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Messaggi del 07/09/2020

 

Paola Cortellesi, "voce" di Nilde Iotti da cinecittànews

Post n°15776 pubblicato il 07 Settembre 2020 da Ladridicinema
 

VENEZIA - Paola Cortellesi è la "voce" di Nilde Iotti nel documentario di Peter Marcias presentato alle Giornate degli autori, come evento speciale. Non può essere al Lido, perché sta lavorando sul set di Ritorno a Coccia di Morto (il sequel di Come un gatto in tangenziale, diretto sempre da marito Riccardo Milani) e le misure di sicurezza le impediscono di allontanarsi da Roma. "Sarei stata felice di accompagnare Nilde Iotti-Il tempo delle donne, soprattutto in questa particolare edizione della Mostra del cinema - scrive in un messaggio - per il fondamentale segnale di ripartenza che rappresenta, nell’anno in cui si celebrano i cento anni dalla nascita di una donna così straordinaria. Sono onorata di aver contribuito al suo ricordo. Ho visto nascere e crescere questo progetto attraverso il lungo lavoro di Peter Marcias: le ricerche dei materiali di repertorio, le testimonianze, i testi ufficiali, le lettere private. Ringrazio Peter per avermi coinvolta, per la costante condivisione, l’entusiasmo e la cura". L'attrice definisce il film "un documento utile non solo a ricordare la vita coraggiosa e il lavoro esemplare di Nilde Iotti, ma a far conoscere alle nuove generazioni le faticose battaglie all’origine dei loro diritti, a non darli per scontati e alla necessità di difenderli", conclude l'attrice, che presto vedremo su Sky nei panni dell'ispettrice di polizia Petra.

Il film, come il regista sardo racconta a Cinecittà News, nasce proprio da uno spettacolo teatrale di Paola, Leonilde, scritto da Sergio Claudio Perroni. "L'ho chiamata nel documentario non per interpretare Nilde Iotti, ma per evocarla. Tutto è venuto man mano, abbiamo lavorato in simbiosi sui repertori. Ed è stata una scelta che ci ha dato ragione". Il film è un montaggio di immagini, interviste alla stessa donna politica e testimonianze per ricostruire la figura di una grande statista, lucida, capace di andare contro i tabù, di mettersi in dialettica con il suo stesso partito, sempre dalla parte delle donne, con un grande senso delle istituzioni.

Si parte dalle testimonianze delle amiche d’infanzia di Reggio Emilia: Ione Bartoli, Loretta Giaroni ed Eletta Bertani che per la prima volta prendono la parola in modo così esteso. Le origini nel "casermone" dove è nata, la Resistenza, le lotte in Emilia-Romagna, naturalmente anche l'amore trasgressivo con Togliatti, più grande di lei e sposato, un amore inviso persino ai compagni di partito in un'Italia ancora legata a una visione ipocrita della famiglia e della coppia.

Tra gli interventi Livia Turco, Presidente della Fondazione Iotti, il presidente emerito Giorgio Napolitano e l’attuale capo dello Stato Sergio Mattarella, ma anche grandi personaggi della cultura come Piera Degli Esposti, Luciana Castellina, Cecilia Mangini, Michela Murgia, Edda Billi, Elly Schlein, Daniela Ducato, imprenditrice green sarda. Si parla molto di "tempo delle donne" e delle grandi battaglie di Nilde: il nuovo diritto di famiglia, il riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio, l'abolizione della dote e della patria potestà, il divorzio e l'aborto. E poi, più avanti, la riforma della legge elettorale per consentire l'ingresso di un maggior numero di deputate. Iotti poi fu la prima presidente della Camera e lo restò per tre legislature, rifiutando anche la proposta di diventare senatrice a vita per non lasciare la Camera. "Era talmente amata che veniva quasi naturale posizionarla in questa carica - commenta Marcias - Ha sempre portato avanti le sue battaglie nonostante la presidenza, è sempre stata vicina ai cittadini senza interessi di parte. Per i politici di oggi, che lavorano soprattutto con i social, i tweet e gli slogan, è un grande esempio". 

Tutti i testimoni, a partire da Sergio Mattarella, hanno aderito alla richiesta di intervista con piacere. "Il presidente della Repubblica ci ha ricevuto prima del lockdown. C'è anche qualcuno ci ha detto di no, forse pensava che si trattasse di un film politico, invece vuole essere il ritratto di una grande donna del Novecento". Per quanto riguarda il tema del tempo, filo conduttore del documentario, Marcias lo spiega così: "Nilde è stata portavoce dell’universo femminile, ha sempre sottolineato con forza quanta fatica facessero le donne per lavorare e curare la famiglia allo stesso momento". E come ha affrontato il capitolo privato? "Sono passato attraverso il carteggio tra lei e Togliatti, scritti toccanti e originali con questi innamorati che si scambiano lettere in un periodo storico complesso. La relazione è già stata raccontata tantissimo ed io volevo darne una diversa immagine. Il Pci fu molto agguerrito contro Nilde, era troppo presto per accettare quel legame. Quello che mi ha colpito è il garbo con cui lei ha affrontato tutta questa vicenda. Ha sofferto con compostezza. Come dice Piera Degli Esposti, con il grande equilibrio che è la sua nota dominante".

