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Monicelli, senza cultura in Italia...
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Messaggi del 19/05/2019
Post n°15124 pubblicato il 19 Maggio 2019 da Ladridicinema
- 19/05/2019
- Nicole Bianchi
CANNES - Alain Delon era figlio di Fabien, direttore di un piccolo cinema di quartiere, a Sceaux, nell’Île-de-France: nonostante questo, la carriera di Delon non era previsto fosse quella del cinema, ma quella militare nella Marina per cui “sono stato a combattere anche in Indocina”, ha ricordato lui stesso, nel Rendez-Vous che l'ha visto protagonista nella mattinata e che anticipa la premiazione serale, con la consegna della Palma d'Onore. Una donna - e Delon ripete più volte nell’incontro di essere “debitore alle donne per il mio successo”, l’attrice hitchcokiana Brigitte Auber, lo fa innamorare, tanto che lui lascia la carriera militare e conosce l’attore Jean-Claude Brialy, che lo invita nel ’56 al Festival di Cannes, occasione in cui la sua bellezza rimane impressa. Per questo Delon spiega perché ha spesso detto “la mia carriera è stato un incidente”. È stato Godot(Yves Allégret,1957) il suo esordio di fronte alla macchina da presa, e "sin dalla prima volta sono stato quasi subito a mio agio, ho percepito che quella era la mia vita, e le parole che più spesso mi hanno ripetuto gli autori sono state: non recitare, usa lo sguardo e vivi!”, così Alain Delon sintetizza l'avvicinamento “casuale” al grande schermo e le “regole” della sua interpretazione. “Non ho mai avuto un agente nella mia carriera, solo in un’occasione, quando mi è stato presentato Luchino Visconti, a Londra, mentre era in corso una rappresentazione del Don Giovanni: ero stato visto recitare e mi veniva ripetuto ‘tu sei Rocco, tu sei Rocco’, così mi hanno fatto conoscere Luchino”, ricorda Delon che, dinnanzi alle sequenze che scorrono sullo schermo, tratte da Rocco e i suoi fratelli (1960) e Il gattopardo (1963) - film che lo consacra nel ruolo di Tancredi, si commuove, non nasconde le lacrime, discrete ma visibili, né la voce un po' strozzata. Di Rocco ricorda come sia “stato un sacrificio, ma uno di quelli che hanno generato una delle migliori cose possibili”; del secondo ruolo, di cui sono state mostrate le immagini del dialogo con Don Fabrizio (Burt Lancaster), mentre quest’ultimo si fa la barba e ai due s’accompagna in scena anche un cane doberman, l’attore offre un ricordo personale: “quello in scena, era il mio cane nella vita, sempre con me dentro e fuori dal cinema”. Riconoscente a Visconti, come a René Clément (Delitto in pieno sole, 1960), per cui dice che “il premio della Palma d’Onore sarebbe da conferire a loro, anche se lo ritiro io”. Mentre parole - e soprattutto immagini - scorrono, ci si rende conto di come nessun interprete della sua generazione abbia saputo “occupare lo spazio” scenico come Alain Delon, talento che con potenza esce da ruoli come quello di Philippe Greenleaf, proprio dal film di Clément, ma anche dal noir Il ribelle di Algeri (1964), diretto da Alain Cavalier, in cui interpreta il disertore Thomas Vlassenroot con l’italiana Lea Massari, il primo film che lo stesso Delon ha contribuito a produrre; un ruolo, quello del produttore, a cui lui tiene, e che ribadisce, perché, riconoscendo di non essere un capace sceneggiatore, produrre è “dimostrazione di partecipare e credere in quello che stai facendo. Produrre il film è stato meraviglioso, mi faceva sentire anche un maestro, un boss”, enfatizza con ironia, un tono che è ricorso, delicato ma ripetuto, in questo incontro. Il destino cinematografico di Delon è andato di pari passo anche alla vita della Nouvelle Vague e al periodo americano: “ho vissuto là due anni, ma poi mi mancavano Parigi, i suoi cinema, e così ho lasciato l’opportunità di quella carriera e sono rientrato, applaudito dai francesi