Creato da giovannydelprete il 07/01/2009

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Post N° 44

Post n°44 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


La ristrutturazione
dell'Arma



il Carosello Storico dei Carabinieri, appuntamento tradizionale dell'Arma.Gli anni Sessanta
sono anni di rilevanti cambiamenti per l'Arma dei Carabinieri.
Il nuovo comandante, nominato il 15 ottobre 1962, è il
generale Giovanni De Lorenzo, che si presenta con credenziali
impeccabili. Di origini siciliane, si è laureato in ingegneria
navale a Genova, ha combattuto con distinzione sul terribile
fronte russo ed ha partecipato alla Resistenza come
vicecomandante dei servizi d'informazione del CLN (Comitato
Liberazione Nazionale). La sua esperienza concreta nel campo
dell'intelligence si era sviluppata nel comando del SIFAR
(Servizio Informazioni Forze Armate).


De Lorenzo ritiene che il vecchio
accordo Carcaterra vada profondamente rivisto. L'accordo, così
chiamato nel gergo dal nome del capo della polizia Giovanni
Carcaterra, aveva sancito la "ruralizzazione" dei CC nel 1954,
concentrandone la presenza nelle province e nei piccoli centri.
Questo accordo aveva di fatto penalizzato l'Arma con prevedibili
effetti sul morale degli uomini, sulle dotazioni di mezzi e sullo
stato delle caserme. Il nuovo Comandante Generale inverte
decisamente la tendenza, grazie anche alle nuove direttive
politiche e a una maggiore disponibilità di fondi.


Con grande metodo le stazioni
seguono il flusso di inurbamento nelle grandi città e al tempo
stesso vengono rese familiari le sagome delle nuove auto, dette
"gazzelle". Con un consistente battage pubblicitario si ricordano
ai cittadini i nuovi numeri d'emergenza per chiamare i nuclei dei
Carabinieri. E 200 nuove caserme rafforzano la presenza e rendono
più vivibile l'attività degli uomini. Nel febbraio 1963 viene
istituito presso il Comando Generale un ufficio Motorizzazione, poi
trasformato in Direzione.


Un flusso di ben 4.000 automezzi di
tutti i tipi (dalle Giulie, ai natanti, agli elicotteri) comincia
ad affluire ai reparti. Una rete autonoma di 400 depositi di
carburante rifornisce 1.500 distributori autonomi nelle diverse
caserme, in cui operano 2.450 militi nel ruolo di tecnici
specializzati nella manutenzione di un grande parco mezzi e
velivoli.


Le telecomunicazioni vengono
rivoluzionate. Basta con la vecchia rete radiotelegrafica e con
alcune reti minori radiotelefoniche con apparecchi mediocri. Via
libera ad una rete radiotelegrafica nuova di zecca per collegare
divisioni, brigate e legioni con il Comando Generale. Ogni legione
poi dirama la sua rete e questo permette comunicazioni veloci tra
vertice e periferia. E poi avanti con una rete telefonica propria
capace di funzionare all'avanguardia in teleselezione, integrata da
telescriventi e fax. Il centro nevralgico è costituito da un
Comando Trasmissioni, da un sofisticato ponte radio e da un potente
cervello elettronico per la raccolta di dati e segnalazioni.


Il livello scientifico delle
investigazioni e la polivalenza dei CC sono incrementati con: la
creazione di un centro investigazioni scientifiche; il
potenziamento dei gruppi cinofili e sommozzatori; l'addestramento
superiore di tutti i battaglioni mobili.


Infine De Lorenzo vuole rimarcare
anche la natura militare dell'Arma creando l'XI Brigata
meccanizzata. Un'unità polivalente con 130 carri M?47 con cannone
da 90 mm ed un battaglione di Carabinieri paracadutisti. E' il
coronamento della sua opera, ma è anche l'avvio di serie
inquietudini negli ambienti politici governativi e non.


