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« Erto e Casso Documentario sulle vicen... »

Vajont, anche le mucche avevano paura

Post n°75 pubblicato il 11 Ottobre 2006 da lugio5

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Che quel fatale monte Toc fosse inquieto, fin dai primi tempi dell'invaso, lo sentivano e sapevano tutti, anche l'aria che la notte tremava ai boati della terra di quel monte; lo sapevano gli animali, sismografi perfetti; lo sapevano i pendii erbosi dei prati curati come giardini, che si spaccavano in sequenza allarmante e crescente con crepe che sembravano bocche aperte al grido d'allarme che nessuno di quanti dovevano ascoltare, ascoltò, lo sapevano le pietre che scivolavano nell'acqua, con una continuità tale da essere quasi un sottofondo sonoro alla visione sempre più preoccupante di quel monte e di quella valle, dentro la quale l'acqua continuava inesorabilmente a salire, creando uno spettacolo incomparabile, soprattutto al mattino quando banchi irregolari di vapori spezzavano loa continuità dello specchio celeste che andava premendo contro quella diga, miracolo di perfezione tecnica e titanica sfida alla natura.

Io ho insegnato, lassù in quella colloquiale frazione di Casso, nell'anno scolastico 1961-1962, abitavo in una stanzetta, nella scuola e la finestra dava sul lago, potevo così ammirare lo spettacolo unico e vedere fette intere di bosco piegarsi sui cigli già prossimi a franare, come in drammatica riverenza verso la valle del lago; sentivo, non di rado, i boati delle frane che la notte ingigantivano l'effetto sonoro tanto da far pensare a proporzioni immense di massi cadenti.

Una notte mi svegliai di soprassalto, il solito notturno chiacchierio della ghiaia che scendeva nel lago, fu rotto da un fragore assordante, che durò qualche minuto, ma che mi parve infinito, sembrava quello di migliaia di camion che scaricassero contemporaneamente su una scarpata, un carico di pietre; rimasi con il fiato sospeso, pensai a mille cose, ma la frana poco dopo smise di rumoreggiare, seguita da uno sciabordio di acque scosse; poi l'altro silenzio ansioso della notte, dominò sovrano.

Rimasi sveglio fino all'alba, quando i primi raggi del sole ravvivarono la sottile coltre di nebbia che vagava sopra l'acqua e faceva intravedere qua e là il chiarore sinistro e sempre più esteso della frana e i picchi emergenti a volte nuovi, perché emersi come fantasmi la notte che visibilmente scendevano immaginelentamente nell'acqua durante il giorno, per via della frana, in continuo movimento;

Altri picchi più modesti, invece, apparivano a volte, ai piedi della massa franosa, quasi come fantasmi e come tali sparivano, inghiottiti improvvisamente dal mare d'acqua che pareva, salendo, soffocare ogni cosa che volesse emergere e salvarsi.

Non era raro il caso che durante la ricreazione, dal piccolo cortile, antistante la scuola, tutti volgessimo lo sguardo al lago, improvvisamente scosso da una pianta o da una fetta di prato che precipitava di sotto come divorata da un implacabile mostro. Quella massa azzurra, sotto la scuola, non era mai tranquilla, mentre saliva inghiottendo i pendii boschivi del monte fatale, di tanto in tanto la si vedeva qua e là ribollire come se sotto respirassero mostri enormi, o si aprissero falle paurose e voraci.

Ogni sabato, lasciando Casso, percorrevo a piedi un buon tratto della statale che portava a Cimolais e allora scendevo spesso vicino all'acqua, disobbedendo agli avvisi posti ovunque a impedirne l'accesso «per improvvise piene»; immergevo le mani in quello specchio fatale di acque inquiete, come a esorcizzarne il mistero, ma mi sentivo sempre teso, per inconscie e inspiegabili paurose attese; risalendo poi alla strada, volgevo lo sguardo ansioso ad alcune case prossime al lago: ce n'era una della frazione di Casso, quasi all'inizio della strada che, staccandosi dalla provinciale, saliva alla frazione, vi abitava la famiglia di una mia alunna, fu forse la prima a essere travolta dalla immensa frana.

In questi giorni di ricordi, ho rivisto alcune fotografie che testimoniano le avvisaglie del fenomeno franoso e il fiotto irresistibile delle emozioni mi ha preso l'anima; sto invecchiando, ma quel dramma non mi ha mai lasciato. È per questo che nel quarantesimo anniversario del disastro, ho scritto al Presidente della Repubblica Ciampi perché almeno si rinnovasse la scuola, ancora un ammasso di rovine e la piccola borgata avesse un punto di aggregazione; mi fu risposto che le autorità locali avevano provveduto diversamente a quel bisogno e la scuola, la mia scuola, è ancora un cumulo di ricordi incancellabili e rovine amare.

