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A casa con il nemico 

Post n°88 pubblicato il 28 Luglio 2007 da Gioiasole

« Il linguaggio di un'età più rude ha reso comune la massima che la casa dell’uomo è il suo castello: il progredire della verità farà di ogni casa un santuario. »
(Ralph Waldo Emerson)

Ciò che mi ha sempre sconcertata, nel rapporto tra l’uomo e la sua casa, è la paura dell’ospite. Noi architetti da sempre dobbiamo scontrarci con le idiosincrasie dei nostri clienti. Hanno tutti, chi più chi meno, un vaga idea di come vorrebbero che fosse la loro abitazione; oscillano tra desideri anche contrastanti, parquet o ceramica – ma lei, architè, che dice, e se si rovina il parquet? – eternamente divisi tra il timore dello sporco impossibile e l’anelito verso il divano bianco che più bianco non si può.
Ma su una cosa non hanno dubbi: combattere l’ospite. Costi quel che costi.

Il difficile, per noi italiani, è stato accettare nelle nostre case il concetto di open space, a partire dall’ingresso. Ora, è inutile che ci nascondiamo dietro un dito. Le nostre case diventano sempre più piccole, microcellule in palazzoni enormi. Se va bene, un quaranta metri quadri scarsi per due persone, perché non c’è posto nemmeno per la carrozzina. Però tutti lì a dire come sono belle le case all’americana, visto che le chiamano così. Già. Chissà perché, gli americani sembrano incapaci di avvertire il benché minimo disagio che venga dalle novità. Ospite inatteso compreso. E noi, con la bava alla bocca, riusciamo a dire solo ‘che bello, che è’. Ma anche ‘che bello sarebbe se’. Perché è vero: l’italiano litiga con il congiuntivo, ma va a nozze con il condizionale. Si direbbe che sia l’individuo con la maggiore percentuale cromosomica di ricerca delle probabilità più improbabili nel DNA.

Il primo incontro con un cliente è quasi sempre drammatico. Sembra quasi di assistere ad uno sventramento psicologico. Poco ci manca che li si faccia stendere su un lettino e li si faccia parlare dei loro problemi. Alcuni si comportano addirittura come se fossero dietro la grata di un confessionale e ci fanno sentire come dei disgraziati giudici sacerdotali che, prima o poi, emetteranno l’ingiusta condanna. Ma chi gliel’ha chiesto di andare dall’architetto. Eppure saremmo lì per aiutarli a soddisfare i loro desideri, a mettere ogni cosa al posto giusto, per creare la casa dei loro sogni.
Ma forse è questo il nocciolo del problema. Evidentemente, ci sfugge miseramente che il più grande desiderio dell’individuo medio è quello di crearsi una vera e propria tana, un nascondiglio. La moglie chiusa in cucina, il marito chiuso in soggiorno, la figlia grande chiusa in bagno e il figlio piccolo chiuso in cameretta. Come le scope nel ripostiglio. Quasi quasi vorrebbero che gli facessimo la casa a quadretti, anzi a cubetti. E invece gli spalanchiamo addirittura la casa al grande nemico. L’ospite, per l’appunto. Noi architetti facciamo finta di niente, ma lo sappiamo benissimo che la fatidica domanda è dietro l’angolo. Perché se gli progetti un ingresso aperto verso il soggiorno, con una visuale discreta verso la cucina, schermata magari da pareti mobili per dare spazio visivo ad ambienti altrimenti angusti, vedrai i suoi occhi spalancarsi dalla meraviglia.
“Che bello che è, architè. Ma… e se viene qualcuno?”

Nota bene.
Il cliente medio, di solito, la casa a cubetti ce l’ha già. Ma non gli piace. Così va dall’architetto. E sgancia migliaia di euri. Per un’altra casa a cubetti? 

 
 
 
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