Creato da giuseppelatanza il 05/02/2012

Franti

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Alziamo il lenzuolo. Tra Totocalcio, tette e narratori di razza. Intervista a Giuliano Pavone sul suo ultimo romanzo.

Post n°9 pubblicato il 22 Ottobre 2012 da giuseppelatanza
 
Foto di giuseppelatanza

- Giuliano, il tuo ultimo romanzo (13 sotto il lenzuolo) ha come sfondo il set di un film erotico di serie B, agli inizi degli anni ottanta, con protagonista l'attrice di fantasia Morena Dani.Nella tua testa esiste sicuramente una Morena Dani fisica. Ha le fattezze di una gnocca in particolare o è un appetitoso mostro di Frankenstein fatto con le tette della Rizzoli, le natiche della Cassini, le gambe della Fenech, gli occhi della Antonelli, e lo sguardo della Carati?

In effetti nella mia testa esiste, e abbiamo anche passato del piacevole tempo insieme. A differenza di quanto è successo per gli altri attori, tutti ispirati a modelli veri, per Morena sono andato di pura fantasia, senza neanche l'effetto Frankenstein. Nel libro le sue fattezze sono accuratamente descritte, ma alla fine l'identikit preciso sta solo nella mia testa. Forse per gelosia. 

- Hai conosciuto Jimmy il Fenomemo di persona? Cosa ne pensi della sua richiesta riguardo la legge Bacchelli?

Non lo conosco di persona ma spesso ho avuto informazioni di prima mano sulle sue abitidini, i suoi spostamenti, eccetera. Lui era davvero considerato una specie di portafortuna e così veniva scritturato per delle particine in un sacco di film. Tramontato quel cinema, si mise a bazzicare ambienti calcistici, come la Lega Calcio o la sede dell'Inter, scroccando qualche banconota ai vari presidenti. Per un periodo ha vissuto in un albergo vicino alla Stazione Centrale di Milano, ora è in casa di riposo.
Non ho le idee chiare sulla sua richiesta ex legge Bacchelli. Qualcuno insinua anche che si tratti di una specie di truffa. Ma, quale che sia la verità, la trovo comunque una storia molto triste.


- Cosa ha ucciso il cinema erotico italiano?


Credo che la domanda più corretta sia "cosa ha ucciso il cinema di genere italiano?": spaghetti western, poliziotteschi, peplum, musicarelli, commedie sexy e chi più ne ha più ne metta, sono andati tutti incontro allo stesso destino. Una volta se ne giravano a bizzeffe, e il cinema italiano (anche quello d'autore) marciava. Poi i "generi" sono morti e il cinema italiano ha iniziato ad arrancare. Il cambiamento è avvenuto proprio all'inizio degli anni 80, nel periodo in cui è ambientato "13 sotto il lenzuolo". Probabilmente è dipeso dalle tv commerciali, che hanno sostituito certo cinema (o l'hanno trasmesso dai loro teleschermi) nel ruolo di intrattenimento con poche pretese.


- Se Tarantino ti proponesse di girarci un film, saresti disposto ad accettare che Trunfio smitragli a colpi di Kalashnikov gli avventori del Bar Centrale, e che la Morena Dani la dia a Johnny il mostro prima di darla
a te?


Quanto al Kalashnikov, farei di più: sarei io stesso a proproglielo in sede
di sceneggiatura. Quanto a Johnny il Mostro, forse non sai che Jimmy il
Fenomeno è stato davvero fidanzato con un'attrice bona: Isabella Biagini. Quindi nessun problema neanche su questo: l'unico rischio è che Tarantino scarti l'idea giudicandola troppo realistica.



- E' l'unico tentativo che conosco di fare letteratura su un tema così leggero. Il tentativo è riuscito. Chi è stato lo scrittore che ha più influenzato la tua prosa?


Ti ringrazio, ma non credo di aver scritto qualcosa di così nuovo. Però faccio fatica ad argomentare, anche perché si tratterebbe di capire cosa è "letteratura" e quando un tema vada considerato leggero. Anche la domanda sullo scrittore che mi ha influenzato mi mette in crisi. Ovviamente il mio stile è il risultato di tutti i libri che ho letto, e non solo, anche di tutti i film che ho visto e tutte le canzoni che ho ascoltato, e così via. Ma trovare un "padre putativo" no, proprio non ci riesco. E non per immodestia.