Gli avvenimenti politici dell'estate
1964 sono particolarmente tesi perché un nuovo governo di
centro?sinistra fatica a formarsi (già nel marzo 1964 erano state
avanzate esplosive interrogazioni parlamentari sull'operato di De
Lorenzo al SIFAR).


Nel dicembre 1965 De Lorenzo viene
nominato Capo di Stato Maggiore dell'Esercito. Ma appena sei mesi
dopo il ministro della Difesa Tremelloni scioglie il SIFAR,
costituendo il nuovo SID (Servizio Informazioni Difesa), e nel
maggio 1967 viene rivelata pubblicamente l'esistenza di un piano di
prevenzione di disordini predisposto proprio da De Lorenzo nella
calda estate del 1964 (Piano Solo).


La commissione d'inchiesta nominata
due anni dopo si spaccherà sull'interpretazione di quel piano:
difensiva secondo la maggioranza, colpo di Stato pianificato nel
giudizio della minoranza.


In ogni caso l'indagine parlamentare
sottolinea che, al di là della controversa azione del capo, l'Arma
si è sostanzialmente mantenuta distante
dall'iniziativa.

 
 
 

Post N° 43

Post n°43 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


Un paese di
frontiera



La presenza di un forte
partito comunista (il più forte di tutto l'Occidente) ha posto
l'Italia al centro di forti tensioni negli anni Sessanta e Settanta
condizionandone in modo profondo l'intera vita
politica



L'Italia a prima vista sembra un
Paese fortunato. E' circondata da una fascia di Paesi alleati o
neutrali dalla Francia, alla Svizzera, all'Austria, alla
Jugoslavia, all'Albania ed alla Grecia. Il suo esercito non corre
il rischio di un bruciante blitz aerocorazzato alle sue frontiere
ed il settore terrestre da difendere è in gran parte montuoso.


Amintore Fanfani, uno dei protaonisti della svolta politica italiana della fine degli anni CinquantaSi trova,
tuttavia, in una posizione aeronavale che costituisce la
chiave di volta per il controllo del Mediterraneo. Senza di
essa l'aiuto agli alleati greci e turchi diventa impossibile.
Con il controllo della penisola è invece possibile
imbottigliare la V Eskadra sovietica ed i suoi sottomarini in
due bacini più piccoli e annientarla metodicamente. L'Italia è
un prezioso elemento di sorveglianza e controllo verso le
inquiete aree del Nord Africa e del Medio Oriente.


Il suo problema più grande agli
occhi degli strateghi americani e dei loro colleghi nella NATO è
rappresentato dalla presenza di un partito comunista che è il più
grande in tutta l'alleanza.


Un partito che di stretta misura
aveva evitato tentazioni rivoluzionarie nel decennio successivo
alla seconda guerra mondiale, che godeva dell'appoggio del Partito
Socialista e che continuava ad esprimere un forte sostegno
all'URSS.


Per ragioni diverse da quelle di
altri alleati, l'Italia è dunque un Paese di frontiera della Guerra
Fredda e come tale al centro di tensioni fortissime. Il cosiddetto
fattore K, insieme alle continue pressioni esterne che si
indirizzano su di esso, costituisce uno degli elementi
dell'immobilità del quadro politico italiano.


Eppure gradualmente, ma senza
ripensamenti, dalla fine degli anni Cinquanta, viene allargata
l'area del consenso proprio verso sinistra e sarà il perno della
politica interna sino a tutti gli anni '80.


Uno dei primi esponenti di spicco a
sostenere, nel 1958, la necessità di "aprire a sinistra",
coinvolgendo i socialisti nell'area di governo, è il presidente del
Consiglio, Amintore Fanfani. La nuova strategia mira a creare un
asse Democrazia Cristiana-Partito Socialista in modo da isolare il
PCI e aprire una nuova stagione di riformismo moderato. Ci furono,
ovviamente, forti contrasti in seno alle forze di governo e la
situazione politica divenne molto delicata.


