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Servillo, lo "Sconcerto" come atto politico

Post n°411 pubblicato il 06 Febbraio 2011 da arieleO
 

«È questo il tavolo da gioco: o ci si chiama fuori, / stranieri al mondo circostante, o chi si siede / si trasforma - suo malgrado - in commediante». Franco Marcoaldi - autore del testo di «Sconcerto», lo spettacolo (musica di Giorgio Battistelli, voce e regia di Toni Servillo) approdato al Mercadante dopo il debutto del settembre scorso al Ravello Festival - non poteva riassumere meglio la situazione avvilente, e addirittura disperante, che oggi ci tocca.
   Però, il direttore d'orchestra protagonista di «Sconcerto» non fa né l'una né l'altra cosa, non si chiama fuori e non finge. È vero: mentre l'orchestra vorrebbe suonare lui non riesce a dirigere, perché infiniti rovelli gl'intasano il cervello e troppe parole inani gl'impastano la bocca, non importa se figlie della nostalgia o del conformismo corrente; e tuttavia, nonostante un simile stallo, quel direttore il podio non lo abbandona. Appartiene alla sparuta ma impavida pattuglia dei «felici pochi» di Elsa Morante, s'ostina a conservare la coscienza e l'innocenza.
   Potremmo dire che adotta, con Gramsci, il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà. Ma più esattamente, e meno banalmente, diremo che invera la massima di Brecht: «Esitare va benissimo, se poi fai quello che devi fare». E del resto la citazione di Brecht è obbligata, visto che a un certo punto Servillo dal podio e il fratello Peppe dalle file degli orchestrali si mettono a canterellare un song dell'«Opera da tre soldi».
   Con ciò sottolineo, è ovvio, lo straordinario - perché lucidissimo e fecondo - interscambio che si determina qui fra il testo, la musica e l'interprete: i versi del libretto di Marcoaldi vengono spinti a farsi puro suono, le note della partitura di Battistelli si tramutano in vera e propria azione drammatica, i movimenti e i gesti che Servillo presta al direttore diventano un perfetto equivalente e di quei versi e di quelle note.
   Faccio al riguardo un solo esempio. Le pause e i rallentamenti di Servillo corrispondono con estrema precisione ai punti coronati disseminati sul pentagramma, e questi, a loro volta, con altrettanto rigore traducono i momenti di riflessione proposti dal libretto. Ed è quasi superfluo, allora, soffermarsi sulla bravura insuperabile di Toni, sulla sagacia e la simpatia con cui gli fa da spalla Peppe e sulla perizia tecnica dell'orchestra del San Carlo, adeguatamente diretta da un Marco Lena nascosto sotto il podio.
   Piuttosto, credo che occorra riflettere sulla sequenza conclusiva. Nel testo di Marcoaldi le ultime parole pronunciate dal direttore sono: «E l'orchestra? Eh, l'orchestra...». Ancora un dubbio, ancora un'esitazione, o appena un'ipotesi. Invece Toni Servillo la parola «orchestra» la pronuncia in maniera affermativa. Ed ecco che cosa significa essere davvero un regista che pensa e un interprete che crea. Servillo, in breve, la chiama col suo nome, quell'orchestra che gli sfugge: e così la fa esistere, e ridesta la musica perduta.
   Servillo, insomma, smette i panni del Don Chisciotte secondo Foucault, quello che fu soltanto «scrittura errante nel mondo in mezzo alla somiglianza delle cose», per indossare la divisa di militante del Don Chisciotte secondo Pedro Salinas, il protagonista di un «romanzo degli incontri, quasi sempre con viandanti sconosciuti o con persone smarrite». Ed è per questo che «Sconcerto» diventa, più che uno spettacolo, un vero atto politico, e nel senso nobile dell'aggettivo.

                                                 Enrico Fiore

(«Il Mattino», 3 febbraio 2011)

 
 
 
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