In «Peppe Barra racconta», di scena al Delle Palme, non c'è nemmeno una delle storie del «Decàmeron» e de «Lo Cunto de li Cunti» annunciate dai giornali. Eppure - e in ciò consiste il pregio straordinario dello spettacolo - sia Boccaccio che Basile vi risultano presenti e riconoscibilissimi: perché Peppe Barra, infaticabile rabdomante dalle più varie esperienze, li richiama, dall'inizio alla fine, come se fossero autentici suoi «doppi».
Parlo del Boccaccio che nel periodo napoletano, fino al 1340, conobbe tanto Paolino Veneto, il cronista e trattatista vescovo di Pozzuoli, quanto Andalò da Negro, eminentissimo fra gli astronomi; e del Basile caratterizzato, nel suo capolavoro, dai processi di metamorfosi, dallo sperimentalismo linguistico e dalla scrittura anfibologica. E proprio una simile molteplicità e multiformità di avventure culturali e di tecniche espressive si riscontra in «Peppe Barra racconta».
Si tratta, in breve, di una Barra-story che (con l'appoggio del bravo Salvatore Esposito) mescola costantemente il riepilogo della strepitosa carriera artistica di Peppe e il tenero amarcord della sua vicenda umana. E così s'intrecciano, poniamo, l'«Aitano» di Roberto De Simone, ovvero il dramma della vita rifiutata perché è una tortura, e «Vico Vasto» dello stesso Barra, ovvero il sogno della vita accarezzata perché è una speranza.
Il virtuosismo delle variazioni sul tema investe persino il doppio senso di natura sessuale: si va dal garbo de «La pansé» di Pisano e Rendine allo slittamento ironico de «La zitella» di Bruno Lauzi e alla protervia sboccata della ricetta sciorinata dalla tupputa Meneca. E la memoria del bambino che con la nonna andava a Procida e vedeva nel mare i delfini si fonde con l'elegia dell'orologio che scandisce il tempo che passa e si porta via il mondo.
Basta, su. Io dico che Peppe Barra è l'ultima incarnazione della sapienza scenica napoletana nel suo complesso di canto e recitazione. Dopo di lui rimarrà solo il deserto. Andate al Delle Palme e mi saprete dire se non è vero.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 8 febbraio 2013)
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