Prossimo lavoro di Marcias un film d'animazione tratto da un testo di Giorgio Todde, Lo stato delle anime.

Nilde Iotti Il tempo delle donne, prodotto da Mario Mazzarotto con il sostegno di Regione Emilia Romagna, Fondazione Sardegna Film Commission, in collaborazione con Aamod, sarà distribuito da I Wonder a fine ottobre e andrà in onda su Sky Arte.  

 
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In 'Spaccapietre' le contraddizioni della Puglia

Post n°15775 pubblicato il 07 Settembre 2020 da Ladridicinema
 

 

Passa alle Giornate degli Autori, e arriva contestualmente in sala, Spaccapietre, il nuovo film di Gianluca e Massimiliano De Serio, che vede protagonista Salvatore Esposito, in un ruolo che gli dona poesia e carisma dopo il successo di Gomorra e del personaggi di ‘Genny’ Savastano, che qui viene giustamente messo da parte e parzialmente superato.

Esposito è Giuseppe, un padre sconvolto dall’inaspettata morte sul lavoro della moglie Angela. In un momento di poco lucido dolore, Giuseppe promette a suo figlio Antò che un giorno, in un modo o nell’altro, gli riporterà sua madre. Antò è un bambino sveglio e costretto a crescere in un mondo non certo ideale, fatto di povertà e sfruttamento, ma ha i suoi sogni – vuole diventare archeologo – e considera il padre una specie di supereroe, anche grazie a una caratteristica fisica: uno speciale occhio di vetro. Partendo da questa promessa surreale, inizia il lungo viaggio di padre e figli oche ripercorrono insieme le strade e i luoghi dove Angela lavorava come bracciante a chiamata giornaliera. I due entrano così in contatto con un microcosmo spietato e senza regole, dove Giuseppe sarà chiamato a fare scelte impreviste e molto dure pur di mantenere la parola data. Nel cast anche Samuele Carrino, Licia Lanera, Antonella Carone, Giuseppe Loconsole Vito Signorile.   

“E’ un film dove arte e biografia si intrecciano – spiegano i De Serio – la vicenda prende spunto da un terribile fatto di cronaca di qualche anno fa, ovvero la morte sul lavoro della bracciante pugliese Paola Clemente, e ci ha ricordato le modalità della scomparsa di nostra nonna paterna, deceduta lavorando negli stessi campi, nel 1958. Era incinta di due gemelli. Mio padre si chiamava Antonio e aveva dieci anni, come il protagonista del film. Il mestiere di “spaccapietre” era quello che faceva anche nostro nonno. Così ci siamo riappropriati di un’anima, quella della nostra nonna mai conosciuta, legando la sua storia a un altro corpo e a un’altra donna. Ma è anche un film di amore paterno in cui affiorano i temi della morte, della violenza, della paura, dell’amore e della vendetta. C'è questa 'promessa' a cui può credere solo un puro nell'animo, come un bambino, ma anche un padre un po' incosciente e un po' sognatore, che sogna di ritrovare la donna che ha perso come se fosse un moderno Orfeo".

"Siamo geneticamente attratti dalla Puglia - dicono poi gli autori sul territorio - perché ci sono le nostre origini, ma non la conoscevamo poi così bene, quindi con piacere abbiamo dovuto esplorarla, riscoprendo la nostra storie e le contraddizioni di questa terra, piena di bellezza ma anche dell’orrore della moderna schiavitù, di cui è stata vittima anche la nostra famiglia. C’è una dimensione intima e familiare, ma anche una più universale. Abbiamo studiato parecchio. Abbiamo letto Leogrande e altri autori che hanno parlato del territorio e poi siamo passati a sopralluoghi, interviste e casting. Molti dei braccianti con cui abbiamo parlato sono diventate comparse del film. Abbiamo scoperto la realtà delle baraccopoli e dei 'ghetti'. Alcuni più storici e organizzati. Altri più improvvisati. E' stata una vera e propria inchiesta, quasi documentaristica, dove la fiction ha incontrato la realtà".

Il film va in sala insieme al passaggio veneziano. "Pensiamo tanto anche al pubblico - concludono i registi - e alla sua voglia di cinema dopo il lockdown. Crediamo in un pubblico aperto, fatto di tante teste, esperienze e sguardi diversi". 

