La sera del 13 aprile 1979 - era l'ultima volta che veniva a Napoli, e al San Ferdinando, nel doppio ruolo di regista e interprete - Eduardo, al termine dello spettacolo (composto da «Il berretto a sonagli» di Pirandello e dal suo «Sik-Sik, l'artefice magico»), volle sottolineare il peso che, nell'ambito del decisivo legame col drammaturgo siciliano, attribuiva al proprio atto unico: «Lo ritengo all'altezza del maestro Pirandello, e qui, poi, ci sono i semi di tutto quello che sarebbe stato in seguito il mio teatro».
Infatti, «Sik-Sik, l'artefice magico» costituisce, insieme, una «summa» della poetica eduardiana e un riscontro probante del tema centrale sviscerato da Pirandello, quello dell'ossessione di una forma: nella circostanza la forma della «dignità», del mantenimento ad ogni costo del decoro esteriore.
Lo scalcagnato prestidigitatore di Eduardo non si fa scrupolo di piazzare dei «pali» in platea purché riesca, in qualche modo, a salvaguardare la sua povera fama (ed ovviamente - giusta una battuta che oggi si chiamerebbe lapsus freudiano - a tacitare una ben più concreta fame). E lo scarto tra fama e fame, poi, rappresenta solo uno degli esempi possibili circa la straordinaria capacità d'invenzione che, sul piano linguistico, Eduardo dispiega nell'atto unico in parola: un'invenzione spinta fin nei territori abitati dai surrealisti e, addirittura, dai dadaisti.
Attenzione, però. Non a caso, prima, ho messo la parola dignità fra virgolette. Con essa (e assumendo Sik-Sik come un emblema di Napoli) Eduardo alludeva al decoro esteriore falso. Tanto che, quella sera, mi disse nel camerino: «Non riusciremo a procedere spediti fino a quando non avremo fucilato la dignità». Ed è una delle più acute osservazioni che mai siano state fatte sull'antica Partenope e sul suo «vizio» perenne.
Ebbene, rispetto a tutto questo Pierpaolo Sepe - regista dell'allestimento di «Sik-Sik, l'artefice magico» presentato al Mercadante nell'ambito del Napoli Teatro Festival Italia - punta, giustamente, sull'astrazione e sul simbolismo: e quindi, non si vedono i catenacci, non si vedono i bicchieri, non si vede il colombo; e la famosa «cascia» è ridotta a una tendina. Ma il problema è che, poi, i pur bravi interpreti - a parte l'invenzione contraddittoria di qualche gag di troppo - se ne vanno ciascuno per conto proprio.
Benedetto Casillo dà vita a un Sik-Sik sospeso fra il grottesco e il nevrotico, Roberto Del Gaudio fa di Nicola un proverbiale guappo da sceneggiata, Marco Manchisi fa di Rafele un bulletto di periferia e Aida Talliente regala a Giorgetta la parlata che presume sia napoletana una che, come lei, è di Udine.
Alla «prima» non sono mancati le risate e gli applausi, le une e gli altri relativi (e questo non lo presumiamo, ne siamo certi) al testo originale, un autentico capolavoro, e al suo autore. S'invera, così, quanto in quella sera del '79 Eduardo disse a conclusione del suo discorso: «Sik-Sik ve lo affido per l'avvenire, perché io penso che questo personaggio non avrà fine, né con me né dopo di me».
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 15 giugno 2013)
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