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Tutti contro il protezionismo (a parole)

Post n°71 pubblicato il 19 Febbraio 2009 da amministratore_blog

La riunione dei ministri delle finanze del G7, a Roma nel corso del fine settimana, ha avuto come obiettivo l’individuazione di regole volte a favorire la crescita e stabilizzare i mercati. In particolare, il summit si proponeva di allontanare un ritorno del protezionismo, considerato negativamente dagli analisti e particolarmente minaccioso per realtà economiche basate sulla trasformazione: come nel caso dell’Italia e del Giappone.
A prima vista, la conclusione pare all’altezza delle aspettative, dato che alla fine tutti si sono impegnati ad evitare chiusure verso i prodotti stranieri. Bisogna però essere piuttosto scettici o quanto meno prudenti, dato che gli stessi che ora si proclamano paladini del libero scambio nei giorni scorsi hanno assunto decisioni di segno opposto: e non appaiono orientati a modificarle.
È quindi una buona cosa, ad esempio, che il ministro dell’Economia francese, Christine Lagarde, abbia sottoscritto i proponimenti avanzati dai colleghi. Solo poche ore fa, però, la stessa Lagarde aveva difeso il suo piano di aiuti sostenendo che esso è “destinato a sostenere un’industria che è aperta a tutti i giocatori che hanno bisogno di questo tipo di finanziamenti e che non ha natura protezionistica”. Ovviamente non è così: e quindi siamo di fronte a pronunciamenti anti-protezionisti che si accompagnano a decisioni di segno opposto.
Qualcosa di simile può essere detto sugli Stati Uniti. Il nuovo segretario al Tesoro, Timothy Geithner – l’economista scelto dal presidente Barack Obama per affrontare la peggiore crisi apparsa sulla scena dopo il 1929 – si è espresso pure lui, e con un’enfasi particolare, a favore di un impegno comune. È giunto perfino ad affermare che “bisogna lavorare insieme e tutti i Paesi devono impegnarsi per il libero commercio”. Da tali affermazioni non deriverà certo il ritiro della recente misura adottata degli Stati Uniti, che hanno inserito nel loro piano la clausola “Buy American” (compra americano). E infatti Geithner ha affermato che l’amministrazione democratica applicherà tale clausola “nel rispetto delle regole del free trade”, e cioè senza alterare  i principi del libero commercio. Come ciò sia possibile, non vi è spiegato.
La sensazione è che ci si trovi di fronte ad un mix di ipocrisia, confusione culturale e opportunismo politico. È del tutto evidente che in Francia come in America, ma in parte lo stesso discorso si potrebbe fare per altre realtà, s’intende giocare il proprio interventismo economico ad esclusivo vantaggio delle imprese nazionali. La cosa è comprensibile, sennonché è impossibile agire in questa maniera a Washington o a Parigi e poi giocare il ruolo dei difensori del libero mercato quando ci si incontra con i colleghi del G7.
Nel momento in cui la crisi è scoppiata ed è subito prevalsa un’interpretazione che ha addossato al capitalismo (e non già all’intervento degli Stati e delle banche centrali) la responsabilità del disastro, già a quel punto ci si è trovati sulla strada di una contrazione dell’integrazione economica e degli scambi internazionali. In effetti, in un modo o nell’altro l’interventismo degli “stimoli” e dei sostegni al consumo conduce fatalmente ad esiti protezionisti. In Francia il piano a sostegno del settore automobilistico è stato smaccatamente concepito per finanziare le imprese transalpine e spingerle a privilegiare gli impianti in patria rispetto a quelli all’estero. Ma anche dove, come da noi, si è deciso di sostenere il rinnovo del parco-macchine senza riservare una posizione privilegiata alle industrie nazionali, è chiaro che – dato il ruolo della Fiat nel mercato interno – si è finito per aiutare i propri produttori nella competizione globale.
Non si può insomma essere keynesiano e poi predicare, in modo retorico, a favore del libero mercato globale.
La sensazione è che, nella migliore delle ipotesi, alla fine si avrà allora un’attenzione critica verso la versione “hard” del protezionismo: quella dei francesi che vincolano gli aiuti a scelte aziendali palesemente scioviniste. È possibile che quelle misure restino sotto osservazione e che magari vengano attenuate. Ma di sicuro non vi sarà nulla di concreto contro quel protezionismo più “soft” e diffuso sotteso ad ogni interventismo economico.
Al riguardo è interessante notare come il consenso degli economisti contro le politiche protezioniste non si converta quasi mai, come invece dovrebbe essere, in una conseguente presa di distanza dalle politiche di aiuti. Una delle formulazioni più efficaci contro il protezionismo si deve ad un’economista inglese filo-maoista attiva tra gli anni Trenta e gli anni Settanta, Joan Robinson, che affermò che se gli altri Paesi decidono di gettare scogli nei loro porti non è il caso di imitarli. Ma ovviamente tale studiosa non aveva obiezioni da opporre agli interventi pubblici nell’economia privata: e forse non si avvedeva di quanti “scogli” derivassero da tutto ciò.

Guardando agli esiti del G7 romano, non pare che si siano fatti molti passi in avanti.
_____________________________________________________________________
di Carlo Lottieri

 
 
 
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