per la scelta”, ha ricordato. Come francese è stato un altro regista a cui Delon ha connesso la sua carriera, Jean-Pierre Melville, che ha rinnovato la sua consacrazione con il ruolo protagonista in Frank Costello faccia d’angelo (1967), di cui non dimentica “un primo incontro molto semplice: ci siamo seduti e lui mi ha raccontato Le samurai, anche se a Melville connetto inoltre qualche ricordo drammatico. Quello dell’incendio che ha mandato a fuoco tutti gli studi cinematografici e quello della sua morte: stavamo cenando a Parigi, in compagnia anche di un giornalista, e Jean-Pierre ha iniziato a ridere… e la risata s’è interrotta – per una crisi cardiaca – e lui è mancato”. Nella memoria collettiva Melville però ha contribuito a iconizzare ulteriormente Alain Delon, che nel film ha “debuttato” indossando l’italiano cappello Borsalino. Il copricapo tornerà anche in Mr. Klein (1976) di Joseph Losey, all'epoca presentato in Concorso a Cannes, in cui Delon interpreta un medico francese, nella Parigi occupata del ‘42, parte che ha accettato “perché volevo provare a ‘fare il percorso’ difficoltoso del protagonista, anche ricordandomi che in quel periodo storico – quello della Seconda Guerra Mondiale – ero un bambino di meno di 10 anni”. Come dichiarato in apertura, Alain Delon, anche durante l’incontro, ricorda spesso l’importanza delle donne nella sua carriera, non dimentica la nostra Monica Vitti, compagna ne L’eclisse (1962), e segue immancabile un ricordo, accennato, di Romy Schneider, con cui ha creato una coppia d’oro del cinema, e che Delon sfiora appena, probabilmente per malinconia: “La piscina (Jacques Deray, 1969) non lo riesco più a guardare, troppo difficile pensando a Romy, anche se è un film magnifico, di cui s’è parlato per molti anni”. Nella serata di oggi, Alain Delon riceve ufficialmente la Palma d’Onore.
Post n°15123 pubblicato il 19 Maggio 2019 da Ladridicinema
- 19/05/2019
- Carmen Diotaiuti
CANNES - C’è anche Monica Bellucci nel cast di Les Plus Belles Années d'une Vie (leggi il nostro articolo), pellicola Fuori Concorso firmata dall’ottantenne maestro del cinema Claude Lelouch. Un film straordinario che riunisce, dopo oltre cinquant’anni, Jean Louis Trintignant e Anouk Aimee, gli iconici protagonisti di Un uomo, una donna(1966), film che fu la svolta nella carriera di un allora giovanissimo Lelouch, per la quale vinse la Palma d’Oro, un Oscar e numerosi altri riconoscimenti, e di cui aveva già realizzato nel 1985 il sequel Un uomo, una donna oggi,sempre con la stessa coppia di attori. “Quando presentammo all'epoca il film sulla Croisette non avevo capito cosa stesse realmente accadendo – ammette Lelouch - stavamo tutti passando dall’ombra alla luce dei riflettori, la gente si riconobbe nella storia, gli attori ricevettero tantissime lettere dal pubblico, tutto cambiò nelle nostre vite. Tre anni fa abbiamo celebrato il cinquantesimo del film con la proiezione della sua versione restaurata, in quell’occasione ho visto Jean Louis e Anouk vicini e ho pensato che avrei voluto rivederli di nuovo insieme sul set. Realizzare il film e tornare qui a presentarlo è stato come un miracolo, scattato sin dalla prima scena girata che è quella del loro nuovo incontro”. Ritroviamo così l'ex pilota di auto da corsa Jean-Louis, anziano, in un ospizio dove vive perso nei meandri della sua memoria, con moneti di lucidità da cui va e viene, quasi disinteressato al mondo che lo circonda. Per aiutarlo, suo figlio si mette a cercare Anne, la donna che ha perso e di cui parla di continuo, l’unica cosa che sembra ricordare bene del suo passato. I due ex amanti si ritrovano, gli viene offerto un nuovo inizio, e la loro storia riprende esattamente da dove l'avevano lasciata. Separati dal viaggio della vita che, quando gli offre una nuova possibilità, li trova ancora legati dalle tracce che hanno lasciato l’uno nell’altra. Meravigliosamente vicini, oggi come allora, complici di quel sentimento che in Les Plus Belles Années d'une Vie sfida anche il tabù sociale di due anziani che sanno guardarsi con amore.