Girato in Puglia per 5 settimane tra Bari, Spinazzola (BAT) e Pulsano (Taranto), il film è prodotto da Alessandro Borrelli per La Sarraz Pictures con Rai Cinema, in coproduzione con la francese Shellac Sud, con il contributo del MiBAC. E' stato realizzato con il contributo di Apulia Film Fund della Regione Puglia (210.758 euro) a valere su risorse del POR Puglia 2014/2020 e con il sostegno di Apulia Film Commission.

 
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Guadagnino e i 'Fiori', metafora della ricerca del proprio presente

Post n°15774 pubblicato il 07 Settembre 2020 da Ladridicinema
 

VENEZIA - “Il ritorno nei luoghi della mia infanzia è una regressione”, dice Luca Guadagnino in Fiori, Fiori, Fiori!, il film breve (12 minuti), che ha diretto durante il blocco sanitario, qui alla Mostra presente Fuori Concorso

I fiori della primavera siciliana - Terra d’origine dell’autore e in cui il cortometraggio è stato girato dal 4 al 10 maggio scorsi – compensano il periodo della reclusione casalinga, un nido famigliare a suo modo, che però Guadagnino, con questo film, cerca di rintracciare all’aria aperta, scendendo da Milano a Canicattì - "e dintorni" - luogo natale paterno, da lui frequentato fino ai 12 anni. 

Non è una visione estetica allo stato d’eccellenza, quella riconoscibile come propria delle opere di Guadagnino, infatti il film è girato prettamente con cellulare e tablet, con una troupe leggerissima, ma la bellezza risiede nell’essenza dell’esplosione della Natura primaverile e negli stati d’animo delle personeamiche, che lui sceglie d’incontrare per cercare d’indagare come sia stato vissuto il blocco sanitario, la reclusione, e per “abituarmi al caos” della biodiversità, per godersi appunto l’esplosione spontanea del mondo naturale che, invece, non ha mai smesso di vivere. Così, incontra l’amica di sempre Maria Continella, a cui brillano gli occhi nell’incontrarlo, ma che rimane restia dall’abbracciarlo: l’idea che arrivi dal luogo più martoriato dalla pandemia fa ancora paura; e poi incontra l’attore Claudio Gioè, un altro amico, dentro la pancia vuota del "Massimo" di Palermo, con cui riflettono sulla pandemia connessa alla crisi del teatro, tale a prescindere. 

La musica di Cosmo, quasi un suono psichedelico, contrasta e esalta al contempo l’immagine pura dei fiori, del verde, del cielo, che respirano necessariamente a prescindere da qualunque fenomeno possa bloccare il mondo umano, anzi il titolo Fiori, Fiori, Fiori!, arriva come un’affermazione che moltiplica l’entusiasmo per il Creato, ben esprime quanto la Natura, proprio come effetto del blocco, abbia goduto dell’assenza umana che non l’ha soffocata e l’ha fatta esplodere al suo massimo, una metafora che per Guadagnino appartiene anche alla ricerca del proprio presente

 
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Susanna Nicchiarelli: "Eleanor Marx, un genio diviso tra ragione e sentimento"

Post n°15773 pubblicato il 07 Settembre 2020 da Ladridicinema
 

VENEZIA - "La cosa più interessante nella figura di Eleanor Marx - dice Susanna Nicchiarelli - è il conflitto tra ragione e sentimento. Da una parte la forza delle convinzioni e del pensiero, dall'altra la fragilità della sfera emotiva, soprattutto in amore. Le sue convinzioni si sbriciolano davanti al sentimento, ma non perché sia una donna, credo che questa vicenda riguardi anche tanti uomini".

Secondo italiano in concorso, Miss Marx di Susanna Nicchiarelli, in uscita il 17 settembre con 01, è un ritratto pieno di energia e spirito contemporaneo della figlia più piccola di Karl Marx, Eleanor (1855-1898). Della sua intelligenza, delle lotte che conduce per i diritti dei lavoratori e la parità delle donne, contro lo sfruttamento dei minori nelle fabbriche, del suo amore per la letteratura e per il teatro, con le traduzioni di Ibsen e Flaubert. Ma anche della sua tragica vicenda sentimentale, del legame con Edward Aveling, socialista come lei, sposato, dissipatore di denaro, donnaiolo impenitente. Un legame libero e anticonformista che sfocia nel suicidio di lei all'età di 43 anni. E tra i riferimenti dichiarati anche Adele H. di Truffaut.