Alla fine del 19591 il nuovo
segretario della DC è il professore Aldo Moro. Uomo riservato,
cortese, di solida preparazione giuridica, ha compiuto una rapida
carriera politica. Deputato a trent'anni, sottosegretario agli
Esteri a trentadue, capogruppo DC alla Camera a trentasette, Moro
impressiona per le sue straordinarie e sottili capacità di
mediazione anche inviati politici americani.


GENOVA IN FIAMME. Nel 1960 il
presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, affida l'incarico di
formare il governo al democristiano Fernando Tambroni, che ha buoni
collegamenti in tutto lo spettro politico dai socialisti
all'estrema destra. Tambroni riesce a formare il suo governo con
l'aiuto, appunto, delle destre. Ne nascono tensioni che degenerano
i gravi tumulti. Genova, città medaglia d'oro della Resistenza,
viene scelta dal Movimento Sociale come sede de proprio Congresso.
Il 30 giugno 1960 decine di migliaia di persone si riversano in
strada. Le forze dell'ordine devono fronteggiare una vera e pro
pria guerriglia urbana, che ha come epicentro piazza de Ferrari. Il
1° luglio gli scontri continuano, e si forma un comitato di
liberazione partigiano e solo il controllo delle forze di polizia
evita bilanci più pesanti. Tambroni.


Tuttavia, commette l'errore di voler
riaffermare la sua autorità dando l'autorizzazione alla polizia di
sparare in situazioni di emergenza. Nella settimana seguente
muoiono in diverse città italiane una dozzina di persone e più di
20 sono ferite. Uno sciopero generale segna l'epilogo di quel
governo, costretto a fine luglio a dimettersi, e chiude la strada a
qualunque futura alleanza con la destra. Lo spostamento verso nuovi
assetti politico-sociali si verifica, come spesso in Italia, dal
basso. Le amministrative del 1960 consentono i primi esperimenti di
centro-sinistra in alcune città: Milano, Genova, Firenze e
Venezia.


Il nuovo presidente degli Stati
Uniti John Kennedy (il cui insediamento alla Casa Bianca suscita
grandi speranze in tutto il mondo) invia Harriman in missione
esplorativa a Roma. Harriman, al contrario dei suoi più
ideologizzati predecessori, si rende conto che il centrosinistra è
l'unico percorso politico praticabile in Italia. Anche il
consigliere particolare di JFK, lo storico Arthur SchIesinger jr.,
è dell'avviso che il centrosinistra serva a due scopi: dare
all'Italia un governo più sensibile alle riforme in linea con
l'immagine dell'amministrazione kennediana e contribuire ad
emarginare i comunisti italiani dalla ribalta politica.


Tuttavia la linea americana, come
non di rado, è tutt'altro che univoca. Lo stesso Kennedy, pur
esprimendo privatamente ai leader italiani una benevolenza verso i
prevedibili sviluppi della trattativa, evita di offrire un sostegno
troppo diretto alle ipotesi di centro-sinistra per mantenere il
consenso interno.


Anche il Vaticano, con l'elezione di
papa Giovanni XXIII, cambia la sua linea politico-religiosa, in
favore di un moderato ma indiscutibile progressismo.


Grazie a questi cambiamenti, il capo
socialista Pietro Nenni può far passare nel suo partito una linea
di attenzione favorevole alla NATO e di spinta per entrare nella
stanza dei bottoni. Più o meno contemporaneamente Moro, nell'VIII
congresso DC, riesce a blandire gli oppositori e galvanizzare i
campioni del centro-sinistra. L'80 per cento dei delegati appoggia
l'impostazione ed Andreotti battezza la nuova linea con
l'ecclesiale titolo I casti connubi.

