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E se andassimo tutti dal barbiere? La storia di Paco. Piccolo, grande uomo

Post n°223 pubblicato il 09 Marzo 2011 da djchi
 

Il negozio di Paco è uguale a tanti altri negozi di barbiere disseminati in tutta Dakar. E questi piccoli negozi sono luoghi strategici della capitale senegalese; punti di incontro e di scambio dove tutto e tutti passano, il tempo, le speranze e i sogni compresi. E per chi viene da fuori essi colpiscono come gli apprendisti dei car rapide, il caos dei mercati, i venditori lungo le strade, i meccanici con le loro magliette sporche, i baye fall con le loro ciotoline dalle monetine saltellanti e i piccoli talibé dai piedi scalzi. E i negozi dei barbieri sono ovunque, poco importa se tra baracche di lamiera o ville del centro; se nel caos di Pikine o vicino al mare di Yoff; loro sono lì, con le loro insegne colorate e le scritte americane, la musica a tutto volume, rasoi, lamette e foto appiccicate agli specchi che se non fosse per 'l'ambiance sénégalaise' si potrebbe pensare di essere in un qualsiasi barbiere della periferia newyorkese. Se prendessimo una cartina di Dakar e riuscissimo a segnare con un puntino tutti i negozi di barbieri che vi sono e unissimo poi questi puntini con delle linee, ci accorgeremmo che essi creano una rete densa che copre l'intera città. Una maglia fitta di 'luoghi di socialità' o di aggregazione spontanea, dove le persone discutono, si confrontano, si incontrano. E Paco è stato uno di quegli incontri che non avvengono per caso, essi sono scritti nel destino già da lungo tempo. Ricordo ancora che stavo tornando a casa tardi, una notte e come al solito il tassista non aveva da cambiare i soldi. Per evitare di girare ore e ore alla ricerca di moneta, ho chiesto all'autista di fermarsi alla prima boutique aperta e sono scesa a comprare una ricarica. Il metodo più veloce per liberarsi dei fastidiosi biglietti da 5.000CFA. Paco era con un amico, ma non ci avevo fatto caso. Uscita dalla boutique l'ho visto appoggiato al taxi. 'Volevo solo dirti che hai davvero un gran bello stile' mi ha detto in italiano. Non so come mai lui no, non l'ho cacciato, come spesso faccio. E non so neppure perché mi sono fermata ad ascoltarlo. Gli occhi delle persone parlano, nel bene e nel male. Ho sorriso. Come cavolo aveva intuito che fossi italiana, in piena notte, per strada a Yoff Layenne? Ci siamo scambiati i numeri così, al volo, in meno di cinque minuti. Da lì una bella amicizia e quel ragazzo così diverso, riservato e sempre sorridente. Amo le persone solari, forse perché io sono tendenzialmente cupa e allora quel modo di Paco di prendere la vita con leggerezza ma allo stesso tempo serietà mi era piaciuto subito. 'Sono stato in Italia 5 anni e dopo aver finalmente avuto il permesso di soggiorno, ho deciso di venire qui e insegnare un mestiere a mio fratello minore' mi ha detto un giorno nel suo negozio. 'Io sono sempre stato un barbiere e adesso voglio che mio fratello impari. Il negozio l'ho preso per lui perché non voglio che passi ciò che io ho passato emigrando. Gli voglio evitare le sofferenze e le umiliazioni. E la separazione dal paese e dalla famiglia, una lacerazione che solo chi parte conosce. Parti ma, clandestino, non ha il diritto di tornare' ha continuato poi. Il suo negozio è piccolo ma è ordinato e carino. Tutto bianco. E in quel piccolo spazio sempre un sacco di gente entra, esce, si siede, chiacchiera. E ora pure io. Senegalesi di ogni regione, francesi, marocchini, italiani. Un salotto improvvisato dove ci si confronta, al di là delle differenze peculiari proprie di ognuno. E allora scopri che poco conta il luogo ma che noi esseri umani abbiamo bisogno di stare con la gente, in mezzo alla gente. E il Senegal ha questo segreto, è pieno di piccoli luoghi di incontro ed è in questo segreto la sua grande forza. In questi piccoli luoghi la differenza sfuma, si perde, si mescola e io imparo dai racconti di perfetti sconosciuti tra un taglio di capelli e una sistemata alla barba e loro imparano dai miei. E viaggiano in Italia attraverso le mie parole, scoprendo che il colore della pelle è solo un optional davvero poco importante.'Sai cosa mi ha insegnato l'Italia' mi ha detto Paco all'improvviso ieri sera 'mi ha insegnato che il lavoro nobilita l'uomo e che si può vivere senza la famiglia. Anche se fa male'. Ero arrivata all'improvviso anche ieri, la sera tardi. Faceva freddo e io avevo approfittato di un passaggio datomi da due ragazzi passati per caso. Scesa dalla macchina l'ho visto oltre al vetro, sempre al lavoro. Ha sorriso, come sempre sorride Paco quando qualcuno entra. Abbiamo chiacchierato, come ogni volta. E io, come ogni volta, parlavo e parlavo e parlavo. Logorroica e imponente. Paco ascoltava. E ha ascoltato anche quando mi ha visto piangere per l'ennesimo rifiuto dei miei a venire in Senegal. 