Protagonisti del film, prodotto da Vivo Film e Rai Cinema con coproduttori belgi, girato a Cinecittà e in Piemonte con il sostegno della Torino Piemonte Film Commission (lì sono stati ricostruiti l'America e la Londra del XIX secolo), sono una straordinaria Romola Garai e Patrick Kennedy. Per l'attrice, che si candida alla Coppa Volpi, era "importante capire come una persona così ottimista e positiva, abbia deciso che non c’era più posto per lei nel mondo. Ma non era depressa e i suoi cari si rifiutavano di credere che si fosse tolta la vita. Forse è stata una decisione momentanea, il frutto di una brutta giornata". Mentre Kennedy che incarna tutta l'ambiguità di Aveling - basti pensare che dopo la morte della prima moglie, sposò, di nascosto da Eleanor, una giovane attrice - parla del suo personaggio come di "un uomo diviso in due, morbosamente ligio rispetto alle sue convinzioni di ateo e socialista, ma del tutto senza scrupoli con le donne e il denaro altrui. Alcuni dicevano che era freddo come una lucertola, altri erano impressionati dalla sua capacità di recitare e dalla sua retorica vittoriana". 

Susanna Nicchiarelli, come è arrivata a scoprire la figura di Eleanor Marx?

Ho letto tanto sulla famiglia Marx. Avevano avuto vari figli ma solo le quattro femmine sono sopravvissute mentre i maschi sono morti da bambini. Karl riversò tutto il suo amore sulla minore, la piccola di casa. Era la preferita del papà, si dice che lui scrisse Il Capitale mentre la figlia giocava tra le sue gambe sotto il tavolo. All'epoca le ragazze non potevano accedere alle stesse scuole dei maschi, ma le sorelle Marx furono educate in casa.

Era una donna straordinaria.

Una grande comunicatrice, migliore di Karl nel divulgare le idee socialiste. Tradusse un romanzo trasgressivo come Madame Bovary in inglese, realizzò degli adattamenti di Ibsen, tra cui Casa di bambola. Credeva nel potere della letteratura e dell’arte. Mi ha colpito che abbia scelto l’uomo sbagliato e che fino alla fine sia rimasta con lui. Una che era riuscita a usare il socialismo per articolare un discorso sull'uguaglianza tra i sessi e contro lo sfruttamento nella famiglia. 

C'è qualche punto di contatto con altri personaggi che lei ha raccontato, Nico soprattutto.

Quando decidi di fare un film non pensi a metterlo in relazione con gli altri tuoi lavori. Te ne accorgi dopo. Questo film ha tante cose anche di Cosmonauta, il mio primo film. Si vede che il mio percorso ha un senso, che coltivo delle ossessioni.

Come affronta il concorso di Venezia?

Sono angosciatissima, gli altri film mi sembrano tutti bellissimi e migliori del mio.

Le fa effetto essere una delle otto donne in competizione?

Sogno il giorno in cui non sarà più interessante parlare di queste cose. Vorrei che il film fosse giudicato per quello che è. Anche perché siamo tutti diversi, ogni autore - uomo o donna - è un individuo. Adesso c'è ancora bisogno di sottolineare questo aspetto, ma spero che presto finirà.

Tornando al film, ha una grande modernità che lei enfatizza con lo stile, il montaggio, l'uso delle musiche.

Ho lavorato sulle lettere di Eleanor, di suo padre, delle sorelle. Ho letto i suoi quaderni, anche quelli di quando era bambina, ho guardato i suoi disegni, ho scoperto il loro lato umano, i giochi di società che facevano. Sono parole che sembrano scritte oggi, i loro sogni, le paure, le aspirazioni sono molto vicine a noi. Io ho sempre fatto solo film in costume, ma una volta che sei entrato in un mondo diverso, puoi dimenticare che appartenga al passato.

Come ha sviluppato la parte politica, in cui vediamo immagini molto forti e scioccanti della miseria e delle condizioni di vita ai limiti della sopravvivenza della classe operaia?

Mi hanno aiutato tantissimo gli scritti di Eleanor, ad esempio il suo pamphlet sulle condizioni della classe operaia negli Stati Uniti dove andò insieme ad Aveling per un giro di conferenze. C'è anche un aspetto emotivo molto forte, la scena della donna che sta morendo di stenti nello scantinato viene da una lettera a sua sorella. Era una donna molto empatica, viveva la sofferenza altrui pienamente.

Ci sono anche riferimenti all'oggi, perché le battaglie per la parità e per i diritti dei lavoratori sono costantemente rimesse in discussione.

Certo, il riferimento all’oggi è continuo. Le battaglie di Eleanor per i diritti dei più deboli contro la ferocia della rivoluzione industriale ci riguardano tutti: lei si batte per i più fragili, non solo le donne, ma anche i bambini. E questi sono temi che non invecchiano mai. È sempre necessario ribadirli. Il lavoro minorile è ancora una realtà in molte parti del mondo. 