- Che libro hai sul comodino?

Ne ho circa una decina (fra un po' tolgo il comodino e poggio la sveglia direttamente sulla pila di libri). Quelli più in alto sono *"*Nessuno è indispensabile" di Peppe Fiore, "La vera storia dei Simpson" di John Ortved e "*La vedova, il Santo e il segreto del Pacchero estremo<http://www.ibs.it/code/9788831795944/cappelli-gaetano/vedova-il-santo-e.html> *" di Gaetano Cappelli.


- Infine, se non avessi sposato Lucia Tilde Ingrosso, chi avresti impalmato (nel senso di sposato, non pensare a male) volentieri tra le attrici del panorama erotico italiano? Chi sarebbe stata la tua Morena Dani?

Avevo un debole per Nadia Cassini, Gloria Guida, Lory Del Santo... Ma tu mi hai chiesto chi avrei sposato, e quindi ti rispondo Edwige Fenech, perché oltre all'avvenenza e alla sensualità ha sempre dimostrato personalità, dolcezza, senso dell'umorismo e intelligenza, tutte qualità (forse) inutili per una notte di fuoco ma certo necessarie per un'aspirante signora Nugnes Peluso (o Pavone).

 

 
 
 

Una recensione in itinere. 13 sotto il lenzuolo, di Giuliano Pavone.

Post n°8 pubblicato il 17 Ottobre 2012 da giuseppelatanza

Giuliano Pavone è un ragazzo smilzo. L'ho conosciuto durante la premiazione di un concorso letterario, e lui premiava me. 

Giuliano Pavone è più scrittore di quello che sembra. Per sembrare scrittore devi indossare pashmine colorate, avere le calze spaiate, avere propensione all'alcolismo, al tabagismo, qualche perversione occulta, magari nell'ambito della parafilia, roba strana tipo la bibliotafia, avere un'auto degli anni '70 con 5000km, degli amici gay, e un telefonino con una suoneria krautrock.   

Giuliano Pavone sembra invece il tuo farmacista. Ma proprio quello sotto casa, che conosci da anni, che sa ti sei operato di emorroidi ma non te lo dice. Lo capisce dai farmaci che ti ha venduto. La sa lunga, il Pavone. 

Giuliano Pavone è il pavone meno presuntuoso che abbia mai conosciuto. Glielo l'ho già detto. 

Il suo primo romanzo, L'eroe dei due mari, è davvero divertente. Chi è appassionato di calcio e del Taranto, lo compri, lo regali, lo diffonda.

La sua seconda opera invece è qualcosa di diverso. Avrei voluto aspettare la fine per farne una recensione, ma a un terzo del romanzo, dopo aver bevuto avido ogni singola pagina, non ho resistito. E voglio dirglielo a mezzo blog (fa più figo).

L'eroe dei due mari sta a Steno, come 13 sotto il letto sta a Monicelli.

Il primo è intrattenimento di livello. Il secondo è romanzo nella sua accezione più profonda. E' prosa al servizio della narrazione. 

Il primo racconta. Il secondo potrebbe anche non raccontare nulla. I capoversi sono pieni, bastano a se stessi. La narrazione procede per concetti, splendidi, allineati l'uno dietro l'altro come un raffinatissimo concept album.

Lo leggo quando posso, in piedi, seduto, disteso. Almeno una volta a capitolo seguo mia moglie affaccendata, in giro per casa,  per leggerle ad alta voce il capoverso appena terminato. 

Ogni parola è scelta, e si vede. E' scelta la posizione di ogni parola all'interno  della frase, come si posano con cautela e con cognizione di causa le posate d'argento sulla tavola apparecchiata per una cena importante. 

Giuliano Pavone scrive tutto quello che serve, non una parola di più nè una di meno,  con la pienezza di un puzzle letterario. 