 
 
 

Post N° 42

Post n°42 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


Gli anni di
piombo


Premessa



L'allora Presidente della Repubblica Italiana Giovanni Gronchi con il leader sovietico Nikita KrusciovGli anni
Sessanta e Settanta si rivelarono particolarmente impegnativi
per l'Arma. La Guerra Fredda non si era ancora conclusa (anche
se aveva superato la fase più acuta e pericolosa): due
blocchi, guidati dagli USA e dall'URSS, continuavano a
contrapporsi, dividendo il pianeta in due enormi sfere di
influenza. All'ombra di imponenti arsenali atomici le due
superpotenze ingaggiavano uno scontro multidimensionale senza
esclusione di colpi. In Medio Oriente, Africa, Sud Est
Asiatico, America Latina si intessevano alleanze, si
stendevano trame, si agitavano agenti e propagandisti,
scorrevano fiumi di denaro e di armi in un susseguirsi di
elezioni, guerriglie e colpi di Stato.


L'Europa era stretta dal gelo di
Yalta. La sanguinosa guerra civile in Grecia, le repressioni nella
neonata Repubblica Democratica Tedesca e la fallita insurrezione
ungherese avevano chiaramente espresso l'immutabilità degli assetti
politici e confinari del continente, ma il grande gioco della lotta
per l'influenza politica non si esauriva.


Da un lato NATO e Patto di Varsavia
accumulavano e ammodernavano armamenti specialmente lungo la
sterminata frontiera di contatto fra le due alleanze. Il gelido
Capo Nord, le fertili piane tedesche, le aspre frontiere balcaniche
ed anatoliche vedevano un'incessante attività di addestramento e
schieramento di divisioni e squadre aeree.


I mari che circondavano il vecchio
continente erano solcati da flotte imponenti, strette attorno alle
maestose portaerei americane o ai superbi incrociatori sovietici, e
scandagliati da gruppi di sommergibili. Tutto doveva essere pronto
per l'imprevedibile terza guerra mondiale, giocata in ogni variante
sui tavoli degli stati maggiori.

 
 
 

Post N° 41

Post n°41 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


Il terrore in Alto
Adige



Non sempre la terra delle mele
renette, dei picchi innevati, delle case fiorite di vivaci gerani e
del turismo di montagna è stata così tranquilla, ordinata e
prospera come è attualmente. L'Alto Adige, o S?dtirol secondo la
denominazione tedescofona, è stata una zona di grandi inquietudini
e di persistente terrorismo etnico per undici anni. La terra
tirolese era stata annessa all'Italia all'indomani della vittoria
nella Grande Guerra. Si era accettato un confine strategico al
prezzo di includere una popolazione che era legata da molti secoli
agli Asburgo e senza tener conto del diritto all'autodeterminazione
proclamato solennemente dopo il crollo dell'impero austroungarico.
pattuglia carabinieri ntiterrorismo in Alto AdigeLa relativa quiete tra le due
guerre fu turbata dalla politica di italianizzazione forzata voluta
dal fascismo. Proibiti lingua e nomi tedeschi, favorita
l'immigrazione di funzionari di provata fede italiana. Questa
politica venne rovesciata dopo l' settembre quando tutto il
Trentino-Alto Adige e buona parte del Triveneto vennero inglobati
nel protettorato nazista del Territorio Costiero Adriatico.
L'elemento italiano pagò duramente le conseguenze della nuova
situazione politica e il dopoguerra fu avvelenato dalle divisioni e
dagli odi recenti.