Come ha lavorato con le musiche che creano un corto circuito temporale molto intenso?

Io scelgo le musiche fin dalla fase di scrittura e le porto anche sul set facendole ascoltare agli attori. Ci sono brani di una band americana di giovanissimi, i Downtown Boys, che hanno tra i loro album uno che si intitola Full Communism. Sono punk estremi che hanno fatto la cover di Springsteen e una nuova versione dell'Internazionale in francese. Poi c'è la band con cui lavoro sempre, I Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo, loro sono post rock elettronici. La musica porta la storia fuori del tempo e sottolinea la trasgressività di Eleanor.

Come legge il suo suicidio? Un gesto di forza che rimanda alla tradizione stoica e alla filosofia classica oppure una resa? 

Non credo che la sua sia una sconfitta. Insieme a Romola l’abbiamo resa vincente, perché, nonostante il finale, la forza delle sue convinzioni rimane più che mai. Credo che quel finale sia una liberazione e non un atto di fuga. Mi viene in mente Thelma & Louise, perché anche quello è un suicidio che contiene energia, la voglia di andare avanti, di non fermarsi. Non c'è mai vittimismo.

Tornerà a raccontare personaggi italiani?

Scelgo in base alle storie e alla conoscenza che mi portano. Considero Miss Marx un film europeo, come Nico 1988.

Le fa piacere far parte della ripartenza del cinema nelle sale dopo il lockdown?

Il cinema è la mia vita e credo nel trovarsi tutti insieme per vedere un film. Vale anche per la scuola. Ho due bambini e ho sofferto tanto la chiusura delle scuole, credo che dobbiamo tornare a condividere, perché quella che è la cosa più bella che fa l’essere umano. La nostra libertà si esprime così. A Venezia stiamo dimostrando che si può fare tutto in sicurezza e ponendo attenzione ai nostri comportamenti.

 
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Mauro Mancini: ‘Non odiare’, un nuovo comandamento laico

Post n°15772 pubblicato il 07 Settembre 2020 da Ladridicinema
 

VENEZIA – Nelle sale dal 10 settembre con Notorius l’esordio al lungometraggio di Mauro Mancini, unico film italiano in Concorso alla 35ma Settimana Internazionale della Critica, con Alessandro Gassmann nei panni di un affermato chirurgo di origine ebraica, Simone Segre, che un giorno si trova a soccorrere un uomo vittima di un pirata della strada, ma quando scopre sul suo petto un tatuaggio nazista, lo abbandona al suo destino. Preso dai sensi di colpa, rintraccia, poi, la famiglia dell'uomo e finisce, in qualche modo, per prendersene cura: la figlia maggiore Marica (Sara Serraiocco), l'adolescente contagiato dal seme dell’odio razziale Marcello (Luka Zunic), e il piccolo Paolo (Lorenzo Buonora). 

"Mi ha fatto piacere girare un'opera prima - dice Gassmann - che, nonostante il tema, non ha una volontà didattica. E mi fa piacere anche perché la madre di mio padre era ebrea e la mia famiglia ho avuto due persone morte nei campi di concentramento". Nei panni del personaggio, spiega poi l'attore, "probabilmente avrei salvato l'uomo ferito. Da giovane, devo dire, ero aggressivo, ma ora credo che la cosa più importante sia capire dove nasce l'odio. Quello stesso odio che c'è nei social dove - aggiunge - ci sono dei vigliacchi che minacciano da lontano".

Un racconto, quello di Non odiare, che si ispira  a un fatto di cronaca avvenuto qualche anno fa in Germania, dove un medico si era rifiutato di operare un paziente con un tatuaggio nazista dicendo che l’operazione sarebbe andata contro la sua coscienza. Per diventare un film sulla memoria e sul lascito che i padri fanno ai figli: "Passato e memoria non sono mai esibite, ma il passato aleggia tra le pieghe di quello che accade, come un’ombra e una ferita sempre aperta". Ne parliamo con il regista.

Il film prende il via con una scena emotivamente forte, la prima scelta tra la vita e la morte su una cucciolata di gattini, affidata al protagonista da bambino. Ci racconta come l'ha costruita?
È una delle poche scene che attingono alla mia infanzia, che ho vissuto personalmente, anche se non proprio in questa forma, avendo dei nonni di origine contadina. Essendo un film sulla memoria, mi sembrava giusto aprire attingendo in qualche modo alla mia. È un’immagine forte che mi ha colpito come metafora della scelta stessa, di cosa voglia dire scegliere ed essere scelti. Il mio immaginario è andato anche ai campi di concentramento, con quelle lunghe file di uomini in cui il sì e il no diventavano vita o morte. Nel film questo è l’unico frammento in cui si vede il padre del protagonista, e tutta l’amarezza che ha nel cuore. La scena è come se fosse un rito iniziatico di un padre che ha sofferto molto, che sta insegnando, con una severità che rimanda a un mondo antico, cosa voglia dire vita e cosa voglia dire essere scelto.