La storia è semplice ed accattivante. L'avrebbe potuta scrivere chiunque. E' alla portata di chiunque. Così come un paesaggio è a disposizione di tutti.

Ma se sei Van Gogh, la storia è diversa.

 
 
 

La banalità del male. Come rovinare il mondo e far pensare di essere in fondo una brava persona.

Post n°7 pubblicato il 17 Ottobre 2012 da giuseppelatanza

- Ma che significa, è un bravo ragazzo...non fare l'estremista.

E', quella appena sopra, una scheggia di una conversazione avuta di recente. La sostanza della discussione è che io, coi fascisti, che siano parenti o meno, non ho nulla da spartire. Certo, se il fascista è tuo padre, o tuo fratello, ce l'hai in casa, ti scorni, non ci puoi far nulla, ma l'affetto in questo caso prevale sul rispetto.

Però: un fascista può essere una brava persona? Beh, dipende da come la guardi. Se per brava persona intendi quello che vuol bene ai figli, che porta il cagnolino a pisciare e versa dieci euro al Telethon, allora...anche Adolf Hitler portava il cane a pisciare. 

Chi nel 1933, in Germania, consegnò con il proprio voto il paese ai Nazisti, era una brava persona, se vogliamo metterla così. Portava i figli a scuola, riempiva la scodella del gattino di latte, leggeva le fiabe ai nipotini. Ma allora, i criminali chi erano? Se io delego a terzi le nefandezze che penso ma che non ho la voglia di attuare, sono una brava persona? Col gattino sì. 

Chi, affacciato ai balconi di Genova, invitava i poliziotti a massacrare gli studenti, era una brava persona perché aveva regalato l'ovetto Kinder al figlio della portinaia?

Chi insegna al proprio figlio di 7 anni, dinnanzi a un bimbo cinese che occupa temporaneamente la seggiola dell'altalena nel parco comunale, che i cinesi fanno schifo anche se sono bambini, è una brava persona perché ti presta la chiave a pappagallo? 

Quindi, per concludere, io coi fascisti posso pure averci saltuariamente a che fare perché sono colleghi, parenti, vicini di casa, perché insomma mi sono piombati senza volerlo tra le palle. Purché si parli di cassate siciliane e traffico.

Non ho amici fascisti. Non avrei mai sposato una fascista. Perché?

Perché quando devo pensare ad una brava persona, chissà perché, mi viene in mente Gino Strada.

 

 
 
 

Che postaccio Cuba!

Post n°6 pubblicato il 15 Ottobre 2012 da giuseppelatanza

Noto con un sentimento misto fra l'irritazione e l'ilarità che Repubblica e il Corriere, dedicano con una regolarità da metronomo un simpaticissimo articolo cadauno a scadenza settimanale su quanto Cuba sia et cetera et cetera. 

Oggi per esempio il Corrierone nazionale racconta di come la nazionale di calcio cubana veda, ad ogni trasferta, fuggire uno/più giocatori per chiedere asilo politico al paese di turno.

Va da sè che questi poveretti nell'isola della revoluccion non guadagneranno mai una mazza, e francamente se fossi un talentuccio isolano, mi girerebbero le palle vedere che puntaruli, scapocchioni, pizze autentiche nostrane guadagnano in un giro di lancetta quanto loro non vedrebbero mai in più generazioni calcistiche. 

Va da sè che Cuba è povera. Per una ideologia che ricchezze non ne prevede, se non quelle interiori. Per un blocco economico che avrebbe steso noialtri in sei mesi, mentre loro ci campano da 60 anni. Per un sistema economico statale, stimolante quanto un lassativo. A Cuba ci sono stato, ormai anarchico, e il sapere che nessuno di loro avrebbe mai potuto sviluppare una grande idea imprenditoriale, mi faceva pena. Pensavo che tutte quelle lauree, tutti quegli occhi vivi, quelle menti intelligenti e colte non avrebbero potuto librarsi nel mondo della crescita economica. Poi ho pensato che era alquanto strano che un regime che voglia far bene il suo lavoro da regime spenda tempo e risorse per far cresce i propri oppressi cittadini con sport e istruzione.

