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UNIONI CIVILI, FAMIGLIE "ARCOBALENO" E DIRITTI NATURALI (3)

Post n°72 pubblicato il 12 Maggio 2016 da giulio.stilla

UNIONI CIVILI, FAMIGLIE “ARCOBALENO” E DIRITTI NATURALI    (3)

 

Saggezza e Libertà per le grandissime figure del passato: Virgilio, Catone, Seneca, Dante, ed altri, infinitamente altri Sapienti dell’Umanità. Due termini costituiti in un Binomio che è la Ragione dell’uomo, è il Logos degli antichi filosofi greci, che domina e governa la storia.

 E’ la ragione a cui deve ricorrere l’uomo nella sua individualità e socialità esistenziale, irta di pericoli, deviazioni e perdizioni, come Dante ricorre a Virgilio, guida morale e razionale, per lasciarsi condurre attraverso l’Inferno e il Purgatorio, i regni oltremondani della dannazione e della espiazione.

E’ la ragione a cui ricorre la filosofia giusnaturalistica del ‘500 e del ‘600 per definire i diritti naturali, gettati poi a fondamenta ed eretti a pilastri di sostegno per la costruzione delle Società moderne e contemporanee, aperte, democratiche, libere e responsabili.

I Diritti Naturali sono quelli riconosciuti e sanciti dalla ragione, che, come dicevo all’inizio di questo scritto, sono gli achetipi dei diritti positivi. Non si può costruire una società civile se vengono conculcati i diritti pensati dalla natura razionale dell’uomo, che ha adottato, a partire dalla riflessione speculativa degli antichi filosofi e via via dai pensatori moderni ed illuministici, il criterio della reciprocità per definire la sacralità e la universalità dei diritti naturali.

“La libertà mia finisce lì dove inizia la libertà degli altri”, sogliono ripetere gli Spiriti liberali al seguito della riflessione illuministica di Giovanni Locke, Voltaire, Montesquieu, Beccaria, Kant, sui concetti  della dignità, dell’uguaglianza, della tolleranza, della libertà e della qualità della vita e dei diritti delle persone, indirizzati in forme sintetiche anche alla comprensione dei soggetti più distratti.

 Le numerose Dichiarazioni dei Diritti dell’Uomo della nostra contemporaneità attingono alle meditazioni dei grandi Pensatori dell’Umanità con la sola preoccupazione di assicurare alle nostre organizzazioni sociali una base certa ed universale dei diritti naturali. Assai importanti ed esemplificativi sono i grandi Documenti del passato, che nelle svolte più importanti della Storia hanno teorizzato e sancito la uguaglianza e la dignità di tutte le persone senza differenza alcuna di condizione sociale e di nazionalità.

Già nel lontanissimo passato dell’antica Persia, intorno al 500 a.C., abbiamo rinvenuto un Decreto di Ciro il Grande, che deliberava la soppressione della schiavitù e l’uguaglianza universale fra tutti gli uomini. E’ la prima grande Dichiarazione sui diritti umani, passata alla Storia con il nome del “Cilindro di Ciro”, e poi via via, col passar dei secoli per la Grecia e Roma, giungiamo al 1215 con la Magna Charta Libertatum, alla Petizione dei Diritti del Parlamento inglese del 1628, alla Costituzione degli Stati Uniti del 1787, alla Dichiarazione Francese dei Diritti dell’Uomo e dei Cittadini del 1789, alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, firmata a Parigi il 10 Dicembre del 1948, il cui primo articolo è una pietra miliare definitiva sulla sacralità dei Diritti Naturali:

 “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.

Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.

Precorritrice, quindi, di questa lunga evoluzione giusnaturalistica era stata la filosofia stoica, in particolare latina, che aveva inteso chiaramente che “il vivere secondo natura è vivere secondo virtù, cioè secondo la natura singola e la natura dell’universo, nulla operando di ciò che suole proibire la legge a tutti comune, che è identica alla retta ragione diffusa per tutto l’universo ed è identica anche a Zeus, guida e capo dell’universo”.

(Diogene Laerzio, op. cit., VII, 88)

Basterebbe questa antichissima testimonianza di Diogene Laerzio, storico greco, vissuto prevalentemente ad Alessandria d’Egitto tra il 180 e il 240 d.C, per affermare l’attualissima sensibilità degli antichi filosofi a richiamare la razionalità della natura umana come stella polare per guidare la condotta degli uomini nelle nostre complicatissime società, gremite di problemi inimmaginabili non solo alla Civiltà greco-romana ma anche a tutta la tradizione giusnaturalistica.