Il soggetto e la sceneggiatura si ispirano a un fatto di cronaca?
Qualche anno fa in Germania un medico si era rifiutato di operare un paziente con un tatuaggio nazista dicendo che l’operazione andava contro la sua coscienza. Da qui la scena dell’incidente, in cui abbiamo drammaturgicamente forzato il fatto di cronaca, in cui il medico si ritrova solo e finisce per fare una scelta forte. Dopo questa scena tutto il resto del film è venuto fuori da solo come un fiume.

Il chirurgo ebreo che non riesce a soccorrere in strada l’uomo in fin di vita è il simbolo delle contraddizioni dell’animo umano?
La contraddizione dell’animo è la cosa più interessante da scavare, al cinema come nelle altre arti. È lì, tra quelle pieghe, che possiamo guardarci davvero. Quando si è chiamati a una scelta ci si guarda dentro e si scopre chi si è. All’inizio del film il protagonista ne è inconsapevole.

Il rapporto irrisolto tra padri e figli sembra intriso di un ineludibile legame con il passato, che ritorna comunque, nonostante tutti gli sforzi per allontanarsene.
Non odiare è un film sul lascito che i padri fanno ai figli. Passato e memoria non sono mai esibite, ma il passato aleggia tra le pieghe di quello che accade come un’ombra e una ferita sempre aperta.

Molte le inquadrature sulla pelle: marchiata, tatuata, bianca, scura. Cosa rappresenta esattamente nel film?
È un elemento fondamentale, tanto che il titolo provvisorio era Skin. Il ragionamento è partito dal fatto che nei campi di concentramento si tatuava un numero. La pelle ha un valore forte, è la nostra mappa geografica, ma è anche la prima cosa che guardiamo in un’altra persona: invecchiata, neonata, marchiata. Anche Marcello esibisce, come una sorta di biglietto da visita, la sua pelle chiarissima e tatuata che è un chiaro rimando a un certo tipo di mondo. Ci si riconosce o meno nell’altro se si riconosce la sua pelle, il suo colore. La pelle è la prima cosa che guardiamo perché siamo abituati a definirla, abbiamo fatto diventare interessante un dato insignificante dell’essere umano.

A cosa fa riferimento il titolo ‘Non odiare’?
Alla possibilità di imparare a non odiare. Potrebbe sembrare utopico, ma sarebbe bello che considerarlo un nuovo comandamento laico. Che, poi, racchiude un po’ tutti gli altri comandamenti, perché non odiando tutto il resto può essere dato per assodato.

Quale diventa, invece, il pretesto per odiare l’altro? La differenza, la paura o la tendenza ad etichettare tutto in rassicuranti categorie?
Sicuramente la paura. È molto rassicurante aver paura. Questo incessante richiamo ad una continua paura di qualcosa o di qualcuno è una gabbia che rassicura certi tipi di persone. Si usa l’arma della paura e della continua emergenza come una clava per dividere, per erigere muri, c’è sempre qualcuno che sta da una parte o dall’altra di una linea. Il vero guaio è far credere che esista una linea. I muri non dovrebbero esistere, ma nella realtà è così.

In questi anni l’Europa continua ad essere attraversata da inquietanti venti nazionalisti e da una dilagante xenofobia. Il film intende, anche, trasmettere un messaggio in questo senso?
Non voglio dare risposte, è importante per me suscitare domande e indurre a ragionare. Quello che mi spaventa in questo momento è l’intolleranza come tema centrale della società. Mi preoccupa la quotidianità dell’intolleranza, fatta di frasi come ‘Non sono razzista ma...’. Un concetto che non può esistere: non può esserci un ‘ma’: o si è razzisti o non lo si è, non si può rimanere a metà. Gli indifferenti sono oggi le persone più pericolose.

Il personaggio del fratello maggiore compie nel corso del film, una svolta inaspettata.
Il suo personaggio è sempre nervoso, frizzante, in movimento, con la rabbia tutta racchiusa dentro e non esibita in muscoli o  fisico palestrato. Nel finale, in un anticlimax, compie un gesto di rottura che racchiude il senso di tutto il film. Lui che è sempre esplosivo si ferma, capisce che il mostro si può imparare a domarlo, e doma se stesso per la prima volta.