A tutela degli interessi della
minoranza tedesca si costituì VSVP (Sudtiroler
Volkspartei
), nel cui interno quale allignavano frange
estremiste che approfittavano della polarizzazione tra italiani e
tedeschi e della mancata applicazione dell'accordo italo-austriaco
De Casperi-Gruber (settembre 1946) sulla questione altoatesina.
Posti sotto pressione, gli italiani reagirono appoggiando spesso le
formazioni politiche più nazionaliste e conservatrici dell'arco
parlamentare. In Austria gruppi di ultranazionalisti, tacitamente
tollerati dalle autorità locali, fornirono santuari ed appoggi
logistici ai movimenti terroristici altoatesini. Il primo attentato
fu compiuto il 6 ottobre 1956 a Bolzano. Una carica esplosiva venne
piazzata presso una porta dell'oratorio Don Bosco, un ritrovo
abituale dei giovani italiani che il giorno successivo avrebbe
dovuto ospitare il congresso provinciale della DC. Da allora fu uno
stillicidio di bombe contro caserme (attaccate come le basi di un
esercito d'occupazione), tralicci e rotaie. La regione si avvitò in
una tragica spirale terroristica ed una densa cappa di paura
avvolse le vallate. Il culmine della campagna terroristica si ebbe
nella cosiddetta notte dei fuochi. Nella notte fra l'11 e il 12
giugno è tradizione che si svolga una processione conclusa da un
falò in onore del Sacro Cuore di Gesù: nel 1961 questa festa si
trasformò nella celebrazione dell'odio.


La prima esplosione si ebbe al
centro di Bolzano dieci minuti dopo l'una di notte, seguita da una
serie ininterrotta di altre deflagrazioni in periferia e nelle
vallate vicine. L'obbiettivo principale della dimostrazione di
forza del movimento terrorista furono i tralicci della luce: in due
ore ne vennero abbattuti a decine. Le cariche (di due chili di
plastico ciascuna) danneggiarono anche ponti, binari e condotte
forzate, costringendo al blocco delle attività gli stabilimenti del
capoluogo e interrompendo rotabili di importanza nazionale. Nel
corso della mattinata venne trovata nella zona di Merano una carica
di dinamite destinata a distruggere un cavalcavia. Anche la diga di
Selva dei Molini avrebbe dovuto saltare in aria con il brillamento
di mezzo quintale di dinamite e di una grossa mina. I militari
dell'Arma fecero a tempo a disinnescarla, mentre un loro collega
con grande coraggio staccò un pacchetto di plastico da un traliccio
e lo lanciò lontano prima che esplodesse.


La notte dei fuochi non fu uno
scoppio di violenza improvvisa: fu un'operazione scientifica che
impiegò almeno 200 elementi. L'esplosivo non era normale polvere da
mina. Era plastico, un mezzo impiegato da professionisti, di
difficile reperibilità. La sua consistenza è quella della
plastilina, può essere tagliato, pressato, manipolato senza
problemi, è resistente all'acqua ed al caldo e aderisce
perfettamente all'oggetto da distruggere. Solo con un detonatore il
plastico diventa mortale. La reazione delle forze dell'ordine,
passate le incertezze e le sottovalutazioni iniziali, fu dura.
Carabinieri e Polizia furono impegnati in costanti pattugliamenti,
mentre l'Esercito veniva utilizzato per tentare di sigillare i
passi montani attraverso i quali si infiltravano armi e
terroristi.


Nel 1962-63 gli estremisti
altoatesini compirono incursioni anche nel resto dell'Italia, con
attentati a Corno, Domodossola, Rimini, Rovereto, Roma, Verona e
altre località. Dal 1960 il governo aveva deciso di gettare nella
mischia anche la sezione controspionaggio del SIFAR (Servizio
Informazioni Forze Armate) con risultati iniziali non molto
incoraggianti a causa dello scarso coordinamento con gli altri
organi informativi delle forze di polizia e militari. I Carabinieri
distaccati presso quel servizio condivisero tutte le frustrazioni
di una concorrenza inutile e dannosa. Nel frattempo la lotta si
incrudeliva, provocando le prime vittime. Il 3 settembre 1964 cadde
in un'imboscata a Selva dei Molini un carabiniere, Vittorio
Tiralongo. Sei giorni dopo un sottufficiale e quattro militi furono
feriti gravemente sulla strada Rasun-Anterselva. Solo
ventiquattr'ore più tardi la stessa sorte toccò a un altro
milite.