Atleti di livello, per giunta laureati. Che fuggono appena possono. Forse. I giornali che pubblicano questo non sempre sono attendibili. L'ho constatato di persona.

Ritornando all'articolo di cui sopra, si diceva con rammarico di quanto fosse difficile per un cubano allontanarsi da Cuba. Più sotto, i commenti inferociti dei lettori puntavano il dito contro il regime comunista che non permette a nessuno di lasciare liberamente la povertà per la ricchezza altrove.

A parte la gran cazzata, i cubani all'estero ci vanno eccome ( e aggiungo "purtroppo": hanno rotto le palle con salsa e merengue in tutte le palestre italiane), devo dire che le affermazioni di questa gente le conosco bene. O meglio, conosco bene chi le fa. Sono gli stessi che dicevano di Ceausescu quello che dicono di Castro. 

"Poveri rumeni", che non possono fuggire altrove. Quando poi Ceausescu ha fatto la fine del tirassegno, e le frontiere si sono squagliate al sole della libertà, quei poveretti rumeni sono all'improvviso diventati quegli "sporchi rumeni" che (state a sentire) se ne devono tornare al paese loro.

Il socialismo è una cosa bella se scelta. Come il libero mercato. Cuba non consente il libero mercato come negli USA non è consentito il socialismo.  

A Cuba non c'è scelta, forse. Ma dove c'è? 

Beh, viva l'Anarchia, va. 

 
 
 

DUE SOLDI…

Post n°5 pubblicato il 22 Febbraio 2012 da giuseppelatanza

Più o meno la fine del secolo scorso. Le chiappe al caldo del broccato che rivestiva il trono d'Italia eran dell'Umberto, di quell'Umberto, quello Buono, mandante di una strage che se stavamo in Francia le chiappe dal trono gliele scollavano col piede di porco in un attimo, quello che fece sparare dal generalissimo Bava Beccaris sulla folla affamata che a Milano reclamava del pane, ottanta straccioni abbattuti come tordi perché il calore delle chiappe lo si paga con le brioches e con la farina un tanto al chilo. Quell'Umberto che adesso è solo un nome sul marmo della via principale di ogni città, corso Umberto, Viale Umberto, come a ricordare che non ci possiamo far nulla, era il re, e siamo tenuti al rispetto.  Se fossi il sindaco le farei diventare tutte Via Gaetano Bresci, quello sì uno in gamba.

Ad ogni modo, Taranto non era mica brutta all'epoca. Certo, magari povera per la gran parte, ma vista dalla fine del XX secolo pare molto bella, colle case bianche e i vicoli stretti e la gente per strada a tirar la chiacchiera e a mescere vino diluito che veniva dall'entroterra secco e ventoso. Quella sera di maggio un vento caldo gonfiava i panni stesi ad asciugare sui balconcini e le vele delle paranze ormeggiate al porto, paranze liquamose di scolatura di pesce e raggrinzite dalla brezza salmastra del Mar Piccolo.

In una stanza, interna e fresca di una bilocale di via Cava,  Carmela ansimava sotto i colpi morbidi delle anche muscolose di Egidio, giovane manovale, di bell'aspetto, che ai giorni nostri avrebbe fatto la pubblicità e che allora si limitava a sbriciolare cuori di adultere .

Damiano, era il marito, un ometto tutto educato, devoto della mignotta di cui sopra, e umilissimo impiegato della regia cooperativa di pescatori. A tener i conti del pesce pescato era l'unico capace di tutta la cooperativa, ed era il motivo per cui lo tenevano lì, in una stanzetta a far di conto col pennino e non sulla paranza a spaccarsi le mani colle reti e i cestoni di vimini. Il padre di Damiano era un marinaio che aveva imparato a leggere sulle navi a Genova, grazie a un capitano inglese che detestava gli italiani che non sapevano leggere.

