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Il teatro visto da Enrico Fiore

 

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I quattrini del solitario Luigi De Filippo

Post n°528 pubblicato il 15 Febbraio 2012 da arieleO
 

Il marchese Eduardo Parascandalo, caduto in bassa fortuna e riciclatosi come filosofo stoico, insegna ai propri «discepoli» - in particolare al tontolone Vincenzino Esposito - il disprezzo per i beni materiali. E la sua «lezione» si riassume nella massima secondo cui non occorre aver davvero i soldi, basta far credere di averli. In altri termini, nel disinvolto paradigma moral-finanziario teorizzato dal «professore» («tene 'na capa tanta», dicono di lui gli adepti) a fruttare è il capitale che si chiama furbizia.
   Ecco, in estrema sintesi, il nucleo tematico di «A che servono questi quattrini?», la commedia di Armando Curcio ora in scena al Mercadante, nella riduzione di Peppino De Filippo, con la regia e l'interpretazione di suo figlio Luigi. Il testo, di per sé, è un puro meccanismo comico fondato - nel solco della più genuina farsa nostrana - sulla sistematica stroppiatura di concetti, parole e nomi. Si va, poniamo, dal ragazzo che beve l'acqua di una fontanella «col cavolo in mano» alla «crociata» che prende il posto della crociera; e Socrate e Diogene diventano, «pour cause», «Soreta» e «Idrogeno».
   Si tratta, dunque, di una classica commedia per attori. Non a caso, venne scritta su misura per Eduardo e, appunto, Peppino De Filippo, che ne fecero un travolgente successo all'inizio degli anni Quaranta; e fu poi ripresa più volte, ad esempio - e a parte l'edizione con Peppino nel ruolo di Eduardo Parascandalo e Luigi in quello di Vincenzino Esposito - per ben tre stagioni ('79-'80, '80-'81, '86-'87) dai fratelli Giuffré e nella stagione '97-'98 da Tato Russo.
   Adesso, però, sul palcoscenico Luigi De Filippo è solo. Nel senso che - dotato di uno stile che gli discende «per li rami», ossia di misura e tempi che sono il distillato prezioso di una tradizione (non limitata alla sua famiglia) illustre e impareggiabile - nei panni di Parascandalo sa trovare unicamente nella battuta l'innesco per la risata. Gli altri debbono aggrapparsi (e non sempre con risultati apprezzabili) alle grame risorse del buffo o del curioso, spesso determinati, peraltro, appena da una caratteristica fisica o da un particolare esasperato del trucco o del costume.
   Al riguardo, pensiamo soltanto a una bazzecola: oltre che da Luigi De Filippo, il ruolo di Vincenzino Esposito fu interpretato da Aldo Giuffré, appunto, e nientemeno che da Leopoldo Mastelloni. Si capisce, allora, perché il teatro ha un presente problematico e un futuro che nella migliore delle ipotesi appare incerto.

                                                 Enrico Fiore

(«Il Mattino», 19 gennaio 2012)

 
 
 
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