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Il teatro visto da Enrico Fiore

 

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Pippo Delbono tra la follia e l'amore

Post n°678 pubblicato il 01 Marzo 2013 da arieleO
 

Direi che degli autori citati e riscritti da Pippo Delbono in «Dopo la battaglia», il suo nuovo spettacolo in scena al Bellini, qui contano soprattutto Rilke (ovvero l'ossimoro), Kafka (ovvvero la frattura tra la parola e la realtà) e Dante (ovvero l'«auctor» che è, insieme, un «viator»): con Rilke viene messa in scena la schizofrenia, con Kafka l'impossibilità dell'apriorismo letterario e con Dante la necessità per l'artista di uscire dalla propria torre d'avorio per farsi uomo tra gli uomini.
   Dunque, «Dopo la battaglia» è - giusto il titolo - un percorso fra opposti, o meglio il viaggio privato di Pippo (e quello che Pippo c'invita a compiere insieme con lui in teatro) dal buio alla luce, dall'orrore alla bellezza, dalla follia all'amore. E infatti, forse che Rilke non dedicò «I sonetti a Orfeo» a Wera Ouckama Knoop, la danzatrice divina morta a vent'anni per una malattia incurabile e che, pure, era stata capace di trasformare in slancio vitale, e quindi in «progetto», l'inarrestabile corrompersi del mondo?
   Non a caso, allora, lo spettacolo assume come leitmotiv «Il lago dei cigni»: ma se all'inizio il bastone di Bobò guidava il cigno nero come se fosse la bacchetta di un direttore d'orchestra e, con ciò, imprigionava la sequenza nella formalizzazione, alla fine a guidare il cigno bianco è il violino del rumeno Alexander Balanescu, carico - rispetto al romantico lirismo ciaikovskiano - d'echi klezmer e anarchie gitane. E allo stesso modo, dalla dolorante fissità dei pazzi si passa a uno svagato varietà di clown.
   Tanto per osservare che in «Dopo la battaglia» le parentesi di divertimento traducono la sottolineatura per contrasto dello scenario - ad un tempo tragico e ridicolo - che oggi ci tocca, fra la carneficina dei migranti e i festival poetici di paese. La felicità e la libertà possono essere, quindi, anche solo l'immemore danza a cui Delbono e tre delle interpreti s'abbandonano sull'onda di «Adio querido» cantata da María Salgado.
   Infine, questo spettacolo bellissimo - smarrito come un bambino nella notte e impavido come una bandiera rossa nel sole - trova l'apice in due dediche: alla madre di Pippo, scomparsa da poco, con i versi, tra i suoi più alti, di Pasolini («Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. / Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile...»); e a Bobò, il microcefalo sordomuto che Delbono prese con sé dopo gli oltre quarant'anni che aveva passato nel manicomio di Aversa.
   Adesso Bobò, circondato nell'ultima scena dalle attrici che gli fanno mille moine, è un attore superbo: incarna il corpo glorioso sognato dall'impuro e purissimo scriba che si chiamò Antonin Artaud.

                                                  Enrico Fiore

(«Il Mattino», 1 marzo 2013)

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