Imelda Marcos, il film esplora con uno sguardo senza precedenti l’improbabile ritorno al potere della famiglia Marcos nelle Filippine. Il film indaga l’inquietante retaggio del regime di Marcos e documenta le pressioni esercitate da Imelda nel tentativo di far ottenere la vicepresidenza al figlio Bongbong. Per raggiungere il suo scopo, Imelda riscrive disinvoltamente la storia di corruzione della sua famiglia sostituendola con la narrazione dell’amore stravagante di una matriarca per il proprio Paese. “Ex First Lady delle Filippine, celebre per la sua mania per gli eccessi, Imelda Marcos è stata una figura iconica nel corso della mia lunga esplorazione fotografica e filmica dell’opulenza – spiega la regista - Sbalordita dal fatto che fosse riuscita a fare ritorno sulla scena politica locale dopo essere stata deposta in seguito a una rivolta popolare, ho iniziato a filmarla e ho scoperto che, a ottantacinque anni, era ancora un abile ‘animale politico’, come la descrive il figlio Bongbong. Imelda ha lavorato per riscrivere la storia della sua famiglia nell’intento di sostituirla con il racconto dell’amore generoso di una matriarca per il suo Paese”.

Il secondo è Seberg, di Benedict Andrews, con Kirsten Stewart. Ispirato a fatti realmente accaduti, il film narra la storia di Jean Seberg, protagonista di À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) e beniamina della Nouvelle Vague francese, che sul finire degli anni Sessanta finì nel mirino del programma di sorveglianza illegale dell’FBI. Il coinvolgimento politico e sentimentale dell’attrice con l’attivista per i diritti civili Hakim Jamal la rese un obiettivo dei tentativi spietati del Bureau di arrestare, screditare e denunciare il movimento del Black Power. Un giovane e ambizioso agente federale, Jack Solomon, viene incaricato di sorvegliare l’attrice; i destini dei due si troveranno a essere pericolosamente intrecciati.

“Ho scoperto Jean Seberg al liceo quando il mio professore di francese proiettò À bout de souffle per la classe – dice Andrews – Fui letteralmente stregato e da allora non ho più potuto dimenticare la sua incredibile recitazione. Seberg ridefinì i parametri della presenza e della verità scenica. Mi affascinano le contraddizioni di Jean, il suo incarnare allo stesso tempo fiera indipendenza e apertura emotiva, tristezza e ingenuità, idealismo e gioia di vivere. Sotto lo sguardo spietato dell’FBI, la trama della vita di Jean si sgretola. Come il personaggio di Giovanna d’Arco interpretato per Otto Preminger, Jean attraversa il fuoco. Sopravvissuta all’esaurimento nervoso e alla perdita, trasforma l’instabilità in grazia duramente conquistata”.

"Abbiamo cercato di aprire una finestra sulla verità e raccontato la vulnerabilità della Seberg - ha detto la Stewart in conferenza - che nella vita ha avuto un grande senso di giustizia fino a sacrificarsi per questo ideale. Oggi il controllo governativo esiste ancora ma agisce forse in un modo più sottile dell'epoca. Ho cercato di restituire la sua verità e ne sono orgogliosa. Come attrice ho lavorato molto su me stessa e le mie insicurezze, sono pronta ad affrontare qualsiasi cosa perchè mi sembra di poter vivere le esperienza in un modo naturale, istintivo". Quanto alla pressione dei gossip (l'attrice dopo la storia con Robert Pattinson ha avuto varie fidanzate ed ha dichiarato la sua bisessualità), "non vado sui social ma riesco a mantenere una sana interazione con le persone, sanno chi sono e anche come la penso, mi sento aperta, non mi nascondo più".

 
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