Rispetto alla scelta degli interpreti, aveva pensato da subito ad Alessandro Gassmann?
Mentre scrivevo questa storia già pensavo a lui che, per fortuna, si è interessato subito al film. Alessandro è un interprete drammatico straordinario. Volevo rompere lo stereotipo dell’ebreo al cinema - magro, con il naso adunco - e mi piaceva, in qualche misura, anche reinventare il modo in cui siamo abituati a vedere Gassmann, dandogli la possibilità di mostrare tutte le sfumature che ha, poi, messo nel film. È una persona molto generoso sul set, sempre pronto, ha trattato il ragazzo esordiente, Luka Zunic, alla pari: un dono che solo i grandi attori hanno. 

E Sara Seraiocco?
Sara l’avevo vista in diversi film in cui mi aveva convinto, ha delle pennellate incredibili negli occhi. Nel film non ci sono molte parole, ho scelto lei consapevole che avrebbe saputo restituite tutto il non detto che c’era nel film, con uno sguardo e con il silenzio. Un aspetto che accomuna i protagonisti è che sono tutti personaggi soli che urlano senza voce. Non c’è bisogno di farli parlare troppo: il dolore deve essere vero e silenzioso, perché se lo urli perde senso.

 
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Leonardo Ferragamo: "Per raccontare mio padre ci voleva un genio come Guadagnino"

Post n°15771 pubblicato il 07 Settembre 2020 da Ladridicinema
 

VENEZIA - Si taglia la tomaia. S’incolla il tacco. S'imprime la suola. Un processo meccanico all’apparenza, che - come mostrato dallo sguardo sofisticato e ammirato di Luca Guadagnino – assume in sé una seducente fascinazione, quasi erotica: nonostante la catena della creazione proceda sul disturbante ma necessario rumore diegetico dei macchinari, guardare il susseguirsi di istanti che determinano la nascita di un’opera d’arte, quali sono le scarpe di Salvatore Ferragamo, ha in sé la bellezza e la potenza di un parto. Senza blasfemia, s’assiste alla nascita di una creatura, seppur inanimata pur sempre un’opera del genio umano. “Il film comincia con il meccanismo della creazione della scarpa ‘Marilyn’: assistere al processo degli artigiani che ancora creano queste opere è per me come il miele per le api”, ammette, infatti, lo stesso regista, autore di Salvatore – Shoemaker of Dreamsdocumentario Fuori Concorso sulla biografia di Salvatore Ferragamo

Guadagnino procede con un elogio al piede, e la voce fuori campo “di Salvatore” che dice proprio: “amo i piedi”, mentre possiamo ammirarne uno bellissimo, scolpito con materiale argenteo. 

“Ho cominciato la collaborazione con Ferragamo con un fashion film nel 2013, occasione in cui avevo ricevuto il libro Il calzolaio dei sogni: autobiografia di Salvatore Ferragamo (di cui Mondadori ha curato una nuova edizione, ndr). In una conversazione con Francesco Melzi D'Eril - produttore abbiamo pensato sarebbe stato un film straordinario. Una figura titanica d’inventore, un creatore, e il documentario ci sembrava la forma più profonda per vedere i mille possibili strati della sua vita”, spiega il regista.

“È una cosa che avevamo a cuore da tempo, per far conoscere da dove fosse partita la storia incredibile di una persona che da meno di niente è riuscita a raggiungere tutti gli obiettivi. Conoscendo Guadagnino è scoccata la scintilla”, dice Giovanna Gentile Ferragamo, figlia di Salvatore, e sorella di Leonardo: “Con la mia famiglia siamo molto emozionati. Abbiamo, prima di questo film, evitato molte tentazioni ma qui s’è scelta la forma del documentario, la più vera, e non poteva che essere un genio del film come Luca Guadagnino a riuscire a renderla come doveva essere. Siamo orgogliosi. Un apprezzamento particolare va a mia madre, Wanda – a cui il film è dedicato - per aver portato sempre presente, in modo enfatizzato, l'amore per mio padre”. 

Da una deviazione irpina che porta su un’arcaica collina, Bonito (Avellino), ad un'altra collina, quella di Hollywood: Salvatore Ferragamo nasce (1898) fratello di 14 figli, in quello che lui stesso definiva un “cul-de-sac”, ma il luogo sperduto o  le discrete possibilità economiche non sono un muro per il genio, che, nel 1909, spinto da un maestro e dal farmacista del paesino natìo, dopo un po’ “di bottega” dal ciabattino del posto, si sposta a Napoli, città in cui conosce la convivenza di bellezza e povertà, per poi tornare a casa e, nel 1912, aprire il suo primo “negozio”, in un corridoio dell’abitazione di famiglia, facendosi affiancare da sei assistenti, primo gesto di quella che sarà poi – anche – una grande storia imprenditoriale, in cui il coraggio di Salvatore s’è sempre dimostrato imprescindibile.

