Occorre partire dal titolo: tralasciandone i riferimenti dichiarati (ad «Amleto» e a «Lacreme napulitane») per privilegiarne, invece, la struttura testuale, che si risolve in un'evidentissima tautologia. Giacché il senso alto e la non comune qualità di «C'è del pianto in queste lacrime» - lo spettacolo di Antonio Latella presentato al San Ferdinando nell'ambito della sezione autunnale del Napoli Teatro Festival Italia - stanno proprio nell'identificarsi sia del copione (firmato dallo stesso regista e da Linda Dalisi) che dell'allestimento con il loro oggetto, manco a dirlo la sceneggiata.
Tautologia, infatti, significa immobilità. E in questo, appunto, consisteva la sceneggiata: nel riproporre - costantemente, e ad onta di qualsiasi evoluzione sociale e culturale - sempre gli stessi meccanismi drammaturgici, ancorati a valori falsi o, comunque, mitizzati. Sicché, di conseguenza, nello spettacolo di Latella si scatena un'autentica tregenda di battute ossessivamente ripetute, a determinare - nei modi di un varietà straccione, e tanto divertente quanto disperato - un balletto frenetico e ottuso, come una danza cieca sul ciglio di un baratro.
Direi, per riassumere il discorso riferito specificamente alla sceneggiata, che «C'è del pianto in queste lacrime» non solo invera ma addirittura diventa la sacrosanta definizione che delle sceneggiate diede Dacia Maraini: «resti putridi di anticaglie psicologiche». E un puzzo - innescato, insieme, dal linguaggio scatologico e dalla rivolta morale - si leva in effetti dal testo di Latella e della Dalisi. A cui possiamo assegnare come numi tutelari, tanto per intenderci, da un lato l'impietosa denuncia di Viviani (per il quale, non dimentichiamolo, la sceneggiata era «la puttana dell'arte») e dall'altro il barocco degradato di Moscato.
Ma, naturalmente, qui la sceneggiata viene assunta come cartina di tornasole di tutti i vizi mentali e di tutte le pigrizie comportamentali di Napoli. E tremenda, in proposito, è l'invocazione rivolta a Dio: «Nun 'o ssiente quanto chiagne 'sta città? Chiagne, chiagne, chiagne e fotte, fotte e chiagne, e chesta lagna se piglia tutte cose e a 'sta città 'a fa' addeventà comme 'nu ciardino abbandunato, chino 'e cose fracete e fetose».
Insomma, questo spettacolo - davvero formidabile - è un viaggio nell'InferNapoli con l'occhio rivolto a «Isso, Essa e 'o Malamente»: tanto per riferirci a Peppe Lanzetta, il rabbioso cantore della «malattia» urbana, e a Vittorio Marsiglia, il supremo sfottitore della sceneggiata. E se Latella si riserva il ruolo di Dante, quello di Virgilio tocca a un'Assuntulella androgina che - isolata rispetto all'azione in una gabbia/letto irta di microfoni - appare come un perfetto clone di Edward Mani di Forbice: giacché, nella circostanza, il gotico non può assumere che i connotati della superficie mediatica.
Senonché, gli applausi - che Assuntulella/Mani di Forbice comanda coi suoi microfoni proprio come in uno studio televisivo - diventano, via via, prima sventagliate di mitra e poi lo scarico dello sciacquone. E infatti il viaggio in questione si svolge all'interno di un tunnel dalla volta bassa che, puramente e semplicemente, allude a un cunicolo fognario: in cui strisciano e si contorcono personaggi che, indossando le protesi del caso, si trasformano in insetti mostruosi e bestie immonde; salvo lasciare il posto, sul finire, a grandi teste di resina che figurano tutti gli stereotipi della storia e delle fedi nostrane: dai re ai santi. E ci sono - non vi viene in mente nulla? - pure il bue e l'asinello.
Altrettanto formidabili, infine, risultano gli attori della Compagnia Stabile/Mobile di Latella: fra i quali son da citare almeno Emilio Vacca (Assuntulella), Alessandra Borgia (Assunta), Lino Musella (Alfonso) e Valentina Vacca (Gelsomina). C'è del genio in queste prove.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 30 settembre 2012)
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