Al fianco dei commilitoni in divisa
operavano dietro le quinte i colleghi dei SIFAR. Silenziosamente
venne istituito un centro di controspionaggio a Bolzano, guidato
dal maggiore Pignatelli, dipendente dal colonnello Monico
responsabile per tutto l'Alto Adige. A una guerriglia che operava
con sistemi non convenzionali, si rispose con mezzi altrettanto
spicciativi. Durante tutto il 1963 divamparono le polemiche,
talvolta scatenate da fiancheggiatori dei terroristi, sui presunti
metodi sbrigativi delle forze dell'ordine, sull'uso di agenti
provocatori in Italia ed all'estero, sulla presunta responsabilità
per una serie di attentati di ritorsione avvenuti in Austria. Una
delle mosse vincenti compiuta in quel periodo fu rappresentata da
un accordo stipulato nel 1964 con i servizi austriaci per sollevare
le coperture di cui godevano i fuoriusciti tirolesi.


GLI ULTIMI COLPI Di CODA. Gli
estremisti (che probabilmente miravano a ripetere le gesta del
patriota Andreas Hofer contro gli occupanti napoleonici)
replicarono brutalmente alzando il livello dello scontro. Il 26
agosto 1965 attaccarono la caserma dei CC a Sesto Pusteria. Non si
trattò di un attacco in piena regola, ma di una scorribanda
rapidissima: dalla finestra della cucina arrivò una gragnola di
piombo. Il carabiniere Palmicri Ariu venne fulminato sulla porta
della cucina ed il carabiniere Luigi De Gennaro spirò all'ospedale
di San Candido-Innichen. Due mitra avevano sparato 33 colpi a una
distanza di 3 metri dalla fatale finestra.


Dalle indagini condotte dalla
legione di Bolzano emersero pesanti sospetti a carico di quattro
fuoriusciti, già ritenuti responsabili della morte di un altro
carabiniere. L'allora presidente del consiglio, Aldo Moro, rese
omaggio ai due caduti. Fu probabilmente questo tragico episodio a
decidere le sorti della campagna antiterroristica. Un anno dopo
venne stabilito uno stretto coordinamento tra il SIFAR e gli
analoghi servizi informativi e di polizia. I frutti non si fecero
attendere: la rete di sorveglianza divenne sempre più stretta e le
complicità intorno ai terroristi si smagliarono gradualmente. A
livello politico si cominciò a mettere insieme quel pacchetto di
provvedimenti a tutela della minoranza tedesca (pacchetto Moro) che
avrebbe privato il movimento separatista di qualunque sostegno
politico (anche da Vienna), aprendo un periodo di tranquillità e di
pace nella regione sconvolta.


Ma prima di arrivare a questo esito
altri carabinieri caddero vittime della guerriglia. La notte del 25
giugno 1967 saltò l'ennesimo traliccio, provocando la morte
dell'alpino Armando Piva. Una squadra fu chiamata sul posto per la
necessaria opera di bonifica della zona circostante. La bonifica è,
nel gergo degli artificieri, l'ispezione sistematica e accurata
alla ricerca di un qualunque ordigno esplosivo (proietto
d'artiglieria inesploso, mina, eccetera). Quando si ha a che fare
con trappole esplosive le precauzioni vanno raddoppiate: sono
aggeggi infernali, escogitati con tutta la raffinatezza di cui una
mente umana è capace. La squadra era composta dal capitano
Francesco Gentile, dal sottotenente Mario Di Lecce e dai sergenti
dei paracadutisti Olivo Dordi e Marcello Fagnani. Con il passare
delle ore, ogni anfratto venne setacciato, ogni pendio controllato
meticolosamente dai quattro uomini che si muovevano con perfetto
coordinamento. Due avanti, due dietro a spazzare il terreno con lo
sguardo.


Verso le due del pomeriggio
l'ispezione sembrava conclusa. I quattro imboccarono la strada
carrabile che conduceva al fondo. Una vampata accecante maciullò
tre uomini: soltanto il sergente Dordi si salvò per miracolo. Fu
una triste medaglia d'oro quella conferita il 14 agosto del 1967
alla memoria di Gentile. Per fortuna, da allora, di terrore in Alto
Adige non si è più parlato.