Come necessario è stato - il coraggio – per salpare in nave dal capoluogo campano, in terza classe, con due camice, un cambio di biancheria, i calzini e qualche vivanda, alla volta dell’America, Mecca in cui – a Boston – rimane però scandalizzato dalla produzione industriale delle calzature, qualcosa per lui di inconcepibile: il modestissimo giovane uomo campano con il genio nel sangue s’iscrive ad Anatomia all’Università della California alla ricerca dell’ “equilibrio”, nella caduta verticale del peso del corpo sull’arco plantare che, da sempre, contraddistingue la calzata perfetta marchiata Ferragamo. 

Eppure, continua Guadagnino, “Ferragamo va a Hollywood quando questa sta nascendo e lui è uno dei creatori di Hollywood dal suo punto di vista. È amico di grandi Stelle, crea scarpe per contribuire alla costruzione dello star system, per cui la sua storia è anche molto la storia di Hollywood”, confermando così che in America, “non trovi te stesso, crei te stesso”, come dice Martin Scorsese, una delle personalità intervistate nel film, insieme a Deborah Nadoolman LandisManolo BlahnikChristian Louboutin, tra gli altri. “Il lavoro di montaggio è stato laborioso, abbiamo fatto un'enormità di interviste, cercato materiali d'archivio esterni a quello Ferragamo. Abbiamo recuperato girati di Hollywood e cartoon, come i Super8 realizzati da Salvatore stesso: tutto era cucito nel copione di Dana Thomas (sceneggiatrice), poi 'riscritto' al montaggio, sontuoso, di Walter Fasano, per incrociare i due sistemi, cinema e moda, che s’incrociano perfettamente nell'intervista a Landis che ragiona sul personaggio di Gloria Swanson e la sua scarpa con il fiocco”, specifica ancora l'autore.  

È il 1923 e al numero 6687 di Hollywood Blv. a Los Angeles, nell’epoca del Proibizionismo, Salvatore apre il suo primo “Hollywood Bootshop”, iconico spazio, insieme a Palazzo Feroni Spini a Firenze, dimora tutt'ora della casa di moda Ferragamo, dopo che lo stesso patriarca sceglie di tornare nel nostro Paese: “Il ritorno in Italia di mio padre è il centro della sua storia: lui ha passato una vita con grandi visioni, senza fermarsi dinnanzi alle difficoltà. Il ritorno è stato culminante, decide di tornare perché da noi aveva conosciuto valori e competenze dell'artigianato, e su questo voleva basare il suo lavoro; ha il coraggio di abbandonare i sogni per ritrovare i valori e sceglie Firenze come epicentro. C'è un'analogia con le incertezze che stiamo vivendo adesso, ma dobbiamo fare della sua passione e della sua energia un esempio, è un passaggio sentito della sua storia”, dice – quasi commosso - Leonardo Ferragamo di suo padre, così anche pioniere del Made in Italy, che quando approda nel capoluogo fiorentino lo fa con la sua cinepresa, rinnovando quel suo destino allacciato a doppio filo con il cinema, ed è in queste sequenze, ma non solo, che il film procede anche grazie all’uso di materiale di archivi altri dal famigliare, ad esempio dell’Archivio Luce

E da qui, da Firenze, l’affitto del primo laboratorio in via Mannelli, un laboratorio in cui voleva usare un metodo, una “catena di montaggio artigianale”, quella poi capace di creare i suoi famosi 18 modelli di scarpe, tanto che “quando creava cose particolari, le brevettava”, spiega il figlio Massimo nel film, come il famosissimo “tacco a gabbia”. 

La storia di Ferragamo è epica, il film di Guadagnino gli conferisce una bellezza del dettaglio umano e estetico che amplifica l’eccezionalità di una biografia non scevra, però, da più d’un trascorso fallimentare, come quello dettato dalla storica Crisi del ’29, che lo porta a fallire nel ’33, poiché la sua clientela era prettamente statunitense, eppure un’ennesima dignità lo sostiene, fino appunto all’acquisto del Palazzo fiorentino (1938) tutt’ora sede della "Ferragamo", di cui Salvatore ha la lungimiranza di comprendere il potere evocativo internazionale. 

Luca Guadagnino che con Salvatore – Shoemaker of Dreams celebra Salvatore Ferragamo, ne riconosce l’essere “certamente un fuoriclasse, ma anche un outsider, e mi affascina questo suo lato, perché mi considero tale”: il regista ricorda di essere alla sua "10/11esima volta a Venezia, dove mi sento a casa: sono grato al direttore Barbera, a Roberto Cicutto, per essere qui in questo anno particolare, ma ricco di cose bellissime, come mia sorella Tilda Swinton. Sono onorato di portare esperienze artistiche alla Mostra”. 

 
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