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Il ritorno di Moscato al Piccolo

Post n°731 pubblicato il 20 Ottobre 2013 da arieleO
 

Ecco il racconto di una piccola vittoria conseguita dalla Napoli nobilissima (quella della cultura) che ancora esiste e resiste, nonostante tutta l'indifferenza dei politici e tutte le inadempienze degli amministratori locali.
   Giulia Cogoli è una donna che conta nella Milano che conta. Fra l'altro dirige il Festival della Mente di Sarzana. E lì, nel settembre dell'anno scorso, approdò Enzo Moscato con il suo «Toledo suite». Giulia Cogoli, che s'era letteralmente innamorata di quel recital, si diede subito da fare perché Ronconi ed Escobar - anche loro fra gli spettatori di «Toledo suite» e, del resto, non meno entusiasti di lei - lo portassero al Piccolo. E così, Moscato è tornato al Piccolo a vent'anni di distanza da quando Strehler lo invitò a rappresentarci «Embargos».
   Ma Giulia Cogoli ha fatto qualcosa di più. Dal momento ch'era il suo compleanno, il giorno prima del debutto ufficiale s'è comprata, a titolo di regalo, una replica straordinaria dello spettacolo, pagando di tasca propria il Teatro Studio e la compagnia. E come se non bastasse, al termine ha offerto, nel foyer dello Strehler, una cena di gala all'intera Milano di rango che aveva invitato a vedere «Toledo suite».
   Sembra una favola, soprattutto se consideriamo il fatto che, per «Napoli '43», qui da noi Moscato non ha avuto nemmeno una lira. Ed è inutile sottolineare il contrasto eclatante che si stabilisce fra la disattenzione subìta da «Napoli '43» e l'autentico trionfo che nel Teatro Studio del Piccolo ha ottenuto «Toledo suite»: inutile anche perché proprio sull'ossimoro - insieme spiazzante e stimolante - si fonda e si regge «Toledo suite», con una coerenza tanto ferrea quanto appassionata.
   Qui, infatti, la musica va intesa come la soglia fra il tormento di una condizione asfittica e il conforto di un'evasione sognata. E non a caso, allora, tra una canzone e l'altra vengono chiamate a parlare della musica le puttane, appunto, di «Toledo suite», il testo che faceva parte, nell'88, di «Tiempe sciupate»: le puttane chiuse «rint'a cchelli celle 'e monache in peccato».
   La soglia in questione si manifesta, peraltro, già nel velatino che chiude il boccascena, e soprattutto nei lineari, e pure raffinatissimi, disegni-segni di Mimmo Paladino che su quel velatino vengono proiettati. E non mette conto, al riguardo, d'insistere né sull'interscambio continuo fra canzoni leggere come «Cerasella» o «Anema e core» e brani risentiti come «Youkali» e «To my little radio» di Brecht, né sulle spezzature e le dissonanze che tramano gli arrangiamenti di Pasquale Scialò.
   Appartengono alla Napoli nobilissima che ha trionfato a Milano anche i tre giovani ma già sapienti musicisti che accompagnavano Enzo Moscato: Claudio Romano alla chitarra, Paolo Sasso al violino e Paolo Cimmino alle percussioni. Ma uscendo, infine, dal territorio della cronaca, è opportuno annotare che il cerchio si chiude perfettamente.
   Se Moscato, con il suo spettacolo, può invitare gli spettatori a mobilitarsi contro il sonno della ragione e la miopia dei potenti prendendo in prestito un verso soprattutto della canzone di Brecht: «Fa' che non cada improvviso il silenzio», d'altronde il Teatro Studio del Piccolo è stato intitolato a Mariangela Melato, che dedicò l'ultima sua fatica a «Il dolore» di Marguerite Duras. E della Duras compare nel recital di Moscato quell'«India song» che - l'ennesimo ossimoro - è percorsa dall'inizio alla fine da una straziata e tuttavia dolcissima contraddizione: «Canzone, tu che non vuoi dir niente e tu che mi dici tutto».
   Non è lo scarto medesimo fra la Napoli dell'ignavia, che tace, e la Napoli della poesia, che grida giorno dopo giorno la propria sia pur lacera dignità?

                                                      Enrico Fiore

(«Il Mattino», 20 ottobre 2013)

 
 
 
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