Per una singolare (e felice) coincidenza, domani i nostri due maggiori drammaturghi saranno contemporaneamente presenti sui palcoscenici cittadini: Viviani all'Augusteo, con la riedizione del celebre «Napoli: chi resta e chi parte», e Eduardo De Filippo al San Carlo, con la riproposta - in forma di racconto sinfonico per quattro voci, voce recitante e orchestra - del poemetto «Padre Cicogna», già presentato al San Ferdinando nel dicembre del 2009, a venticinque anni dalla morte di Eduardo.
Un'altra (e ancor più significativa) coincidenza è poi che uno dei temi fondamentali del teatro di Viviani, quello relativo alla vittima sacrificale mutuata dalla tragedia greca, ricorre anche nel poemetto di Eduardo. Il prete spretato Padre Cicogna non riesce, perché sempre qualcuno gliene muore, a mettere insieme i tre figli nei quali reincarnare i Re Magi; eppure continua a far figli, impavido - lui che pronunciò quel voto tutto nudo sui gradini dell'altare - di fronte all'odio perbenista del Supportico Lopez alla Sanità.
Infatti, allorché il sacrestano, che in chiesa l'aveva spiato, denuncia quella sua nudità «nnanz' 'a custodia 'e Ddio», Emanuele Palumbo, l'ex Padre Cicogna, si ritrova tutti contro. E qui Eduardo mette in campo accenti fra i più risentiti della propria opera: «Guai, quanno 'a Sanità se tira 'a porta. / Statece 'e casa int' a nu vico 'e Napule, / quanno stu vico te risponne: no!». Non si potrebbero immaginare un disincanto più amaro e, accoppiato con esso, un monito più alto e fermo contro l'indifferenza e il tornaconto personale.
È per questo che «Padre Cicogna» va considerato come uno dei migliori (se non il migliore) fra i testi in versi di Eduardo. Non rimane mai prigioniero della dimensione psicologica, ma sempre, puntualmente e strenuamente, si apre a quella sociale. La chiusa recita: «Chistu fatto è succieso... / e s'è mmiscato / mmiez'a tant'ati fatte ca succedono». E durissima si leva la condanna dei pregiudizi, delle menzogne e persino dei compromessi «che assicurano / il pane per la vita».
Insomma, l'amarezza si sposa con l'impegno civile, il disincanto con la dignità, il dolore con la speranza. E le musiche di Nicola Piovani fasciano un simile, vitalissimo «mélange» d'ossimori come un abito aderente e tuttavia vaporoso: le folate dei fiati e delle percussioni sul tappeto melodico degli archi costituiscono l'esatto corrispettivo delle increspature sul mare suggerite dalle lacrime sui morticini di Padre Cicogna. E come si poteva rendere il formalismo dell'anatema scagliato contro il prete spretato dalla Chiesa se non racchiudendolo in un concertato da melodramma, la forma chiusa per eccellenza?
Il tutto, infine, viene sottolineato ed esaltato come meglio non si potrebbe dall'orchestra del San Carlo, diretta dallo stesso Piovani. Adeguato anche l'apporto del soprano Susanna Rigacci, del mezzosoprano Susy Sebastiano, del tenore Pino Ingrosso e del basso Mauro Utzeri. E - «last but not least» - particolarmente rigoroso e intenso appare Luca De Filippo. Colloca anche all'inizio, a mo' di epigrafe, la chiusa citata. E vale, quell'epigrafe, come un monito a non chiudere gli occhi.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 19 maggio 2011)
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