'Non piangere' mi ha consolato 'i tuoi dovrebbero accorgersi dei senegalesi che ci sono in Italia e capire, attraverso di loro, che le persone si spostano. Non tutti possiamo essere stanziali nel nostro paese. Le persone devono viaggiare e incontrarsi. Immagina che tragedia se tutti noi ce ne stessimo chiusi nelle nostre case'. Ho ascoltato le sue parole, sagge, di un piccolo grande uomo. Posato e serio. Mentre continuava a tagliare capelli, all'improvviso una telefonata lo fa uscire. A destra, un suo amico mi dice 'hai saputo che è morto il papà di Paco oggi?'. Il gelo. 'No!' ho risposto, continuando 'Paco non me ne ha parlato'. 'Sì, due ore fa l'hanno chiamato da Kaolack. E' morto in ospedale, partiamo a Touba domani tutti assieme'. In effetti gli occhi di Paco erano tristi, rispetto al solito, ma il suo sorriso quello no, era rimasto intatto. Per me. E per me aveva evitato i pianti, mettendo da parte la sua sofferenza per mettere me a mio agio, lui, il vero rappresentante della Teranga senegalese. Quando è tornato l'ho abbracciato forte. 'Non so davvero cosa dire. Perché non me l'hai detto?' gli ho chiesto. 'Perché non volevo che tu fossi triste per me. Questa è la vita' mi ha risposto 'prima mi ha chiamato mio fratello dall'Italia. Ha avuto il permesso due giorni fa. E' da sei anni in Italia. Era contento come un bimbo. Oggi, piangeva. Piangeva perché per colpa di questo permesso ha visto morire nostra madre e adesso nostro padre, senza mai aver avuto la possibilità di rivederli. Di riabbracciarli'. Mi sono sentita gelare, io e le mie cazzate. Io e la mia cazzo di libertà. Questa libertà che vorrei mi prendessero e che dessero a uno dei miei fratelli senegalesi che non ce l'ha. Odio questo mondo. Lo trovo ingiusto. E mentre da noi i negozi di barbieri sono off limits, si entra, si paga, si stà zitti e si torna a casa, qui tutto è aperto, le porte, le persone, i negozi. E tutti parlano e cantano e si esprimono. Non mi sembra allora tanto più strano se noi, costretti al silenzio e ad una prigionia intellettuale siamo però liberi di viaggiare, mentre chi è libero di incontrarsi e parlare è prigioniero di confini imposti. Come se quest'energia e questa voglia di vivere potesse essere contagiosa. E dunque, nemica delle dittature del capitalismo dei nostri giorni. Gli stranieri che arrivano in Europa si portano dietro la speranza e la forza, l'energia e l'ottimismo, il caos e la parola che avevano al paese e la riversano su un immenso, tristissimo silenzio. Colpevoli di mettere di fronte a tutti che un altro punto di vista c'è. Che altri mondi sono possibili. Boom. Silenzio. Ho fissato Paco negli occhi e per una volta mi sono data il tempo di ascoltare. 'Sai sono sempre stato una persona forte. Non ho pianto né quando è morta mia mamma, né oggi, quando mi hanno detto che è morto mio padre. Ho pianto una sola volta e sai quando? Quando sono tornato per la prima volta in Senegal, dopo quei lunghi anni di esilio forzato in Italia. Ero tornato e avevo un po' di soldi. Ma mia madre era morta e io non avrei potuto fare niente per lei. Ho pianto tanto e mi sono chiesto il senso della mia esperienza migratoria'. Ha continuato a tagliare i capelli Paco, ieri sera. E intanto chiamava e consolava tutti, lui che forse avrebbe avuto bisogno di essere consolato, per una volta. E con il sorriso che gli appartiene mi ha invitato a Kaolack, perché in Senegal il lutto dura tutta una settimana. 'Non preoccuparti per me Chiara. Adesso devo solo andare avanti. Sono io il fratello maggiore e sono io che devo dare l'esempio. E poi io ho visto mio padre un mese fa. Mio fratello in Italia non lo vedeva da anni. Penso alla sua, di sofferenza' mi ha detto mandando giù la saliva e intanto il suo pensiero volava altrove, forse a quel mese prima e quell'ultimo abbraccio con il padre. E a voi che venite in Senegal o che sognate di arrivarci o che verrete, fermatevi in uno di questi piccoli negozi. Sedetevi, nonostante lo stupore generale e parlate. Parlate e ascoltate la gente. Vi si aprirà un mondo. E forse, vi renderete conto davvero per la prima volta di quanto siete stati fortunati della vostra condizione di libertà. E di quante cose ci hanno nascosto, per anni, con la menzogna. Ah! Dimenticavo. Ieri ridendo Paco mi ha confessato come, quel giorno in cui ci siamo conosciuti, ha scoperto fossi italiana, 'quando ti ho visto entrare in boutique sono corso dal tassista e gli ho chiesto in che lingua parlassi, wolof, francese, italiano. Lui mi ha detto che parlavi francese ma che al telefono parlavi italiano, così quando sei arrivata ti ho parlato subito in italiano'. Paco, un mito di senegalese.

 
 
 
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