 
 
 

Post N° 40

Post n°40 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


Contro la furia delle
acque



l'alluvione del Polesine fu la prima grande sciagura nazionale dopo la gerra
Nell'inverno 1951, un lungo periodo di piogge torrenziali
ingrossò pericolosamente il Po lungo tutto il suo corso.
L'acqua raggiunse rapidamente gli argini, che la gente si
affannò inutilmente a rinforzare con sacchetti di
sabbia.


Il 14 novembre il fiume straripò nei
pressi di Pavia provocando la morte di quarantacinque persone. Nel
corso della mattinata la piena travolse gli argini nelle province
di Cremona, Mantova e Reggio Emilia, a Malcantone e ad Occhiobello.
L'acqua dilagò nel Polesine costringendo ad evacuare Rovigo e
Adria. I profughi ammontavano a 100mila.


Il mese precedente le alluvioni
avevano flagellato Sicilia, Sardegna e Calabria. Migliaia di
carabinieri si prodigarono al limite delle forze nell'immane
operazione di salvataggio e soccorso a popolazioni prive di tutto:
per quell'impegno la bandiera dell'Arma fu decorata di medaglia
d'oro al valor civile.


Il Polesine non fu la prima
occasione nella quale i Carabinieri si trovarono impegnati nella
trincea della solidarietà. E non fu neanche l'ultima. Nel periodo
compreso fra i mesi di gennaio e febbraio 1954, un'ondata di gelo
sconvolse l'Abruzzo e il Molise e l'entroterra campano. Per venti
giorni decine di comuni restarono isolati. Oltre agli elementi
territoriali, vennero mobilitati consistenti rinforzi di
Carabinieri della montagna.


un'altra immagine dell'alluvione del PolesineNel 1956 l'inverno fu estremamente
rigido. Varie località montane settentrionali si trovarono in
pesanti difficoltà, che seppero in qualche modo fronteggiare in
virtù della antica consuetudine con il problema; al centro e al sud
la situazione si rivelò disastrosa e richiese l'impegno di
dodicimila carabinieri di cui cinquecento sciatori. Le province
colpite: Agrigento, Arezzo, Campobasso, Caserta, Catanzaro,
Cosenza, Luna, Foggia, Forlì, Lucca, Messina, Pescara, Reggio
Calabria e Sassari. Centinaia di militari ebbero la distinzione di
una ricompensa individuale, encomi, elogi ed attestati di
riconoscenza, per un dovere svolto con disciplina e senso della
collettività, riassunti e simboleggiati da una seconda medaglia al
valor civile all'Arma.


IL CUORE OLTRE LA CATASTROFE.
L'inverno del 1966 rinnovò (dopo l'immane disastro del Vajont) la
tragedia del Polesine, ma questa volta tra le località invase
dall'acqua vi fu anche Firenze. I filmati dell'epoca mostrano
l'Arno che muggiva sugli argini, aggredendo Ponte Vecchio per poi
irrompere nel cuore del capoluogo toscano, provocando ferite
gravissime anche al patrimonio artistico della città. Mezza
Toscana, tutto il Friuli e larghe zone dei Trentino furono
alluvionati. L'Esercito, per lungo tempo unica struttura di
protezione civile e tutt'ora spina dorsale dei soccorsi di massa,
mobilitò 50mila uomini. Molti erano militari di leva e si
comportarono da valorosi.


L'Arma mise a disposizione il meglio
di cui disponeva: i nuclei radiomobili, subacquei e quelli
elicotteri per un totale di 20 mila uomini, 2.195 veicoli e 70
veicoli speciali (50 veicoli blindati M-113, 10 elicotteri, 10
autobotti). Gli uomini stessi non si risparmiarono e 59 rimasero
feriti durante le azioni di soccorso. La bandiera dell'Arma fu
insignita di una seconda medaglia d'oro al valor civile. Ma la
principale ricompensa fu rappresentata dal fatto di aver tratto in
salvo 15mila persone, 13.500 capi di bestiame e oltre 1.000
veicoli.