Quante volte l'argomento frana ha fatto parte delle composizioni dei ragazzi di Casso; più di tutti erano loro a registrare le impressioni e le maledizioni, a ricordare fatti che nessuno meglio di loro poteva riferire, fedelmente.

Il Toc era una vasta piana che, staccandosi dal monte si portava verso la valle del Vajont per qualche centinaio di metri e si allungava, forse, di qualche chilometro, sulla sinistra del lago; vi erano sorte stalle che accoglievano uomini e animali per una gran parte dell'anno, da marzo a ottobre inoltrato, quando, finita la transumanza, rientravano tutti nella tranquilla borgata. Molti bambini, che frequentavano la scuola, finite le lezioni, scendevano alla diga e andavano a trascorrere il resto della giornata sulla piana del Toc, con i loro genitori.

L'argomento frana perciò era spesso tema di discussioni e di elaborati, disegni o composizioni scritte; i bambini denudavano la verità, riflettevano la febbre e l'ansia dei genitori. I commenti impietosi e sinceri che riporto, così come li ricordo, ma nella sostanza inalterati e fedeli, si riferiscono a esperienze vissute durante la loro permanenza sulla piana del Toc.

«Questa maledetta Sade ci ha pagato la terra, ma non ci fa dormire, durante tutta la notte la terra trema e nessuno dorme», scrive A.

«Il papà e il nonno sono tornati ieri sera senza selvaggina, dicono che non c'è più neanche un uccello sul Toc, è ormai inutile andare a caccia qui», scrive S.

«La nonna di C. attraversando la passerella in legno gettata sopra una spaccatura larga e profonda, è caduta dentro la spaccatura con la gerla del fieno, si è incastrata e mio nonno e il papà di F. sono andati a tirarla su, si vede che la crepa si è allargata ancora, durante la notte», scrive V.

«Il muretto che limita la strada davanti alla stalla, si è crepato e il papà dice che è per via della frana che capita questo», scrive S.

«Si è aperta una crepa sul muro della stalla grande, il papà ci ha messo un vetro, ma si è rotto qualche giorno dopo, ora sembra che la immaginecrepa si apra sempre più», scrive P.
«La fontana che serviva ad abbeverare le mucche, non butta più; la sorgente è sparita, la terra sotto, muovendosi, ha deviato altrove l'acqua», scrive G.

«Il papà si lamenta che le mucche fanno poco latte, dice che hanno paura e che sentono il terremoto, non vogliono stare dentro la stalla e si rifiutano di rientrarvi la sera, quando le dobbiamo spingere dentro», scrive F.

«Il nonno mostra il prato sotto la strada: è impraticabile perché si aprono ogni giorno nuove crepe ed è pericoloso per le mucche che escono al pascolo, io le guardo e ho paura», scrive G.

Così i bambini di Casso hanno vissuto e sofferto in anticipo la loro singola tragedia. Io ricordo che davanti la scuola, una delle poche case della frazione devastata dalla onda che è schizzata fin lassù, c'era un cippo di forse un metro, vi venivano spesso, degli addetti della Sade, geologi, credo, a eseguire dei rilievi e, dai loro commenti, si capiva che erano seriamente preoccupati, anche loro: la frana si allargava e scendeva sempre di più; un giorno uno di loro, ridendo di un riso ansioso, mentre riponeva nella loro custodia gli strumenti, mi disse: «Maestro, prima o poi andiamo tutti laggiù» e indicava con l'indice della mano il lago.

Chissà se anche lui, quella fatidica sera, occupava una delle baracche che la Sade aveva costruito, per i suoi tecnici, in alto, a destra, «al sicuro», sopra la galleria che porta a Longarone e che l'ondata paurosa ha spazzato via come foglie, con tutte le altre, disseminando sul letto melmoso del fatidico Piave, migliaia di morti.

Mi torna alla mente una domanda che, un giorno, mi rivolse una bambina, mentre guardavamo insieme, dalla finestra della scuola, il lago sottostante, per osservarne meglio alcuni aspetti: «Ma perché, maestro, la Sade non ferma tutto»?

Già, piccola mia,... perché, non ha fermato tutto? David Turoldo risponderebbe che il Dio dei poveri è sempre altrove e i poveri erano, per lui, tutti quelli che non hanno mai voce, contro i potenti di turno e sono costretti a soccombere sempre. Ma perché... Perché?... Ma questa ...è un'altra storia!



Giovanni Sesso

Articolo del GAZZETTINO Mercoledì 11 Ottobre 2006

 
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