“Da soli si va più veloce ma insieme si va più lontani”, rimarca romanticamente Monica Bellucci che nel film interpreta la figlia di Jean-Louis, e aggiunge rispetto all’esperienza dell'aver preso parte alla nuova puntata di un film così iconico: “Lavorare con Claude è stata un’esperienza travolgente, da tutti i punti di vista. Lui ha un modo peculiare di girare, lo script funge essenzialmente da linea guida e spinge gli attori a improvvisare, a trovare la loro strada verso il cuore del personaggio. Ci si sente davvero liberi di recitare ed esprimere se stessi”. Nel film le immagini del passato e del presente si combinano, in un vivace avanti e indietro con la pellicola del 1966 di cui rivediamo volti e luoghi in epoche diverse: la stanza d’hotel del primo incontro, la spiaggia su cui hanno passeggiato, la corsa in macchina. Possiamo seguire i segni che il tempo ha lasciato sui protagonisti, interrogarsi su cosa sia loro accaduto nel frattempo, ma senza indugiare troppo su sentimenti nostalgici o crepuscolari, sebbene. Per Jean-Louis e Anne è sempre come se ci fosse qualcosa di incompiuto, come se mancasse ancora tanto dire e se il meglio della vita dovesse ancora venire. È proprio questo il futuro a cui allude il titolo del film, che prende in prestito la frase di Victor Hugo "i migliori anni di una vita sono quelli che non sono ancora stati vissuti”, per rimarcare la forza vitale e propulsiva del presente quando è spinto dalla brama del futuro. "Sono ossessionato da questa frase che si è insinuata in molti dei miei film - evidenzia il regista - Non c'è davvero niente di meglio del presente. L'amore è l'arte del presente e il presente è tutto ciò che abbiamo, contiene ogni virtù. Anche se gli eroi del mio film hanno solo un'ora di vita, quell'ora sarà la migliore”.
Post n°15122 pubblicato il 19 Maggio 2019 da Ladridicinema
CANNES - Filo diretto tra la Croisette e Bologna, con cinque titoli che dal Festival di Cannes arriveranno al Biografilm Festival, la cui quindicesima edizione si terrà dal 7 al 17 giugno. Si tratta di Yves (Tutti pazzi per Yves)di Benoît Forgeard, film di chiusura della Quinzaine des Réalisateurs su un musicista e un frigorifero intelligente, di For Sama di Waad al-Kateab ed Edward Watts, ambientato durante la rivolta di Aleppo, in Siria, di Diego Maradonadi Asif Kapadia, di Family Romance di Werner Herzog e di Cinecitta' - I mestieri del cinema. Bernardo Bertolucci: No End Travelling di Mario Sesti, prodotto da Erma Pictures con Istituto Luce Cinecitta'. Ai già annunciati tributi a Participant Media e al Sundance Festival si aggiunge poi un omaggio a Domenico Procacci, che riceverà il Celebration of Lives Award e sarà protagonista di un incontro con gli studenti di Biografilm School. All'Italian Pavilion, nell'ambito dell'incontro "Emilia Romagna, verso un'estate di cinema da Bologna a Riccione", sono state annunciate anche le prime novità della nona edizione di Ciné - Giornate di Cinema, in programma dal 2 al 5 luglio prossimi a Riccione. Nella prima giornata I Wonder Pictures presenterà l'anteprima della commedia Chi l'ha scritto? Il mistero Henri Pick, con Fabrice Luchini e Camille Cottin, mentre la sera del 3 sarà la volta di Non succede... ma se succede di Jonathan Levine, distribuita da 01. A Ciné sbarcheranno anche due laboratori didattici dedicati al cinema del Dipartimento educativo di Cinecittà si Mostra: The make believe, sui trucchi della finzione cinematografica, dedicati ai ragazzi tra i 10 e i 13 anni, e One Minute Shot, in cui ragazzi dai 14 ai 16 anni possono sperimentarsi con brevi "video cinematografici". Protagonista dell'incontro anche Gian Luca Farinelli, che con la Cineteca di Bologna organizza Il cinema ritrovato, un festival di cinema classico che conta 3.000 accreditati da 67 paesi, 500 film in una settimana e 120mila spettatori. In questa trentatreesima edizione, dal 22 al 30 giugno, saranno presentate le versioni restaurate de Il circo di Chaplin e de I clowns di Fellini. Tra gli ospiti, si attendono Jane Campion e Nicholas Winding Refn.
