COLONIA. «Dopo trent'anni d'impegno e di resistenza, abbiamo sentito il bisogno di un cambiamento, d'altronde imposto dalle naturali necessità derivanti dalla crisi del teatro italiano. E perché fosse efficace, quel cambiamento doveva portare un segno forte: di qui la scelta di un direttore artistico che, a parte il nome di spicco, non si limitasse semplicemente a organizzare la programmazione».
Igina Di Napoli, l'anima del Nuovo, parla pochi minuti prima del debutto alla Schauspielhaus di Colonia de «La metamorfosi e altri racconti», lo spettacolo di Antonio Latella dedicato a Kafka. Perché è proprio lui, Latella, che nei prossimi due anni verrà a dirigere la sala di via Montecalvario. E il significato dell'avvenimento risulta fin troppo palese: siamo di fronte a un intellettuale e a un artista napoletano che - pur essendo uno dei maggiori registi teatrali europei e pur vivendo da anni a Berlino - decide di non fuggire più e di tornare alle radici.
Un'eclatante inversione di tendenza. «La questione - commenta Latella - è che fare teatro ormai ha senso solo se lo si fa attribuendogli un valore civile e politico. E quel valore lo si può trovare unicamente in condizioni di frontiera, di difficoltà. È il caso di Napoli, in generale, e appunto del Nuovo in particolare. La storia di quell'indomito avamposto dei Quartieri (penso ai vari Martone e Servillo, Delbono ed Emma Dante, Ruccello e Moscato) ha trasmesso proprio questo, non solo cultura. E proprio per questo io, che avevo rifiutato altre proposte del genere, e assai più vantaggiose sotto il profilo economico, ho accettato quella di Igina Di Napoli e Angelo Montella: davvero sento il Nuovo come la mia casa».
Ma che cosa vuol fare, in concreto, Antonio Latella? «Nei due anni in cui si articolerà il mio progetto di direzione affronterò il tema dell'atto estremo, nel senso positivo e negativo dell'aggettivo: giacché, per proteggere e salvare la cultura teatrale, c'è bisogno di un gesto fondamentalista. E il mio biennio, quindi, dovrà raccontare - a partire dai grandi autori (Genet, Pasolini, Giordano Bruno) che, per l'appunto, hanno protetto le loro idee con gesti estremi - le persone comuni in cui essi si sono incarnati. Mi riferisco, per esempio, a Simone Weil».
Intanto, questo progetto si manifesta attraverso un preludio: gli spettacoli «Don Chisciotte», «Selvaggiamente le parole lussureggiano nella mia testa. Un trittico» (da testi di Josef Winkler) e «H(L)Dopa» (da «Risvegli» di Oliver Sachs), che debutteranno al Nuovo rispettivamente il 26 dicembre, il 5 gennaio e il 28 aprile. E si tratta del viaggio che Latella, da sempre abituato a lavorare per percorsi, va compiendo all'interno del connubio malattia-letteratura: un viaggio di cui costituisce un'ulteriore tappa giusto l'allestimento centrato sull'opera di Kafka. E aggiungo subito che di rado s'è visto uno spettacolo che con pari acume e coerenza abbia messo a fuoco un autore.
«La metamorfosi e altri racconti» si svolge per intero alla ribalta, con gli attori che il pesante sipario tagliafuoco abbassato separa dallo spazio scenico. Dunque, ci troviamo immediatamente di fronte a una frattura strutturale e, perciò, radicale. E in che cosa consiste il nodo «ideologico» fondamentale dell'opera di Kafka, se non nella denuncia della frattura tra le parole e le cose (una frattura per cui le cose - private del Nome - acquistano per l'uomo un'oggettualità per l'appunto anonima e, nello stesso tempo, ostile e spietata)?
Ebbene, potente e altrettanto radicale si rivela l'invenzione con cui Latella sottolinea e addirittura fa esplodere l'assunto kafkiano: gli oggetti, gli arredi e i cibi menzionati dal testo non si vedono, ma vengono sostituiti dai loro nomi tracciati con il gesso su una miriade di lavagne. Tutti tranne (e davvero non è una combinazione) la mela che, scagliata dal padre, ucciderà il Gregor Samsa trasformatosi in scarafaggio. Per Latella, insomma, le parole non solo si separano dalle cose, ma nientemeno ne prendono il posto.
Del resto, la potenza visiva messa in campo dal regista napoletano traduce alla perfezione la decisiva osservazione di Benjamin: «Tutta l'opera di Kafka rappresenta un codice di gesti». Mentre la citazione conclusiva dalla «Lettera al padre» («Non sono altro che letteratura e non posso né voglio essere altro») rimanda, estrema coerenza, al Don Chisciotte secondo Foucault: scrittura errante fra le cose. Strepitosi, infine, i cinque interpreti: Simon Eckert, Torsten Peter Schnick, Renato Schuch, Rosario Tedesco e Michael Weber. E interminabili gli applausi al termine.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 1 novembre 2009)
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