CONTROSCENAIl teatro visto da Enrico Fiore |
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Una tela di circa un metro e cinquanta per due, completamente bianca e su cui si distinguono a fatica tre linee diagonali, tono su tono. È il quadro di un celebre pittore d'avanguardia che Serge, un affermato dermatologo, ha acquistato per la bella cifra di duecentomila euro. E per lui, naturalmente, si tratta di un capolavoro: «Qui dietro c'è un pensiero. È il compimento di un viaggio», afferma convinto. Ma per il suo amico Marc, un ingegnere aeronautico, quel quadro è, puramente e semplicemente, «una merda». E l'intervento quale paciere di Yvan, un terzo amico non si sa se più tollerante o più vigliacco, riesce soltanto a complicare ulteriormente la disputa. A mettere d'accordo Serge, Marc e Yvan sarà, alla fine, il comune bisogno di trovare un antidoto alla solitudine.
Questa, in breve, la trama di «Art», la fortunata commedia della parigina Yasmina Reza ora in scena al Mercadante. E si capisce, dunque, che il quadro in discussione funziona, insieme, da catalizzatore e da cartina di tornasole, per far venire a galla, e nello stesso tempo sviscerare e chiarire, tutte le tensioni, tutte le menzogne e tutti i compromessi per anni e anni nascosti, appunto, sotto la comoda e ipocrita maschera della proverbiale «amicizia per la pelle». In questo consiste, al di là dei pur notevoli risvolti comici, il pregio fondamentale del testo: che, così, trova modo persino di alludere - senza parere, e perciò con efficacia maggiore - all'eterno scontro fra la ragione e l'istinto e tra la volontà e il sentimento.
Dal canto suo, l'efficace regia di Giampiero Solari sottolinea come meglio non si potrebbe il carattere metaforico dell'oggetto al centro del plot: il bianco del quadro, simbolo evidente della solitudine di cui sopra, si estende a tutte le pareti dell'appartamento di Serge, in pratica ingloba, interi, il mondo e l'esistenza; e lo scorrere orizzontalmente di due alti pannelli verticali serve da un lato a scandire, non meno simbolicamente ed efficacemente, gli spostamenti progressivi dell'analisi e dall'altro a celare o a far sparire, a turno, i tre personaggi in campo, rendendone anche visivamente la natura ambigua e sfuggente.
Ottima, infine, la prova degl'interpreti: Alessio Boni (Serge), Gigio Alberti (Marc) e Alessandro Haber (Yvan). Alla «prima» molte risate, applausi a scena aperta e acclamazioni al termine. Insomma, abbiamo qui un esempio rilevante del teatro che, in casi purtroppo rari, riesce ad inverare l'aurea massima di Hofmannsthal: «Bisogna nascondere la profondità. Dove? Alla superficie».
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 21 febbraio 2013)
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