Post n°15121 pubblicato il 19 Maggio 2019 da Ladridicinema
Il regista italiano al festival per presentare il film "The Staggering Girl" E' stato consegnato a Luca Guadagnino il Nastro d Argento Europeo che, per la prima volta a Cannes, ha celebrato un tragurdo speciale: i suoi primi trent'anni. Il regista italiano è sulla Croisette per presentare alla Quinzaine des Réalisateurs il mediometraggio " The Staggering Girl". Il film, in bilico tra cinema e moda, nasce dal dialogo artistico con il direttore creativo della "Maison Valentino" Pierpaolo Piccioli.
Post n°15120 pubblicato il 19 Maggio 2019 da Ladridicinema
Un noir poliziesco dalla marcata vena sarcastica, La Gomera prende il nome all’isola vulcanica delle Canarie, location del film, un luogo fuori dal mondo in cui, in un carcere di massima sicurezza, è detenuto un pericoloso gangster. In tale luogo mistico si ritrova il poliziotto corrotto Cristi, che decide di accettare un incarico losco per liberare il criminale e recuperare così un’ingente somma di denaro (trenta milioni di euro), tale da garantirgli una nuova vita. Ma l’incarico vede protagonisti una donna bellissima e il singolare compito di imparare una sorta di linguaggio in codice composto da fischi – il silbo – necessario a coordinare l’operazione senza essere intercettati. Ma l’amore, come spesso accade, metterà i bastoni fra le ruote e – fra numerosi colpi di scena – la storia prenderà una piega inaspettata. La Gomera: un noir all’insegna della sottile e intelligente ironia di Corneliu Porumboiu La Gomera è un film ricco di omaggi – spesso ironici – ai classici del cinema crime e musicali (da Iggy Pop a Casta Diva fino all’ Orfeo all’Inferno di Jacques Offenbach), che si inseriscono eloquentemente in una narrazione che procede per capitoli intitolati ai vari personaggi ma non sempre montati in ordine cronologico. Il risultato è uno svolgimento vorticoso, dal ritmo sostenuto, che accompagna le vicende di protagonisti i cui ritratti emergono gradualmente, rivelando aspetti inattesi e permettendo al pubblico di empatizzare gradualmente, senza rinunciare alla necessaria suspense. Per contro, è proprio la trama a rivelarsi eccessivamente complicata per quelli che sono gli intenti analitici e comunicativi del film, rendendo a tratti faticoso tenere il filo degli eventi col risultato di perdere l’aggancio necessario ad attendere con ansia un finale che invece riporta il film ad un notevole livello qualitativo, degno del suo regista. Così, fra momenti sottilmente alti dal punto di vista umoristico e intelligenti riflessioni sull’odierna società rumena, La Gomera si rivela un film forse non pienamente compiuto dal punto di vista della scrittura, ma che sicuramente non fa che confermare il talento di Porumboiu nel mettere in scena dinamiche interpersonali che sono sempre specchio di relazioni più ampie con l’ambiente sociale di cui parla, in cui materialismo e incomunicabilità divengono due facce della stessa medaglia. Con un particolare occhio di riguardo verso una visione della finzione (e quindi del cinema) che – nella sua palese messa in scena – spesso si rivela mezzo per raggiungere verità celate, altrimenti non accessibili. La Gomera è stato prodotto da Maren Ade, regista di Vi presento Toni Erdmann(presentato in concorso a Cannes 2016), e Sylvie Pialat; nel cast troviamo Vlad Ivanov, Catrinel Marlon, Rodica Lazar, Sabin Tambrea, Agustí Villaronga, István Teglas, Cristóbal Pinto e Antonio Buíl.
