Diario di una grassa

Della ricerca di sé tra le pieghe delle emozioni, dei sentimenti, dei pensieri e... dell'adipe!

Creato da DiarioDiUnaGrassa il 07/02/2009

 

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CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA

Post n°24 pubblicato il 10 Marzo 2009 da DiarioDiUnaGrassa

Da qualche tempo ormai ritorni nei miei pensieri e anche nei discorsi che si fanno in casa.

Mi piace pensare che sia un bene, che il dolore legato a te si stia sciogliendo lentamente e che diventi pian piano ricordo.

Ieri notte ho rivissuto i tuoi ultimi giorni. Erano su di me, marchiati a fuoco sulla pelle e nel cuore. Le lacrime sgorgavano copiose, il dolore vivo come quella notte lì. L’ultima.

Aspettavamo da tempo che accadesse, anche tu. E poi, quando è arrivato il momento nessuno sembrava pronto ad accettarlo. Solo io. Ero l’unica in grado di prenderti per mano e farti passare oltre.

L’amore per te era finito da tempo, ma il legame c’era ancora. E a me è sembrato naturale assumere un ruolo che non poteva rivestire nessun altro.

Talmente naturale da diventare il punto di riferimento di dottori e personale sanitario. Con movenze sicure, affermazioni logiche e decise. Nessuna incertezza, nessuna paura.

Stavi morendo. Dovevo fare in modo che fosse il meno doloroso possibile.

Ho investito dieci giorni di vita in questa missione. Tutto il mondo fuori, anche nostra figlia. Lei, affidata a persone fidate, che avrebbero saputo come proteggerla da quello che stava accadendo. Lei, portata da te fintanto che sei stato in grado di parlare e muoverti. Per le ultime parole. Quelle che non volevi dirle, quelle che “ma tanto posso dirgliele quando torno a casa”. Ho faticato per farti comprendere quanto fosse opportuno dirle quel giorno lì e non un altro. Vi ho lasciati soli, a guardare i cartoni. E tu le hai detto che le volevi bene e che era una brava bambina. Che eri orgoglioso di lei e che sì, poteva chiedere a mamma di raccontarle tutta la storia.

L’ho fatto sai? E’ stata una delle cose più difficili della mia vita, ma l’ho fatto.

E poi gli ultimi tre giorni. Devastanti. Sveglia e vigile 24 ore su 24.

E quella volta che le infermiere mi hanno mandato a casa, che “Signora, deve riposare un po’. Lasci che rimanga qualcun altro”. Fui richiamata dopo meno di mezz’ora. Pur in coma farmacologico, iniziasti ad urlare il mio nome non appena andai via. La morfina non ti calmò e dovettero cedere. Ti calmasti solo quando ti dissero che stavo arrivando.

Io ti parlavo. Per ore. Ti dicevo che era arrivato il momento di andare, che ciò che dovevi fare era stato fatto. E che tutti ti avevamo perdonato e ti volevamo bene. Muovevi le labbra, cercavi di dire non so cosa. Non lo saprò mai e forse è meglio così.

E poi quel giorno. Era chiaro che si trattava delle ultime ore. I tuoi organi cedevano uno dopo l’altro e tu sempre aggrappato alla vita. Ma se io mi allontanavo tu peggioravi. E allora, la decisione finale.

Ti parlai per l’ultima volta. E’ stato il mio addio.

Ti ho lasciato con chi si sarebbe preso cura di te per le successive 6 ore. Io a casa, al buio e in silenzio, in attesa della comunicazione definitiva.

3 Ottobre 2003, ore 22e30. Te ne sei andato.

E io ho urlato con tutto il fiato che avevo in corpo.

Ho lasciato andare un dolore che non potrò mai più dimenticare.

 
 
 
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