CONTROSCENAIl teatro visto da Enrico Fiore |
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Una volta Mariangela Melato mi disse che il mestiere dell'attore ha sempre meno senso. E figuriamoci se ne ha di più quello del cireneo che ancora ci si ostina a chiamare critico teatrale. Ma entrambi, l'osservazione della Melato e il mio commento, traducono la distanza che sempre, come ammonisce Peter Brook, bisogna mettere fra noi e quello che facciamo per professione. È solo in tale distanza che l'attore e il critico possono ritrovare il senso del proprio lavoro e, forse, trasmetterlo al terzo componente della triade in campo, lo spettatore-lettore. Enrico Fiore («Il Mattino», 6 maggio 2010)
Parliamo de «Il dolore», lo spettacolo che - protagonista per l'appunto Mariangela Melato - lo Stabile di Genova presenta al Bellini. E sbrigo rapidamente le formalità della cronaca. Si tratta del diario che Marguerite Duras, entrata nella Resistenza col marito Robert Antelme, scrisse fra il giugno 1944 e i mesi immediatamente successivi alla fine della guerra: il periodo angoscioso trascorso nell'attesa del marito, arrestato dai nazisti assieme alla sorella Marie-Louise e deportato a Dachau.
Ecco il punto, però. La chiave del testo è in due frasi, collocate l'una («mi vergogno della letteratura») nella nota introduttiva e l'altra («l'indicibilità dei giorni») in vista della conclusione. Perciò «Il dolore» è fatto di periodi brevi, spesso brevissimi. La letteratura viene ridotta alle funzioni elementari del corpo, morsi di respiro e balzi di cuore. E per segni essenziali procede anche l'opera del regista e scenografo Massimo Luconi.
Ci sono libri (l'interno: la persona, la mente) e tronchi d'albero (l'esterno: la società, il ruolo). Un segno è pure Cristiano Dessì nei panni di un reduce dai lager. E passano, come il vento e le stelle per l'Alexandros di Pascoli, «Douce France» e «J'ai deux amours», un tenero accenno di danza e il fremito dell'orgoglio. Il resto è Mariangela Melato. In linea con la Duras, fa grandissimo teatro perché si vergogna del teatro. Non interpreta, diventa quei morsi di respiro e quei balzi di cuore. L'attesa di Robert da parte della Duras è l'attesa di sé da parte di Mariangela nel tunnel della lunga malattia che l'ha colpita di recente.
Una prova sontuosa come la rivolta, intima come lo smarrimento. Mentre la Melato parlava, ho rivisto seduto accanto a me il mio compagno Michalis Lilis. Con i polmoni mangiati dalla tubercolosi e dal cancro, non smise un solo giorno di scrivere dall'esilio contro i colonnelli. Io fui tra quelli che portarono le sue parole in Grecia. Lui, Michalis, non ce la fece a rivedere la Grecia libera, morì sul traghetto dieci minuti prima di arrivare a Patrasso. Ma torna a vivere: tutte le volte che certe parole tornano a nascere nell'anima e nella bocca di chi - come adesso Mariangela - sa trasformarle in carne e sangue.
Era largamente prevedibile, allora, quanto è successo al termine della «prima». Di fronte alle acclamazioni, con molti degli spettatori in piedi che gridavano «grazie», Mariangela Melato - fermando gli applausi e spostandosi lungo tutto il palcoscenico, per poi scendere fino al bordo della ribalta quasi per abbracciare il pubblico - ha detto commossa: «Avevo paura, ma poi vi ho sentito così vicini, dall'inizio alla fine, che sono io a ringraziare voi. Accade raramente quello che è accaduto stasera». Già. Accade quando la finzione non si distingue dalla vita.
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