Successe che Damiano un giorno, nel suo ufficietto non aveva da scriver nulla, che la paranza della cooperativa era ferma agli ormeggi per ridipingerla e i pescatori a tribolare sulle paranze altrui, a portar il pane a casa. Damiano la paga ce l'aveva anche se la paranza stava ferma, erano gli accordi presi coi pescatori fin dall'inizio. Damiano pensò di tornare a casa, quella mattina, e i telefoni non esistevano mica, altrimenti tutto quello che successe dopo non starei qui a raccontarlo. La strada da fare non era tanta, da piazza dell'Orologio alla punta di via Cava, vicino al ponte girevole, non saranno neanche due chilometri. Damiano se la prese comoda, e in via Cava, presa dall'inizio, era tutta un tramestio di pentoloni, di fumi di frittura di paranza, di sbatacchi di tappeti e scrocchi di ceste intrecciate. Un ragazzetto di nome Giuseppe, che pareva uscito dalle mani di un falegname tant'era secco, sbirciò fuori dalla salumeria dove lavorava e vide Damiano che sfiorava la larghe foglie di una pianta d'arredo del negozio di fronte, quello di Savino Fanigliulo, e che se stava tornando a casa sua forse le cose per suo fratello Egidio si mettevano male.

-          Maestro? - fa Giuseppe a mastro Saracino, il salumiere.

-          Che vuoi, Pino?

-          Devo andare a casa che mi sono scordato...mi sono scordato...

-          Che ti sei scordato?

Giuseppe si guardò i piedi nudi e neri e sbottò:

-          Le scarpe! Mi sono scordato le scarpe a casa.

-          Ma se le scarpe non ce le hai mai avute?

-          Non è vero, è che non le metto perché si sporcano dentro qua.

-          E tu qua dentro devi stare...

-          Sì, ma devo andare a casa, a nasconderle, se no se le mette mio fratello per andare a camminare in giro.

Giuseppe si affacciò e vide che Damiano era andato avanti spedito e che non mancava molto che arrivasse a casa e trovasse suo fratello Egidio lì dove non doveva stare. A dirla tutta Giuseppe non doveva saperne niente di quello che Egidio andava a fare in giro, ma sapeva che Egidio gli piacevano le femmine, e soprattutto quelle sposate, e che già una volta le aveva prese da Michele Pignatelli, quello che porta il latte alla gente per bene di Taranto. Michele aveva trovato Egidio nel portone di casa sua, proprio un secondo dopo che era uscito da casa sua. Pensò che Egidio aveva fatto le moine colla moglie e senza neanche chiedere aveva inseguito Egidio per tutta via di Mezzo e poi l'aveva preso a sassate.

Giuseppe scappò fuori ma a fermare Damiano non ci riuscì mica. Lo vide entrare nel portone quando mancava uno sbaffo ad acciuffarlo, ma si fermò sull'uscio, perché anche se lo fermava non avrebbe saputo che castroneria inventarsi per fermarlo. E così successe tutto.

Melina a letto col marito faceva la maria vergine immacolata, colla veste candida fino ai piedi e un taglio di forbice all'altezza della gnocca, si trombava una volta a settimana, di sabato sera, con Damiano che ansimava per due minuti fino al botto e Melina che guardava il soffitto che pareva Bernadette colla madonna, che certe volte Damiano pensava che la moglie avesse le visioni davvero. Figli non ne avevano ancora, e la gente già diceva che Damiano non era mica buono a far figli e che Melina stava sempre in ginocchio davanti alla statua di Santa Rita a chiedere la grazia e che la grazia non arrivava mica. Era forse per questo che Melina apriva la porta ad Egidio? Ma Egidio lo sapeva e al momento opportuno ingranava la retromarcia.

A letto con Egidio Melina era un'altra cosa. Era capace di tenerselo in bocca per due ore di fila. Ed era proprio quello che stava facendo ad Egidio quando Damiano comparve sulla porta.

Uno si immagina che succede il finimondo. Egidio lo sapeva che prima o poi succede. Che il marito ti entra in casa che ha avuto la soffiata. Che ti piomba addosso colla roncola del nonno. E che ti separa la testa dal collo. O almeno ci prova. Ad Egidio era già successo. E mica una volta sola. Ma certe volte nella vita succedono le cose che non ti aspetti.

Damiano si fermò sulla porta. Melina non si accorse di nulla e continuò a pompare rumorosamente. Egidio era impietrito. Non riuscì a dire nulla. Prese la testa di Melina dai capelli e la sollevò. Si sentì lo stappo, come quello dello spumante a natale.

