Oltre ogni dubbio, è la bizzaria (nel senso, a norma dello Zingarelli, di ciò «che non segue i comportamenti considerati comuni e abituali») a connotare questa terza edizione del Napoli Teatro Festival Italia. Infatti, stando alle traduzioni ufficiali, «Bizzarro» si chiama il terribile critico che imperversa in «Diciotto carati» di Skármeta e il nome «Bizzarra» viene dato da Velita, una delle protagoniste della «teatronovela» di Spregelburd, alla stella da lei scoperta con un telescopio di fortuna.
Ma forse si tratta di lapsus freudiani: perché la parola spagnola «bizarro» significa in italiano «coraggioso, generoso, splendido», mentre la parola italiana «bizzarro» significa in spagnolo «extravagante, excéntrico, singular». E comunque, sembra davvero che il direttore della rassegna, Renato Quaglia, abbia fatto propria la massima del Cavalier Marino: «È del poeta il fin la meraviglia / [...] chi non sa far stupir, vada a la striglia». Il programma (settantaquattro eventi fra Napoli Teatro Festival Italia ed E45 Napoli Fringe Festival) si traduce in un autentico fuoco d'artificio che accumula tutto e il contrario di tutto: spettacoli di dodici ore e performance di dieci minuti, location immense e spazi angusti quanto una toilette, teatri emblematici e palcoscenici occasionali come le fermate dell'autobus.
Certo, le proposte importanti non mancano. E mi limito qui a segnalare, ovviamente, «Lipsynch» di Robert Lepage, «Immanuel Kant» di Alessandro Gassman, «El avaro» di Jorge Lavelli, «I demoni» di Peter Stein, «Auguri e figli maschi!» di Antonio Latella e «Cabaret-Hamlet» di Matthias Langhoff. Ma siamo sempre alla situazione di partenza. Davanti al Napoli Teatro Festival Italia ci sono, ripeto, un rischio e un'opportunità: il rischio è quello di limitarsi ad essere una vetrina, aggiunta ad altre vetrine e, per di più, gravata dall'handicap d'essere aperta, purtroppo, in una strada periferica e dissestata; l'opportunità è quella di ridestare la tensione creativa che, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, fece della nostra città la capitale indiscussa della più avanzata e innovativa sperimentazione scenica. E bastano due esempi a illustrare il rischio e l'opportunità in questione.
Quando nel maggio di tre anni fa lo incontrai a Salonicco, dove venne a ritirare il Premio Europa per il Teatro, Robert Lepage mi disse che era stato «molto influenzato» dall'avanguardia scenica napoletana. E aggiunse: «Al Napoli Teatro Festival Italia verrei volentieri. Ma, questo è certo, non ci verrei con un progetto predeterminato. Il progetto lo creerei sul posto, insieme con gli attori napoletani». Invece ci è venuto con uno spettacolo già confezionato altrove. E a dimostrare che siamo di fronte a un'occasione perduta è sufficiente il ricordo di quello che seppe imbastire Enrique Vargas con «Cosa deve fare Napoli per rimanere in equilibrio sopra un uovo», uno degli allestimenti più belli non solo della prima edizione ma dell'intera storia del Festival.
Secondo punto. La ricerca, evidentemente, non può vertere che sul linguaggio. E in proposito sarà non poco interessante il confronto con il drammaturgo, regista e attore argentino Rafael Spregelburd, uno dei nomi di spicco del teatro internazionale d'oggi. Pensate, tanto per intenderci, a una sorta di Rodrigo García che alla rabbia sostituisca una strategia immaginifica alla Borges e un'ironia dissacrante alla Copi. Ma se parliamo, appunto, di «Bizarra», la sua «teatronovela» che potremo seguire in venti puntate al Sannazaro, dobbiamo per forza rammentare che la commistione dei linguaggi teatrale e televisivo venne già praticata da Annibale Ruccello: segnatamente nelle «piccole tragedie minimali» di «Mamma», datate 1986. E Annibale Ruccello continua a restare uno spettro, che s'aggira nei meandri del Festival non solo incorporeo ma pure invendicato.
Si poteva metter mano ai suoi inediti. Il Bellini, fra breve, produrrà un nuovo allestimento (regista Roberta Torre e protagonista Donatella Finocchiaro) de «La ciociara», l'adattamento del romanzo di Moravia. Perché il Napoli Teatro Festival Italia non fa un pensierino circa «I gingilli indiscreti», la riscrittura de «I gioielli indiscreti» di Diderot finora mai andata in scena? Il copione ce l'ha la grande Barbara Valmorin, per la quale Annibale aveva già scritto «Week-end».
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 29 maggio 2010)
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