Nel caso di «Da Krapp a senza parole» - lo spettacolo che la compagnia Mauri-Sturno presenta al Nuovo - recitare significa non solo interpretare da attori un testo, ma anche, e soprattutto, re-citare (ossia citare di nuovo, citare a ripetizione e ad oltranza) e, sulla base della radice latina, citare la «cosa», in quanto sostanza e avvenimento.
Parliamo, dunque, di una citazione ad un tempo necessaria e onnivora: che infatti si manifesta, nel prologo, addirittura in forma visiva, con Glauco Mauri e Roberto Sturno che sgranano il rosario delle battute di Beckett e delle sue osservazioni sulla vita e il teatro stando confitti in due bidoni della spazzatura esattamente come il Nagg e la Nell di «Finale di partita». E nel quarto degli atti unici qui proposti («Respiro», «Improvviso dell'Ohio» e, per l'appunto, «Atto senza parole» e «L'ultimo nastro di Krapp») tutto questo si riassume e si esalta sul filo, insieme, della precisione e dell'emozione.
La voce registrata che Mauri/Krapp ascolta oggi è quella dello stesso Mauri nell'allestimento de «L'ultimo nastro di Krapp» realizzato nel '61, allo Stabile di Torino, per la regia di Franco Enriquez. Ed eccola, la «cosa» di cui dicevo: Mauri - nel firmare una regia di straordinaria lucidità - cita il proprio corpo così come si è determinato nel corso degli anni e, dunque, stabilisce una perfetta e strenua identificazione della lunga fedeltà che lo lega a Beckett con la sua parabola esistenziale.
Del resto, davvero non riesco ad immaginare uno strumento espressivo che meglio del falsetto grottesco e delle risatine stridule di Mauri sia capace di rendere la riduzione al grado zero della drammaturgia praticata da Beckett. E allo stesso modo, niente meglio di quel gettare le bucce delle banane in platea, dopo appena un attimo d'esitazione, potrebbe significare la presa di distanza dalla «società» propria del «quacchero» (così Beckett in persona volle definirsi) di Dublino.
È del tutto pleonastico, adesso, sottolineare la maestria dell'attore Glauco Mauri e rilevare che lo affianca un Roberto Sturno tale da ritagliarsi, in «Atto senza parole», un assolo esemplare. Il miglior elogio che posso fare a questo spettacolo è constatare come inveri, alla lettera, la capitale affermazione paradigmatica di Beckett: «Non c'è niente da esprimere, niente con cui esprimere, niente da cui esprimere, nessun desiderio di esprimere, insieme all'obbligo di esprimere».
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 2 febbraio 2013)
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