Eccoci, dunque, a parlare de «La bisbetica domata» di Shakespeare che il Napoli Teatro Festival Italia presenta al San Ferdinando per la regia di Andreij Konchalovskij. E bisogna partire dal fatto, decisivo, che il tema dominante della commedia è il travestimento, in tutte le accezioni del termine.
Ortensio e Lucenzio, per poter corteggiare Bianca - la sorella della «bisbetica» Caterina che il padre, Battista, ha deciso non debba sposarsi prima della figlia maggiore - si spacciano, rispettivamente, per maestro di musica e professore di lettere. E ci son servi che prendono il posto dei padroni. E se c'è chi non si traveste, come Petruccio, in compenso finge dal primo all'ultimo momento: finge di amare Caterina mentre non mira che alla sua dote, finge di trovarla mite e arrendevole per poterla sposare e poi, per domarla, le impedisce di mangiare, dormire e vestirsi, fingendo sistematicamente di trovare i cibi malcotti, il letto malfatto e gli abiti malcuciti.
Il testo stesso, d'altronde, è un travestimento: giacché - appartenendo al periodo dell'apprendistato (e quindi alla fase sperimentale) di Shakespeare - risulta, soprattutto, dal rimaneggiamento di «The Supposes» di George Gascoigne, che, come se non bastasse, per proprio conto è un rimaneggiamento de «I Suppositi» dell'Ariosto.
Ebbene, direi che Konchalovskij illustra tutto questo con una precisione e un'inventiva davvero non comuni: a cominciare (non a caso sono sue anche le scene) dai due specchi per il trucco che piazza in evidenza a destra e a sinistra. E addirittura splendida, poi, è l'idea di spostare l'azione negli anni Venti, quelli che videro - tanto per fare solo tre esempi - le ragazze italiane emancipate tagliarsi i capelli «alla maschietta», il giovanotto ebreo Jakie Rabinowitz tingersi la faccia di nero per sembrare «Il cantante di jazz» e Mussolini indossare la maschera del Duce.
Infatti, proprio una parrucca «alla maschietta» adotta qui Caterina e una copia conforme del prode Benito, con tanto di fez, diventa Ortensio. Mentre non meno adeguatamente vengono sottolineati gli stilemi da Commedia dell'Arte presenti nel testo del Bardo, fra l'abbigliamento da Capitan Fracassa che la costumista Zaira De Vincentiis attribuisce in occasione del matrimonio a Petruccio e i ricorrenti saltelli da Arlecchino disseminati dalla coreografa Ramune Chodorkaite.
Infine, nella cornice di esterni alla De Chirico proiettati sul fondale, l'eccellente cast in campo dispiega una prova che mescola, con sagacia e allegria, le forme e ritmi della farsa, del vaudeville e della rivista. Primeggiano, naturalmente, Mascia Musy, una Caterina che sciorina l'intero repertorio di moine e intemperanze di una suffragetta propensa a sedersi, e Federico Vanni, un Petruccio da antologia scavato in un'indolente ambiguità. E fra gli altri vanno segnalati almeno Adriano Braidotti (Biondello, il servo di Lucenzio) e i nostri Vittorio Ciorcalo (Battista) e Carlo Di Maio (Ortensio).
Insomma, Andreij Konchalovskij ci offre con questo spettacolo un gran bell'esempio di come si possa rinverdire i classici senza tradirne (ed anzi esaltandone) il messaggio e i contenuti fondamentali.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 10 giugno 2013)
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