Sapere che tua moglie ti ha manufatto un bel paio di corna lucide  e lunghe è un conto. Vederla mentre si adopera per favorire l'orgasmo a colpi di cervice ad un altro uomo è tutt'altra cosa. Che cosa volete che accada in certi frangenti? Pare che uno sia pure giustificato quantomeno a irritarsi. Ma a volte succede che il cervello corre più del cuore. O della pancia. E la cosa si fa divertente.

Damiano era serafico sulla porta, appoggiato allo stipite con la spalla sinistra e con le braccia conserte. Era serio ma non arrabbiato.

Melina era bianca come un sudario, come se avesse perso di botto tutto il sangue. Era seduta sul letto colle mani sulla bocca e guardava nel vuoto.

Egidio era immobile, in piedi. Tremava in modo impercettibile. Osservava con la coda dell'occhio la finestra chiusa. Poteva sfondarla lanciandosi fuori.

-           Vestiti e va via.

Damiano parlò bonariamente, come un padre comprensivo parla al proprio figlio. Fu proprio questa la sensazione che Egidio provò mentre si infilava i calzoni. Questo mi manda via, non mi farà niente perché è buono, forse più stupido che buono, ma meglio così, meglio non fare storie e filare via prima che ci ripensi, prima che cambi idea e mi scanni come un vitello. Ora Damiano è con le mani affondate nelle tasche e le spalle poggiate al muro. Attende. Egidio fai in fretta, dice a se stesso il giovane manovale, prima che ci ripensi. La porta è li a tre metri e Egidio si avvia frettolosamente, ma senza fuggire. Non voglio dargli l'impressione di scappare. Apro la porta. La maniglia sembra congelata nonostante la calura mi faccia ansimare.

-          Aspetta.

Egidio sentì gelarsi le vene del collo. Ecco, ora mi ammazza

-          Dammi due monete.

Egidio rimase di sasso a quella stramba richiesta. Guardò Melina. Ma Melina era voltata e guardava il muro di fronte a se. Guardò Damiano. Sorrideva bonariamente, come se gli avesse posto la richiesta più naturale del mondo. Poi, lentamente, cacciò le mani nella tasca del calzone e trasse fuori tre monete da un soldo e le porse a Damiano.

-          Due. Voglio solo due soldi. Non uno di più.

Egidio prese con due dita della mano sinistra un soldo dal palmo della mano destra a allungò il braccio verso Damiano.

-          Grazie.

Damiano prese con naturalezza i due sodi e lo congedò con una pacca sulle spalle. Ciao. Poi chiese la porta. Melina non alzò lo sguardo. Non era pentita. Aveva troppa paura per avere spazio per una sensazione che non fosse Terrore. Damiano si levò la giacca, riponendola sullo schienale della sedia. Mise in tasca i due soldi e sorrise.

-          Cosa si mangia stasera, cara?

Solo allora Melina si voltò a guardarlo. Sorrideva ancora,come se nulla fosse accaduto. Inghiottì la saliva.

-          Allora? Cosa si mangia?

-          Minestra. - rispose con voce rotta Melina.

