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Il teatro visto da Enrico Fiore

 

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Un brindisi per il Sancarluccio

Post n°712 pubblicato il 04 Giugno 2013 da arieleO
 

Lo sappiamo, Napoli è un coacervo inestricabile di luci e di ombre. E adesso ne abbiamo l'ennesima dimostrazione, commovente e (un altro ossimoro) irritante insieme: mentre comincia un Napoli Teatro Festival Italia ricco di nomi e allestimenti prestigiosi, taluni di caratura internazionale, e mentre ci apprestiamo a celebrare il diciannovesimo anniversario della morte di Massimo Troisi, che appunto nella piccola sala di San Pasquale a Chiaia giunse alla ribalta della notorietà, per sabato prossimo è annunciato l'ultimo spettacolo del Sancarluccio, costretto a chiudere per l'impossibilità di pagare l'affitto.
   Comincio dal secondo corno dell'ossimoro, l'irritazione: com'è possibile che in una città carica di storia e d'arte quant'altre mai sia condannato a sparire, per una volgare questione di quattrini, uno dei più meritori presidi del teatro e dell'attività culturale in genere? E la commozione - il primo corno dell'ossimoro, al secondo complementare - si riferisce al fatto che il Sancarluccio non è un teatro come gli altri, incarna (almeno per chi lo frequentò agli albori, quarant'anni orsono) il sentimento di appartenenza alla comunità cittadina più autentica e la passione per la creatività condivisa tra i suoi gestori e gli spettatori.
   Non a caso, davvero, questa condivisione s'identificò con le figure per molti versi straordinarie dell'indimenticabile Franco Nico, compositore e cantante, e di sua moglie Pina Cipriani, nelle cui vene scorre, purissimo, l'antico sangue dell'intramontabile musica partenopea. Fu grazie a loro che, per esempio, i napoletani poterono vedere per intero lo splendido monologo del Cioni Mario di Roberto Benigni, accolto in televisione appena sotto specie di qualche pallido reperto; e fu grazie a loro che, sempre per fare un esempio, il Leopoldo Mastelloni di «... le compagnie» poté sbattere in faccia a certe signore impellicciate, venute al Sancarluccio per ridere del «femmeniello», un feroce, implacabile lamento funebre per la borghesia.
   Altri nomi? Bisognerà - date le vicende di cronaca nera che imperversano - accennare almeno alle vessillifere del teatro femminista o femminile «tout court»: le varie Dacia Maraini, Saviana Scalfi, Renata Zamengo, Laura Costa, Lucia Poli, Rosa Di Lucia... e lei, Prudentia Molero, la bellissima (ne fummo un po' tutti innamorati) esule argentina che portava in giro per il mondo il dolore e la fierezza delle «pazze» della Piazza di Maggio.
   Basta, però. Questo «pezzo» non vuole e non può essere un epicedio, vuole e dev'essere un brindisi benaugurante affinché il Sancarluccio non muoia. E del resto, è mai accaduto che sia morta la poesia? Concludo, così, con un ricordo che non rientra fra quelli (le «ombre troppo lunghe / del nostro breve corpo») respinti da Cardarelli.
   Fu al Sancarluccio, piccola patria della nostra disperata serenità, che - mentre la dolcissima e smarrita Raffaella De Vita cantava «La folla» che cantò Edith Piaf, evento e non rappresentazione - fu lì che in una sera come tante altre, affogata nello stillicidio dei giorni, capii perché al «passerotto» diedero il cuore, insieme con i poeti e gli «chansonniers», anche i marinai che non si sa come facciano a riconoscere le stelle, sempre uguali sempre quelle dall'Equatore al Polo Nord.

                                          Enrico Fiore

( «Il Mattino», 4 giugno 2013)           

 
 
 
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