Post n°15119 pubblicato il 19 Maggio 2019 da Ladridicinema
«Non ho mai avuto una pioggia più felice di quella di questa mattina – ha ironizzato il cineasta spagnolo in apertura riferendosi al tempo non proprio clemente in queste ore in Croisette – Non dimenticherò mai la scorsa notte. Non credo però che il film vada preso alla lettera, anche se parla di un regista in crisi che si trova in un momento particolare della sua vita. Quando inizio a scrivere una sceneggiatura, le prime scene sono sempre legate alla realtà. Quindi preferisco rimanere fedele alla finzione». Non a caso nel film la madre di Salvador confessa al figlio di non amare particolarmente il termine autofiction, e Almodóvar sembra dello stesso avviso: «Quando parli di te stesso, coinvolgi necessariamente anche altre persone ed è qualcosa di molto delicato. Mi spaventa essere in grado di influenzare le altre persone. Esamino ogni dettaglio con una lente d’ingrandimento e mi proietto nell’intero film, ma non lo prendo alla lettera. Altrimenti, il personaggio si chiamerebbe Pedro e non Salvador!». Antonio Banders, attore prediletto del cinema almodovariano, è invece un candidato fortissimo per la Palma come miglior attore: «Ho lavorato per 11 o 12 anni in Spagna, prima di lavorare per 20 anni negli Stati Uniti. La mia connessione con la Spagna è Pedro. Ho fatto 113 film. Ma ho vissuto in questo film i mesi più felici della mia vita di attore. E questa sensazione nessuno sarà mai in grado di portarmela via. Se vogliamo sapere chi siamo come popolo, dobbiamo guardare i nostri artisti: Picasso, Lorca, Dalí. In un futuro non troppo lontano, per capire la Spagna degli ultimi 40 o 50 anni, la gente dovrà guardare i film di Pedro Almodóvar». In Dolor y Gloria poi si parla anche dipendenza: non solo quella dalle droghe, che Mallo inizia a sperimentare per porre un argine alla sua noia esistenziale, ma anche e soprattutto il bisogno spasmodico e la sete insaziabile di immagini, di cinema, di vita, anche tutti questi aspetti si trovano a rimanere tragicamente con la fragilità. «Come il personaggio di Salvador, che soffre la disperazione di sapere che fisicamente non sarà più in grado di girare film, la mia grande dipendenza è il cinema. Come spettatore e come narratore», dice il regista madrileno. Gli fa eco Penélope Cruz, che in Dolor y Gloriainterpreta sua madre: «Condivido con Pedro questa dipendenza dal cinema. Ho scoperto a 16-17 anni la sensazione di recitare in un film. Negli anni ho capito l’amore e il rispetto di Pedro per le donne».
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Inviato da: Mr.Loto
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