Questo folle comportamento del marito la terrorizzava. Avrebbe preferito che avesse impugnato la cinghia di cuoio e l'avesse rincorsa per i vicoli del borgo. Ma quella calma no, proprio non riusciva a sopportarla. Dio, ti prego, fa che mi ammazzi subito. No, forse no. Forse è meglio assecondarlo. Si forse è meglio assecondarlo. Damiano era seduto al tavolo della piccola cucina e tambureggiava impaziente sul legno con i polpastrelli. Melina dispose i due piatti sul tavolo, come aveva fatto ogni giorno dei loro vent'anni di matrimonio. Il profumo della minestra aveva colmato la stanza. Quando tornò al tavolo con il pentolone fumante Damiano le sorrise. Melina resisti, vedrai che prima o poi quest'incubo finirà, vedrai che prima o poi esplode. Rovescerà il tavolo e la minestra, mi picchierà, mi butterà per strada mezza morta. Ma almeno la pianterà di sorridere. Melina impugnò il mestolo, lo affondò nella minestra fumante e ne versò un'abbondante porzione nel piatto del marito. Poi riaffondò una seconda volta il mestolo per servirsi e ting! ting! Damiano pose le due monete nel piatto della moglie. Melina scappò via in lacrime, cercando rifugio nella camera da letto, ad affondare la testa nel cuscino ed implorare Morfeo di spegnere, almeno per quella sera, la sua cupa disperazione. Il sole era già alto quando Melina, con gli occhi gonfi di lacrime e una dolorosa fitta alle tempie, si svegliò. Damiano era già andato via. Ora non le restava che far finta di niente e riprendere la sua vita normale, le sue abitudini. Quella mattina però evitò di andare a far la spesa al mercato, per evitare che gli sguardi della gente, che certamente conosceva ormai la storia, la inchiodassero alla gogna della sua nuova reputazione. Certamente Egidio avrà fatto la sua parte, avrà spiattellato tutto agli amici, ridendo attorno ad una bottiglia di vino all'osteria. Certamente ora Melina non è più semplicemente Melina, la moglie di Damiano, ma sarà divenuta Melina la zoccola, moglie di Damiano il cornuto. La gente del borgo viveva di questo. La gente del borgo non aspettava altro. L'avevano saputo? Beh, che se la tenessero pure. Che si divertissero pure, quelle quattro comari. Tanto, almeno per oggi, non mi vedranno.
All'ora di pranzo la chiave girò nella toppa. Damiano entrò, sorridendo.

-          Ciao, cara.

Melina esitò. Poi, per darsi un contegno, ricambiò il saluto. Damiano si sedette al tavolo e le sorrise. Melina rispose mordendosi le labbra.

-          Allora, si mangia? Sento un buonissimo odore. Sono rape...

Melina accennò un sì col capo. Poi apparecchiò la tavola nuda con due piatti, due bicchieri e due cucchiai di stagno. Portò il pentolone di rape al tavolo. L'effluvio dello stufato le risvegliò lo stomaco. Era a digiuno da molte ore e si sentiva debole. Riempì il piatto di Damiano e mentre riaffondava il mestolo...ting! ting! Damiano fece scivolare i due soldi sul piatto. Melina rimase paralizzata. Non sapeva se scoppiare in lacrime e correre in camera da letto o infuriarsi. Decise di sedersi al tavolo comunque. Anche quel giorno non avrebbe mangiato.
Damiano stava giocando come il gatto col topo. Ma quanto tempo sarebbe durato questo gioco
crudele? Melina chiedeva a se stessa e a Dio quando sarebbe stata riammessa al desco familiare, quando il marito le avrebbe concesso di mangiare. Le forze cominciavano a venir meno.
Purtroppo Melina fu costretta a sentir tintinnare quelle due maledette monete nel proprio piatto anche i giorni successivi. Quell'apparentemente innocuo giochetto con le monete, quell'apparentemente piccola ritorsione si stava rivelando un crimine efferato e lucidamente calcolato. Fino a che punto poi il marito avrebbe portato questo orrendo gioco Melina lo capì dieci giorni dopo, quando, stremata, crollò nella piazza del mercato. La gente accorse per rianimarla. Ma Melina non rispondeva più. Melina non avrebbe risposto più. Il funerale si tenne a San Domenico. La chiesa era ricolma di gente che era venuta a celebrare non la morte di Melina, ma l'onore salvato di Damiano. Per loro, Dio gli avrebbe sottratto la consorte per sottrarre lui al disonore. Loro non sapevano. Ma Damiano non guardava loro. Guardava la bara della moglie. Sorrideva. Ad un certo punto della funzione religiosa, Damiano si alzò e sotto gli occhi di tutti si avvicinò alla cassetta delle offerte. Si cacciò la mano nella tasca dei calzoni, tirò fuori due soldi e li fece scivolare nella fessura delle offerte...ting! ting! La salma di Melina sembrò sussultare al suono delle due monete.
Ma fu solo un'impressione.

 

 

 

 

 
 
 
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