Alludo in particolare al sofferto dibattito odierno sui delicatissimi problemi sollevati dalle scienze della vita, come la Bioetica ovvero la trattazione dei Biodiritti.

Molte sollecitazioni a capire arrivano da diverse posizioni culturali e tradizioni di costumi le più disparate, che lamentano il ritardo delle nostre legislazioni a definire in termini etici i rivoluzionari metodi e i risultati delle cosiddette “tecnoscienze” in materia di fecondazione assistita, di maternità surrogata, di manipolazione di embrioni, di coppie omosessuali ed eterosessuali, di selezioni eugenetiche, di eutanasia, ecc. ecc.

Corriamo il rischio di rimanere confusi dalle molte implicazioni che vengono sollevate dalla complessità di questi problemi, che potrebbero compromettere il destino stesso della nostra “umanità”, se non rimaniamo molto attenti nello studiare con lungimiranza i contesti di approdo delle odierne tecniche e sperimentazioni scientifiche, soprattutto nei distretti delle biotecnologie. Personalmente, se mi pongo sul piano giuridico-legislativo, resto del parere fortemente etico che, per aderire alle risultanze presenti e future di tutte queste tecnoscienze, bisogna sempre ripensare la nostra tradizione giusnaturalistica, che, in particolare, con la filosofia pratica di Immanuele Kant ha raggiunto un livello altissimo di chiarezza concettuale, a cui ciascun di noi dovrebbe ispirarsi per guidare la propria esistenza pubblica e privata.

Certo, non penso alla strutturazione di uno Stato etico, le cui nefaste conseguenze dittatoriali sono state sperimentate con immani sacrifici dalle generazioni del ‘900. Ma ritengo che una Entità Statale debba sempre perseguire e riconoscere i valori etici che salgono dalla scuola, dalla famiglia, dalla società civile e, quindi, anche dalla Chiesa. Non possiamo rinunziare ai nostri valori etici, conoscitivi, politici, religiosi ecc., per fare spazio ai disvalori della barbarie e della distruzione violenta delle nostre organizzazioni sociali.

Dobbiamo, quindi, consolidare questi valori, specie nelle età di crisi, come questa in cui viviamo, e farcene banditori, ricorrendo ai grandi maestri di umanità come Kant, che in opere monumentali come “La Critica della Ragion Pratica”, la “Fondazione della Metafisica dei Costumi”, “La religione nei limiti della semplice ragione”, “La metafisica dei costumi”,Per la Pace Perpetua”, esprime profonde e sistematiche riflessioni sulla natura dei nostri comportamenti pratici, etici e politici.

Famosa, anche per i non addetti agli studi filosofici, è la sua trattazione, nella “Critica della Ragione Pratica”, dell’Imperativo Categorico, inteso come la legge naturale ed universale, inscritta nella mente di ogni uomo.

“Tu devi”, comanda questa legge, in maniera in-condizionata e perentoria, oggettivamente valida per tutti, perché per tutti essa si identifica con la ragione. Questa non comanda nessun contenuto specifico, perché, se lo facesse, perderebbe la sua portata universale, in quanto il suo obiettivo evidentemente non potrebbe essere valido per tutti. Comanda invece il “modo”, il “come” agire, quando in tutte le circostanze e in tutti i tempi perseguiamo i nostri scopi. Ogni tua azione è morale se tu “agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale”. (Critica della Ragion Pratica, A 54). In altri termini alla base di questa formula vige il cosiddetto “principio della generalizzabilità”, cioè che la nostra condotta non sia dissimile da quella degli altri e viceversa.

Non possiamo, in altri termini ancora, giustificare come razionale un nostro atto illecito, perché nel momento in cui lo facessimo, lo dovremmo riconoscere razionale anche per gli altri.

La nostra convivenza civile sarebbe impossibile.

Così come pure a me non sembra provocatorio ed esagerato considerare, alla luce della formula kantiana, la pratica “dell’utero in affitto” un’azione assolutamente immorale, primo perché, se dalle leggi a tutti fosse consentita, qualche rischio di disordine sociale, prima che etico, non sarebbe poi tanto remoto ed inevitabile. E secondo perché questa pratica, detta anche della “maternità surrogata”, confligge chiaramente con il senso altamente morale della seconda formula dell’Imperativo di Kant, che, nella “Fondazione della Metafisica dei Costumi”, BA 67-68, scrive: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”.

E’ una massima tanto limpida ed inequivoca quanto elevatissimo e nobile è il concetto di sacrosanto rispetto, in essa racchiuso, che dovremmo portare per la umanità nostra e per quella degli altri.

(Continua)

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