Due anni dopo vi fu il terremoto del
Belice, una tragedia ed una vergogna che hanno lasciato tracce
profonde. Il 15 gennaio 1968 sei paesi furono cancellati dalla
carta geografica e altri sei furono gravemente colpiti. A Gibellina
le prime scosse fecero fuggire i 6 mila abitanti che passarono la
notte all'addiaccio. La fuga li salvò: poche ore dopo una scossa
del settimo grado della scala Mercalli distrusse completamente il
paese.


Andò in modo peggiore a Montevago
dove, passate le prime leggere scosse, la gente decise di rientrare
nelle case a notte tarda, Quando le scosse di avvertimento
risvegliarono la popolazione non ci fu più tempo per mettersi in
salvo: l'onda d'urto tellurica rase al suolo la maggior parte degli
edifici seppellendo donne, vecchi e bambini. Il terremoto isolò una
vasta zona interrompendo strade, facendo crollare ponti, tagliando
le linee ferroviarie e tranciando quelle telefoniche.


I Carabinieri della legione di
Palermo accorsero con grande tempestività (e con ogni mezzo a
disposizione) sul luogo del disastro. Il loro fu un compito
terribile e doloroso: molti di loro avevano parenti e amici sepolti
sotto le macerie.


Il comandante della legione di
Palermo, colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa, assunse
personalmente il comando delle operazioni. Era un operativo: si era
già distinto da capitano con un gruppo di squadriglie durante la
campagna del CFRB nella rischiosa zona di Corleone, e con grande
senso pratico fece allestire una sala situazione nel comando della
legione per coordinare i soccorsi.


Nella stessa notte fu creato un
centro logistico a Gibellina e furono fatti affluire reparti dalle
legioni di Messina, Bari, Napoli e dal battaglione di Firenze. I CC
schierarono complessivamente: 2.500 militi, 300 automobili, 90
camion, 24 mezzi speciali, 237 motociclette e 6 elicotteri. Non
mancarono gli atti di sciacallaggio e le truffe ai danni di enti
assistenziali, regolarmente denunziati dai Carabinieri.


Lo stesso spirito fu messo in luce
dall'Arma nel terremoto di Tuscania e in quello ben più grave del
Friuli. Le prime violentissime scosse furono avvertite alle 9 di
sera del 6 maggio 1976: ne seguirono altre il giorno 11 e il 15,
con picchi di intensità tra il decimo e l'undicesimo grado della
scala Mercalli. E' il peggiore sisma italiano del secolo.


Ancora una volta i Carabinieri si
mossero con grande rapidità: gli ufficiali della legione di Udine
erano ai loro posti nel giro di pochi minuti; i collegamenti
ressero alla catastrofe; la notte stessa venne formata una
compagnia d'emergenza e fu fatto affluire il personale del XIII
battaglione CC di Gorizia.


Facendo tesoro delle esperienze
precedenti, venne costituito in meno di ventiquattr'ore un centro
di coordinamento dei soccorsi, mentre convergevano le forze del VI
battaglione di Mestre e del VII di Laives. Il giorno 8 le forze
impegnate dall'Arma raggiunsero i 3.000 effettivi con oltre 600
mezzi a disposizione, richiamati da tutto il nord Italia.


Uno dei simboli dell'immane sforzo
compiuto fu la tenda del comando di stazione di Tarcento. La
casermetta era crollata, ma lo stellone repubblicano era lì a
segnalare che gli uomini con gli alamari stavano lavorando per la
collettività. Una terza medaglia d'oro al valor civile premiò lo
spirito e la disciplina con i quali il corpo aveva sfidato la
calamità.

 
 
 

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